Riflessioni sulla città

Pubblico di nuovo, anche sul blog, un saggio di Paolo Portoghesi che compare anche in altra parte. Lo faccio a beneficio di tutti gli studenti, perché a me sembra possa aiutare la riflessione sul lavoro che ognuno deve compiere.

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Città e produttività. Quale futuro? - Paolo Portoghesi - Presidente della Biennale di Venezia (anni Ottanta)

Si dice: «la città è in crisi». Io faccio lo storico, e devo dire, da storico, che non conosco momenti in cui la città non sia stata in crisi; e penso che, tutto sommato, se dovessimo fare una ricerca storica dovremmo riconoscere che la città in cui viviamo è una delle migliori in cui l'uomo ha albergato dall'inizio della sua carriera.

La crisi è una retorica, che ha però un elemento molto positivo: il senso della crisi dà chiaramente la prospettiva del miglioramento e del peggioramento, ed è quindi uno stimolo all'impegno.

In questo senso il concetto è accettabile; in questo senso può essere anche utile, perché ci rende partecipi non soltanto dei periodi bui, dei periodi peggiori dell'umanità, ma anche dei suoi periodi migliori. Basta studiare a fondo la Grecia di Pericle, che conosciamo come momento di massima accumulazione della civiltà, per capire che indubbiamente anche essa ha visto un rapido succedersi di crisi concatenate l'una all'altra.

Si può, quindi, coabitare con la crisi senza per questo perdere la fiducia, e soprattutto senza perdere l'orientamento: ma per cambiare la società bisogna sapere dove va, perché gli sforzi per cambiarla senza conoscerla, sulla base di progetti astratti, hanno veramente lasciato dietro di sé un vuoto spaventoso.

Siamo in un momento in cui le stampelle dell'ideologia non servono più, e non ci aiutano a capire che cosa succederà domani, quale sarà la città presumibile con la quale saremo chiamati a fare i conti.

Qualunque programma si cominci oggi, essa sarà, anzitutto, una città con meno giovani e più gente matura; e soprattutto con una straordinaria liberazione di tempo disponibile, un tempo non più assorbito dal lavoro.

Sarà una città in cui certamente la casa diventerà una scatola magica, con il rischio però che diventi anche una gabbia dorata. La casa squallida degli slums di fine Ottocento non esiste più, perché anche nel buio del più squallido degli squallori c'è ormai uno schermo che proietta dentro la realtà di un mondo spettacolare, sfarzoso, diverso: un mondo alla continua riscossa di se stesso. E tutto quello che oggi vediamo canalizzato in senso obbligatorio dai programmi di una televisione (che pure in Italia ha raggiunto un grado di pluralismo molto alto), domani lo vedremo in uno spettro ancora più ampio di libertà di scelte. La casa del futuro sarà un luogo in cui ciascuno potrà vivere i propri ricordi, vedere le cose che preferisce, viaggiare stando appunto fermo nella sua stanza.

Questa scatola magica, poi, sarà destinata a allargarsi, perché - qualunque cosa se ne dica - nel momento in cui entrerà in circolazione l'automa-servitore in grado di pulire i pavimenti, si riproporrà il problema di avere maggiore spazio a disposizione, senza più quei freni che fino a oggi avevano avuto una importanza determinante. Siamo in una città in cui la gente aumenta continuamente lo spazio che occupa: avere uno «studio» non è più una caratteristica dei soli professionisti, ma persino delle signore affaccendate, o di giovani che svolgono una attività scolastica. Siamo di fronte a una città in cui lo spazio della casa e dello «studio» tendono a allargarsi smisuratamente.

Sappiamo che questa casa potrebbe però diventare una gabbia, sia pure dorata, perché vivere in casa preclude gli scambi con i propri simili, preclude quella possibilità di vita sociale cui è legata la vita di città e che ne costituisce un alimento indispensabile; preclude infine il contatto con la natura, con gli oggetti reali. A un certo punto, abituati a vedere i monumenti, i paesaggi del mondo, attraverso la televisione, finiremo per perdere la percezione concreta, reale, tridimensionale di questi oggetti, che diventerebbero appunto un misto di colori su una superficie bidimensionale. E questo non è accettabile; in questo modo nasce nella nostra testa e si costruisce e cresce un mondo fittizio che non ha corrispondenza con il mondo reale.

Quindi, noi dobbiamo creare un'antitesi a questa scatola magica, a questa gabbia dorata. E questo non può essere altro che una città diversa da quella in cui viviamo. Qui veramente non dobbiamo tanto crogiolarci nell'idea della crisi, quanto capire che una crisi ben più tragica ci attenderebbe se non sapessimo creare un controaltare a questa tendenza a isolarsi nel nucleo famigliare, a tornare a condizioni che furono condizioni di vita primitiva e che hanno costituito un freno al formarsi della città come luogo di accumulazione della civiltà.

Dicevo che dobbiamo creare spazi competitivi rispetto al momento della fruizione separata di un mondo bidimensionale. Questo si può fare modificando la città in cui viviamo, e diminuendone le contraddizioni, ripensandola come un insieme equilibrato.

Noi proveniamo da un'epoca in cui si faceva coincidere meccanicamente lo sviluppo con il progresso; poi ci siamo accorti amaramente che molto spesso, invece, lo sviluppo significava regresso. Oggi cominciano a farsi strada concetti che erano stati in qualche modo abbandonati o comunque esclusi dalla logica dello sviluppo urbano: per esempio, il concetto di limite, di equilibrio. Torniamo a capire che potrebbe essere molto attuale e significativo un concetto di città chiusa, di città murata, cioè di città capace di programmarsi all'interno di uno spazio definito, perché la definizione dei limiti costituisce uno degli strumenti con cui si possono risolvere i problemi della complessità.

Ritornare al concetto di equilibrio vuole dire anzitutto ridurre quello squilibrio, quella vera schizofrenia urbana che rappresenta la divisione tra centro storico e periferia e che in nessun altro Paese del mondo è così forte come in Italia perché in nessun altro Paese c'è una così straordinaria ricchezza di esperienze urbane del passato: né, diciamo, una tale povertà sul piano delle capacità inventive della nuova città.

Come si può ridurre questa schizofrenia? Evidentemente ripensando la città in termini di equilibrio e non più di sviluppo, non più di esplosione, ma caso mai di implosione: implosione quantitativa, perché non c'è dubbio che le trasformazioni che sono necessarie per arrivare all'equilibrio sono ancora più radicali, più violente, più rivoluzionarie di quelle che sarebbero necessarie per continuare in questa politica suicida dell’esplosione urbana.

L'implosione è difficile, richiede tecnologia raffinata e un controllo perfetto della situazione. Del resto, quella dell'implosione è una tecnica con cui si può demolire un edificio senza creare rischi per nessuno; e quindi è chiaramente l'espressione di una tecnica di controllo degli avvenimenti.

Questa schizofrenia tra centro storico e periferia si può risolvere in due modi: la prima cosa, è guardare ai centri storici con spirito meno feticistico di quello che ci ha guidato. Sono dell'opinione che il salvataggio dei centri storici è stata una grande operazione culturale, forse la più grande e la più positiva che ha compiuto la nostra generazione; però dobbiamo renderci conto che, vinta questa battaglia, se non vogliamo che resti una battaglia isolata, dobbiamo ingaggiarne un'altra: quella, appunto, della riduzione della schizofrenia e quindi del ripensamento di tutta la città, centro e periferia, come un organismo equilibrato. Questo significa proiettare sulla periferia l'ombra del centro storico. Tradotto in strategia concreta, questo vuole dire ripensare il centro storico come parte della città nel suo complesso, non certo come spirito dissolutivo, riprendendo la politica degli sventramenti, ma con quel grado di elasticità che è necessario per un adeguamento che richiede profonde trasformazioni.

Dall'altra parte, proiettare l'ombra del centro storico sulla periferia vuole dire capire che occorre conferire alla periferia quell'identità, che attualmente i cittadini riconoscono soltanto nei centri storici; e quindi bisogna riportare nella periferia qualcosa di ciò che i cittadini continuano, nonostante tutto, a trovare nei centri storici.

Occorre pertanto trovare una capacità simbolica, una capacità di rappresentazione. In una società dello spettacolo e dell'informazione dobbiamo cominciare a capire che la città va pensata anche in termini di spettacolo e di rappresentazione: che il vuoto simbolico prodotto dall'utilitarismo è stato uno dei fattori determinanti di questa distruzione dell'idea di città, di questa incapacità della città moderna di reggere il confronto con la città antica.

Voglio poi sia pure in modo sintetico, fare alcune proposte. Secondo me, una delle soluzioni fondamentali è quella che si potrebbe esprimere attraverso la formula dei fori. Dovremmo cioè costruire nella periferia, utilizzando i vuoti lasciati liberi dall'occupazione del suolo, o anche i contenitori di strutture industriali che non esistono più e che quindi non hanno più bisogno di spazio concentrato, per realizzare i fori, cioè uno spazio in cui la vita collettiva riconosca il suo luogo deputato. Qualcosa che però assomigli più che ai fori della città antica alla piazza della città medioevale, in cui ci sia un intreccio di funzioni miste capaci di sfruttare al massimo tutte le possibilità di attrazione.

Se vogliamo vincere questa battaglia competitiva con la casa diventata una scatola magica, dobbiamo realizzare spazi collettivi che abbiano il massimo di attrazione. Dobbiamo utilizzare, per esempio, il commercio. Attualmente, esso viene considerato negativamente, o come mero dato quantitativo; mentre nel computo degli standard va viceversa considerato una straordinaria potenzialità per la creazione di un «effetto urbano»: per la creazione appunto di questa qualità riconoscibile in cui si compia il processo di immedesimazione tra l'uomo e lo spazio costruito dall'uomo, che è sempre stato il filo conduttore della costruzione della città.

I fori devono essere il luogo di aggregazione di alcune funzioni pubbliche, che vanno però intrecciate con le funzioni private, associate al commercio. E intorno a questi fori devono nascere quelle tipologie nuove che rispondono ai nuovi bisogni e ai desideri della società post-industriale. È chiaro che la casa non può dare l'intensità e la ricchezza di possibili informazioni che potrebbe dare un centro collettivo attrezzato; insieme alle biblioteche devono nascere centri di informazioni capaci di canalizzare e di conservare la memoria e il patrimonio culturale a livello planetario.

Tutto questo deve trovare luogo attorno a questi fori, i quali - secondo me - devono avere alcune caratteristiche che li rendano competitivi con il centro storico, e altre invece specialistiche di una parte nuova della città che deve vedere la centralità e la capacità di attrazione in termini nuovi.

A questo punto il centro storico diventerà non il solo centro della città, ma uno dei centri della città.

E, accanto a quel movimento centripeto che attualmente rende cosi precaria l'utilizzazione e l'uso delle strutture dei centri storici, ci dovrà essere un moto centrifugo, legato non soltanto a problemi di residenza e di lavoro, ma legato al problema di appetibilità di funzioni collettive e di strutture dedicate alla cultura.

Non c'è dubbio infatti che la cultura, in un senso nuovo, certamente meno élitario e meno paludato di quello che oggi attribuiamo a questa parola, sarà protagonista del mondo di domani, e rivelerà sempre più le sue caratteristiche non solo sovrastrutturali ma strutturali, di influenza diretta sul meccanismo economico e produttivo.

Avremo in avvenire una città in cui la cultura tornerà a occupare uno spazio molto ampio, riprendendo il ruolo che aveva avuto in senso estensivo in certe Capitali del mondo antico, dove effettivamente le attività produttive erano ridotte al minimo e le attività erano concentrate, sia pure parassitariamente, in senso di godimento e di approfondimento della cultura; e per una prospettiva di questo genere, non c'è dubbio che la città deve cambiare la sua identità.

La costruzione di poli concentrati, di queste forze di attrazione distribuite in una rete policentrica è dunque sicuramente uno degli obiettivi che vanno perseguiti.

Di certo, però, questo obiettivo non va perseguito con un criterio di interventi puntiformi, che abbandonano l'idea della pianificazione come un'idea superata. La contrapposizione tra concretezza del progetto e astrazione del piano è una contrapposizione manichea che dobbiamo rifiutare. La politica del piano, la cultura del piano, sono indispensabili alla società del futuro quanto può esserlo l'esigenza di cimentarsi in progetti concreti. Bisogna riuscire a collegare queste due cose, e a non assumere l'atteggiamento per cui quando cambia la moda si butta via tutto quello che stava alle nostre spalle, rovesciando assieme all'acqua sporca il bambino che stavamo lavando nel bagnetto.

Il piano serve anzitutto perché questa realtà policentrica non sia una realtà di isole, ma una realtà strutturale, una maglia, una rete.

Una rete policentrica non può esistere che attraverso la soluzione del problema dei collegamenti e dei trasporti: che però non devono esser pensati soltanto funzionalmente come collegamenti realizzabili con ferrovia veloce in superficie o sotterranea, bensì in termini di fruizione contemplativa della città. Diversamente, questa sarebbe un'altra occasione perduta.

Bisogna capire che il collegamento di questi centri deve avvenire, oltre che con mezzi meccanici, attraverso grandi viali alberati che non abbiano il taglio della stradetta miserella accompagnata da qualche alberuccio qua e là, ma che abbiano veramente il respiro che le strutture di collegamento hanno avuto nell'epoca in cui sono sorte, soprattutto come affermazione di un'esigenza visiva: parlo di Versailles, parlo dei Champs Elysées. Sono queste, secondo me, le strutture, capaci di dare una risposta al bisogno di città che oggi si comincia a delineare per una società che avrà a disposizione più tempo libero di quanto oggi ne abbiamo, e che avrà la cultura come centro motore di una serie di attività e di prospettive aperte verso la trasformazione.

Ecco quindi come si può delineare una risposta corretta, basata sull'esperienza e sugli errori fatti, che non vanno appunto rifiutati aprendo pagine bianche e liberando la memoria con colpi di spugna, ma che vanno invece utilizzati perché gli errori e le esperienze che stanno alle nostre spalle sono la materia con cui possiamo costruire qualcosa di più certo.

Quello che credo sia necessario per guarire la città, non solo da una condizione di crisi che sarebbe una condizione fisiologica, ma proprio da una carenza di progetti e di obiettivi precisi, da una carenza di convergenze ideali, è l'impegno di mettere a fuoco studiandole nei loro riflessi, nelle loro possibilità concrete e nella loro fattibilità operazioni di questo taglio, che abbiano il valore complessivo di basarsi su una strategia territoriale, e che posseggano quella forza che deriva dalla concentrazione. La forza, appunto, del progetto, legata anche a un'immagine eloquente che torni a adoperare l'architettura come strumento di comunicazione e non soltanto come strumento di realizzazione di obiettivi pratici e funzionali.

Non dimentichiamo che il linguaggio parlato dall'architettura è il linguaggio della città, ed è stato per secoli - almeno per la civiltà italiana - il filo conduttore di un altissimo magistero. È questa parola che dobbiamo restituire all'architettura; non per ragioni corporative o perché questo corrisponde a una certa tendenza del gusto, ma proprio per dare concretezza alla risposta da dare ai desideri e alle aspirazioni di una società che cambia sotto i nostri occhi e che dobbiamo guardare con sufficiente spregiudicatezza ma anche con sufficiente amore.