“La tecnologia è come un bus. Se ti aiuta ad andare dove vuoi andare, allora prendila. Se ti porta in una direzione differente, non farlo”. (1)
Recentemente mi è stata posta una domanda apparentemente banale: “vuoi essere un architetto sognatore o vedere costruito qualcosa che sia frutto del tuo lavoro?”.
Quello che non ho accettato fin da subito è stata la divisione così netta tra ciò che può essere sognato e quello che può essere costruito. Nella mia testa questa distinzione equivaleva ad aver condannato la creatività ad essere una mera utopia, la morte dell’ingegno e di tutto quello in cui credo. Io voglio poter costruire i miei sogni e le mie idee senza dover rinunciare ad uno dei due aspetti: l’inventiva e la concretezza. La distinzione semmai può essere fatta nella metodologia della messa a punto di un’idea e in questo credo sia più giusto parlare di mentalità e di operatività. Essere consapevoli che tutto l’immaginabile può essere immaginato, ma ciò che è immaginabile debba essere anche necessariamente costruito, essendo la costruzione il fine ultimo del mestiere dell’architetto. Questo non significa non poter sognare, d’altronde l’innovazione è di chi è disposto ad osare, è di chi non ha paura a rompere certe barriere ed ha il coraggio di reinventare la realtà che lo circonda ogni qualvolta lo ritenga necessario; è di chi è capace di reinventare gli strumenti con i quali lavora, con i quali prevede come il mondo vorrebbe che fosse.
Quali sono gli strumenti del nostro tempo? Quelli che meglio ci permettono di codificare, rappresentare, capire e in qualche modo cambiare la nostra vita? Le domande, si sa, generano dubbi e la ricerca di risposte genera essa stessa nuove domande, in un circolo che potremmo definire virtuoso poiché là dove si fondono i pensieri, si generano certezze.
Cos’è la tecnologia? In che modo può esserci utile? La tecnologia è una parola “composta” derivante dal greco tékhne-loghia, letteralmente “discorso (ragionamento) sull’arte”, dove con arte si intende il “saper fare”, ovvero la tecnica, e il ragionamento è inteso come comprensione, razionalizzazione. La tecnologia quindi diventa utile nella misura in cui viene recepita come strumento, ovvero come quel qualcosa che ci consente di raggiungere un obiettivo che ci siamo prefissati, un dispositivo che maneggiamo attivamente e criticamente, essendo utenti consapevoli capaci di usarne la “tecnica”.
Che cosa significa “fare” architettura? Quando decisi di intraprendere questa università fui di certo influenzata dalla definizione che l’architetto Renzo Piano diede del suo lavoro. Egli definisce l’architettura come l’arte (la tecnica) del fare, del costruire e di saper rispondere alle esigenze delle persone; un’arte di frontiera, contaminata dalle altre discipline di cui non può fare a meno, contaminata dalla realtà.
L’architettura è un’arte concreta, tangibile, esplorabile con i sensi, con la vista, gli odori, il tatto. Toccare l’architettura, costruirla. Non si può definire l’architettura senza pensare a questa sua dualità, a questa dialettica tra materialità e idealità.
Riflettendo sulla mia esperienza universitaria di questi quattro anni non ho potuto non notare un certo distacco tra questa duplice natura dell’architettura a favore della sua parte intangibile, concettuale, astratta. Non ho imparato a fare architettura, ho imparato a pensarla.
Di certo il “fare” architettura è un aspetto fortemente legato alla pratica del cantiere, difficilmente praticabile durante un percorso universitario, ma l’utilizzo di software BIM (building information modeling) permette di entrare in un ottica di costruibilità dell’architettura, molto più di una tecnologia cad.
“Architecture is a precise, craft-like assemblage of costituent elements carefully fabricated in response of real world needs” (2).
L’architettura è composta da elementi e questi elementi devono poter essere fabbricati. I software BIM, la parametrizzazione di geometrie che ne permettono un controllo quanto più possibile preciso e la possibilità di avere dati numerici generabili nel programma stesso, permettono di pensare e di concepire architetture quanto mai rispondenti alla realtà. In questo senso il software non è solo uno strumento di progettazione, ma anche di verifica e di dialogo, in primis con gli stessi progettisti, che attraverso gli output generati dal programma controllano il progetto in ogni suo aspetto potendone modificare i parametri qualora fosse richiesto, e conseguentemente con gli altri attori provenienti da altri ambiti professionali, come ingegneri, impiantisti, operai, aziende etc.
L’utilizzo di questi software permette di precisare quantità e parametri ma anche e soprattutto di stabilire processi e relazioni, inserendosi in una tendenza alla ricerca della precisione che cerca di rendere minima l’approssimazione tra il reale e il virtuale, non solo nell’immagine del prodotto finale (prima e dopo) ma anche nella sua evoluzione, quella composta di “fasi”, tipiche del cantiere. Quello che ne deriva è una propensione a pre-controllare ogni sviluppo del progetto, dalla sua composizione alla sua realizzazione.
Quanto questo processo di determinazione di ogni aspetto può essere considerato preciso? Quanto i dati di un progetto, soprattutto parlando di aspetti termici, illuminotecnici, legati quindi a delle condizioni locali, possono essere presi in considerazione come precisi? Chi ci assicura che i dati rilevati in quel luogo rimangano gli stessi negli anni a venire? Non sarebbe più giusto quantificarne l’errore?
Di certo attraverso questi strumenti si può almeno provare a controllare più parametri possibili e avere dei riscontri numerici attraverso i quali poter far partire un processo iterativo verso la ricerca delle condizioni operative migliori.
Se da una parte questa metodologia può sembrare una semplificazione del lavoro, in realtà richiede necessariamente un grado di conoscenze che spazia da questioni puramente progettuali a quelle costruttive, passando per quelle tecniche e di processo. L’architetto diventa ingegnere, tecnico-impiantistico, operaio, illuminotecnico e, nella misura in cui si personalizza lo strumento del software attraverso il processo di scripting, anche informatico. Ecco che si delineano i confini attraverso i quali si genera l’architettura, i terreni della sua contaminazione e il software diventa il terreno di scambio di informazioni necessario alla comprensione dei dati da parte di tutti gli attori coinvolti (la famosa interoperabilità). Tuttavia è riduttivo pensare al software unicamente come campo di connessione giacché in questo processo diventa soprattutto il terreno del confronto, dove si possono far nascere e sviluppare nuove conoscenze.
Sorgono spontanee delle domande: dove finiscono le competenze di ogni figura e dove nasce la contaminazione; cosa distingue la figura dell’architetto da quella dell’ingegnere; la distinzione di queste figure professionali tenderà ad assottigliarsi sempre di più grazie all’utilizzo di strumenti che portano inevitabilmente i due campi ad interessarsi uno alle questioni dell’altro, o nasceranno nuove figure sempre più specializzate?
Sorge anche una riflessione più strettamente operativa riguardante i software di progettazione. Ogni progetto è al tempo stesso globale e locale: globale poiché può essere pensato e progettato attraverso i software di simulazione in qualsiasi parte del mondo, grazie a sofisticati sistemi che permettono di collocare un progetto in un terreno esistente ricavandone i dati climatici relativi alla zona di localizzazione; locale poiché la manodopera, le industrie, le aziende e i materiali sono locali e strettamente legati al suolo dove il progetto è destinato. In che misura i “vincoli” locali, riguardanti la reperibilità delle risorse umane e materiali, possono diventare dei parametri?
Ho trovato in questo senso particolarmente interessante l’esperienza di Kevin Klinger presso la Ball State University. All’interno di un laboratorio si sono cercati di stabilire legami con le aziende e le amministrazioni locali, imponendo agli studenti dei vincoli di partenza riguardanti quantità e caratteristiche dei materiali a disposizione. Il progetto, denominato rebarn e riguardante la produzione di piattaforme da installare nei pressi dello White River (Muncie, Indiana), ha visto la classificazione e l’inserimento in un database del materiale a disposizione e ha messo in comunicazione gli studenti con un’azienda locale produttrice di metalli. Si potrebbe pensare a qualcosa di più generalizzabile, magari per macro aree, riguardante tecniche, tipologie costruttive e materiali reperibili nelle zone prese in considerazione?
Al di là di ogni questione posta e di ogni dubbio o riflessione, trovo interessante poter potenziare il bagaglio di strumenti che mi mettono in condizione di trasmettere le idee a diversi livelli. Saper usare diverse tecniche, dal disegno a mano libera (che ho sempre privilegiato) capace di trasmettere una suggestione, al software, che mi consente di conoscere e controllare l’architettura in ogni suo aspetto.
"Tutto rende possibile la realizzazione di un’architettura che sia espressione di un linguaggio. Questo linguaggo è esaminato, inventato e sperimentato sistematicamente reinventando materiali e certi processi, usi o funzioni, che sono costretti o rovesciati. Non è un compito facile, ma è l’unico modo possibile per cercare di creare un linguaggio che sia un’autentica espressione del nostro secolo. Aspiro alla stessa dignità professionale che, forse, gli architetti e i designer apprezzarono nel 16th secolo, l’architetto come “machinatore” che inventa e disegna qualcosa e gli strumenti per farla e poi costruirla fino al minimo dettaglio.” (3)
(1) Renzo Piano, “Giornale di Bordo”, 2005
(2) Andrew Metcalf, “Technology and Renzo Piano”, 2011
(3) Lampugnani, Vittorio M. (1987) Domus 820 – interview with Renzo Piano
BIBLIOGRAFIA
Stefano Converso, " Il progetto digitale per la costruzione. Cronache di un mutamento professionale", Maggioli Editore, 2010
Renzo Piano, "Giornale di bordo", Passigli, 2005
Renzo Piano, Renzo Cassigoli, "La responsabilità dell'architetto", Passigli, 2004
Lampugnani, Vittorio M. (1987) Domus 820 – interview with Renzo Piano
SITI WEB
Andrew Metcalf, “Technology and Renzo Piano”, 2011 (http://formandwords.com)
Bernard Cache, Patrick Beaucé, "Verso un modo di produzione non-standard"