blog di Filippo Scheggi

Architettura, permanenza. Josè Ignacio Linazasoro e Aldo Rossi

 

L’esempio di Linazasoro bene si inserisce nel discorso sulla permanenza storica ed il recupero affrontato la volta scorsa. Come afferma lo stesso progettista, il suo lavoro riguarda la ricerca di una "architettura vera e pura, (…) un’arte che lascia un segno nel tempo e non una semplice espressione personale". Edifici fortemente legati al sito e alla sua storia.

E’ questo il caso della Biblioteca nel quartiere di Lavapiés a Madrid, in cui si interfacciano architetture di epoche diverse. Realizzato tra il 1996  e il 2004, l’edificio è stato costruito nel sito di una chiesa settecentesca, fortemente danneggiata durante la guerra civile spagnola. L’architetto ha cercato di mostrare la possibilità di integrazione tra ciò che è nuovo e ciò che appartiene al passato, proponendo un nuovo ordine all’esistente: i resti dell’antico sono riutilizzati ed inglobati nel nuovo edificio. Un solido connubio tra ciò che è stato restaurato e le parti di nuova costruzione. "La biblioteca riutilizza in parte i resti della chiesa barocca e questo le permette (…) di approfittare della potenzialità espressiva della rovina".

La presenza storica ha condizionato Linazasoro nella scelta dei materiali, optando per il mattone nella ricerca di uniformità. Un materiale nobile legato alla terra, collaudato da migliaia di anni di esistenza.

 Le rovine diventano parte integrante di uno spazio totalmente nuovo, reinterpretato, rinnovato. E’ un intervento urbano, che gravita intorno al ‘segno’ dei resti della chiesa. 

E’ questa negazione del passato? No, forse piuttosto un atteggiamento più aperto che ammette un utilizzo della “permanenza” e la garanzia della sua continuità nel tempo, del suo continuo mutamento. Niente viene abbandonato, può ancora parlare, può ancora esprimere il suo carattere storico. Nonostante sia differente il suo (ri)uso, e la funzione originaria nel tempo abbia modificato la sua natura, è come se il suo valore non fosse mai diminuito, anzi, viene sovrapposto, senza invasività, il contributo di una cultura in continuo movimento. Abbiamo la necessità di progredire, ma nel rispetto del preesistente. Un esempio raffinato di “corretto”  progetto moderno nel contesto storico.

Tema molto delicato,  tutt’oggi trova opinioni discordanti ed in continua evoluzione.

 Aldo Rossi  nel suo --Architettura della Città- affrontando la questione dice che “La città è il prodotto di un lavoro incessante, è anche un immenso deposito di fatica umana: quindi in essa memoria e fatica tendono a coincidere; la memoria non è un repertorio statico di oggetti passati; è invece la consapevolezza di un processo che è stato, ma che si allunga nel presente e nel futuro”.

Il rapporto con il passato non è di illogica incompatibilità bensì di una sana complicità nello stesso sviluppo culturale.

Progettare l’Architettura significa portare a coerenza le spinte della contemporaneità e quelle della memoria: e la città è il deposito della memoria”.

Il suo volere è quello di sottolineare un’architettura che DEVE essere pensata come “ creazione umana” di un valore che ha una “natura collettiva” e che deve essere tramandata, curata ed apprezzata senza dover rinunciare al nuovo contributo; al pensiero contemporaneo. DEVE saper far convivere la sua natura, seppur diversa, nel presente, passato e futuro. Allora ha senso considerare l’architettura come custodia di fatica umana e della sua memoria; perchè non ha finito di scrivere la sua storia, bensì continua il processo di crescita; si “allunga” all’odierno e al suo futuro.

 

 

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi di Palazzo Massimo alle Terme e della Palazzina di Libera ad Ostia

 

Palazzo Massimo fu costruito tra il 1883 e il 1887 dall’architetto Camillo Pistrucci. Qua sorgeva la cinquecentesca villa Montalto-Peretti, passata poi di proprietà ai principi Massimo. Il palazzo svolse principalmente due funzioni: prima la funzione di collegio d’istruzione (fino al 1960) poi è stato acquistato dallo Stato italiano e restaurato grazie ai finanziamenti della legge 92/81 per la valorizzazione del patrimonio archeologico di Roma. La sede museale, inaugurata nel 1998, ospita le sezioni di arte antica, numismatica e oreficeria del Museo Nazionale Romano. In questi anni ci sono stati dei finanziamenti agevolati dallo stato per la risistemazione e la cura degli allestimenti interni. Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia sono stati incaricati, con la missione di rendere questi spazi , anonimi e privi di una corretta lettura pedagogica, fruibili e piacevoli al visitatore. L’input di ogni scelta parte sempre  dall’opera o dalla persona che dovrà ospitarla. Il compito sembra più che riuscito. I due “incaricati” riscontrano fra gli spettatori un maggiore interesse verso le opere stesse. Fra le varie soluzioni adottate notiamo con efficace risultato l’uso di una cromia per le facciate parietali interne che tende ad esaltare il colore stesso delle opere scultoree, così, da renderle effettivamente le attrici principali delle numerose sale. Le luci coadiuvano le cromie, le tamponature ed i percorsi, al fine di ottenere una gradevole “lettura” museale. Per uno, come me, che studia questi tipi di soluzioni progettuali risulta raffinato e minuzioso il lavoro dietro ad ogni singola opera. Attenti nei dettagli, con degli escamotage, hanno voluto rendere più bassa l’altezza di una sala ( vecchio teatro del convitto, che precedentemente era alta circa 9 metri) ma senza oscurare completamente l’immagine architettonica che fino a quel momento l’aveva caratterizzata: dei panneli regolabili,sospesi tramite cavi in acciaio sono disposti a quote differenti per non creare un piano unico di tamponamento (un controsoffitto) ma dare la possibilità, al visitatore, di intravedere anche la parte sovrastante. In questi pannelli sono stati inseriti una serie di apparecchi illuminanti a led che creano una specie di “cielo stellato” che permette la corretta illuminazione di ogni singola opera. Un sistema di illuminazione biodinamica caratterizza , invece, la sezione che ospita gli affreschi di epoca Augustea. Qua è di impatto maggiore la “mano” dei progettisti, i quali fanno uso delle tecniche di percezione visiva più  avanzate per destare interesse e una corretta visione. Ammetto che non ricordo bene come è  fatto l’edificio, bensì ho l’immagine impressa nella memoria di alcune opere esposte. Questo significa che il lavoro dei progettisti è più che riuscito; anche se, ricordo, che durante la visita a questa seconda sezione, lamentavo con alcuni colleghi l’invasività del “nuovo sul vecchio”. Semplice impressione o triste abitudine critica ( non tutto deve essere perfetto per un architetto, c’è sempre qualcosa che poteva essere fatto meglio), fatto sta che il ricordo della visita e l’interesse suscitato è positivo, il che rende riuscita ( per quanto mi riguarda) la loro intenzione. Tutt’altra situazione è quella della palazzina di A. Libera ad Ostia Antica: Edificio degli anni trenta del ventesimo secolo, uno dei simboli dell’architettura razionalista italiana che caratterizzava quel periodo storico. Qua l’intervento di Roberta Rinaldi consiste nel restauro e ripristino ideologico della palazzina stessa. Infatti, l’edificio, si presentava all’esterno in una condizione di abbandono totale: intonaco giallo ocra (per altro colore inappropriato) distaccato nella maggior parte della superficie esposta sul litorale perché realizzato con il quarzo plastico, che blocca l’azione traspirante dei muri; il terrazzo, che presentava una fisionomia diversa da quella originariamente disegnata, con problemi d’infiltrazione dell’acqua; i ferri dei balconi ossidati a causa degli agenti atmosferici; gli infissi differenti tra loro perché  la palazzina è abitata da tre inquilini. La palazzina di Libera era diventata un monumento fatiscente in stato di abbandono totale, al quale si prevedeva un demolizione. Non è classificato come bene culturale quindi era in piena padronanza del degrado e degli inquilini, i quali si sono subito allarmati quando hanno sentito parlare di restauro finanziato da loro stessi. Ridotti al minimo i costi d’intervento e convinti i condomini, il progetto di ripristino è maturato sotto la mano ferma dell’architetto Roberta Rinaldi, supervisionata e diretta dal Professore Alfredo Passeri. La soddisfazione è tanta, sia da parte degli architetti che da parte degli abitanti della palazzina che ora si ritrovano il valore dei loro appartamenti (140 mq ca) triplicato. Infatti, da 1500,00 €/mq del 1999 a 5000,00 € m/q , del valore attuale. Allora, un restauro ben eseguito e curato funziona? Si, funziona molto bene e riesce a dare una dignità storica e di presenza architettonica a se stesso come al suo immediato intorno. Il problema risiede ,ahimè, nella cultura delle persone di fronte a questi temi, sempre molto discussi dalla critica, ma  poche volte affrontati. Riusciamo a dar valore ad un opera solo se continuamente ne prendiamo cura, con criteri giusti e ragionati, ma sotto una costante attenzione. Risulta sempre più facile demolire e creare qualcosa di nuovo, succede nella vita e non solo nell’architettura, ma questo approccio non si addice a noi….che ammiriamo, studiamo e valorizziamo il “bello”.