Prime impressioni sulla fattibilità: i casi del palazzo Massimo alle Terme e della palazzina di Libera ad Ostia

 

Palazzo Massimo alle Terme

L’ edificio fu costruito tra il 1883-87 da parte dell’ Architetto Camillo Pistrucci su committenza del gesuita Massimiliano Massimo. Il palazzo Massimo, che va ad occupare la villa Poretti-Montalto, svolge la funzione di collegio d’istruzione fino al 1960; acquistato nel 1981 dallo Stato italiano, è interessato da un primo intervento di restauro a cura dell’ architetto Costantino Dardi, che ha il compito di predisporlo ad ospitare parte del Museo Nazionale Romano e uffici della soprintendenza.

L’ architettura del palazzo cambia così per riadattarsi alla nuova destinazione d’uso: l’esposizione d’arte. Il progetto è ambizioso e complesso, infatti l’intervento dovrà lasciar spazio a compromessi per molteplici motivi, tra i quali l’ inadeguatezza degli spazi poichè le vecchie aule scolastiche risultano piuttosto piccole e dunque sarà necessaria la modifica degli interpiani.

Oggi l’ edificio è oggetto di un nuovo progetto a cura di Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia. L’ approccio degli architetti è stato di continuità rispetto al passato, infatti risulta chiaro il tentativo di lasciare tracce delle configurazioni precedenti (i ballatoi del coro della sala un tempo adibita a teatro della scuola; l’ impronta della visione dell’architetto Dardi, del suo concetto di “osservare l’arte da fessure”).

Per quanto riguarda la resa degli spazi espositivi credo che gli architetti abbiano saputo sfruttare al massimo e con economia le possibilità dell’edificio, studiando molto accuratamente la luce e la cromia degli ambienti per enfatizzare le opere, inserendole negli spazi a disposizione con tecniche quasi scenografiche.

Ritengo inoltre utile e positiva la conversione di vecchi fabbricati, per nuove funzioni specie se di sfondo culturale e di interesse pubblico.

Dopo aver fatto una breve analisi descrittiva dei lavori effettuati, si può ardire al porsi una domanda: perché stravolgere un edificio pensato originariamente per tutt’altra funzione? Perché non riutilizzare altri edifici più spaziosi e che meglio si prestino ad ospitare un’ esposizione?

L’ambiziosità e la complessità sono sicuramente valori aggiunti che caratterizzano le grandi opere. Il punto sta nel capire in quale caso e in che misura valga la pena trasformare un edificio e stravolgere la propria funzionalità per nuovi scopi.

Infatti la domanda successiva che mi pongo è come si poteva fare diversamente? Come si potevano organizzare gli spazi, quali impianti e disposizioni avrei concepito? Oppure, più radicalmente, quali erano i siti alternativi che potevano ospitare la mostra?

Rispondere a queste domande mi risulta piuttosto difficile data la scarsa disponibilità di elaborati e documenti riguardo l’iter del lavoro.

Spostando ora la discussione sul piano prettamente economico, pur non conoscendo l’effettiva cifra sostenuta, posso intuire che la spesa è stata notevole già solo considerando l’entità dell’intervento di modifica delle quote dei solai.

Penso che sia un’ operazione  sterile considerare una cifra, senza rapportarla alla qualità del prodotto finale  ed è proprio tenendo presente questa relazione che ritengo  il progetto “fattibile” ,in quanto il rapporto tra costo e qualità risulta bilanciato.

In conclusione, considerando le ingenti difficoltà di partenza credo che l’intervento, sia in termini economici che architettonici (costi-benefici), debba essere considerato riuscito per la modalità in cui sono riusciti ad esplicare la nuova funzione dell’ edificio e per il valore culturale e sociale rappresentato dall’ opera.

 

Palazzina a Ostia – Arch. Adalberto Libera

 

In questo caso l’intervento di restauro è atto a ripristinare più che sconvolgere la funzionalità e l’integrità del fabbricato in oggetto.

La complessità di questo lavoro è rappresentata, oltre che dalle condizioni fisiche dell’edificio, dall’ opposizione dei proprietari all’intervento di restauro, causata principalmente da motivi economici. Questi infatti furono quasi costretti ad affrontare l’intervento, dato che era stato decretato lo stato di emergenza e l’ordinanza di demolizione della palazzina.

In termini di fattibilità dunque, rispetto all’altro caso, le condizioni di criticità giustificano la necessità di un intervento.

Dato il valore storico dell’edificio, credo che si sarebbe dovuto fare tutto il possibile per riportarlo allo stato ottimale come è stato effettivamente fatto dalla commissione di architetti, nonostante le esigue capacità economiche e le difficoltà affrontate nell’esecuzione dei lavori.

Dal punto di vista della fattibilità il pesante stato di degrado si scontra con il grande valore architettonico rappresentata dall’opera. Quindi, se da un lato c’è l’ordinanza di demolizione perché edificio pericolante, dall’altra parte c’è la volontà di salvare un pezzo di storia spinta dalla sensibilità culturale e dalla lotta all’ incuria dei “beni culturali” che spesso si nota nel nostro paese.

Come per il palazzo Massimo, la mancanza di fondi non ha consentito di rispettare totalmente il progetto originario, tuttavia la tenacia dei progettisti ha saputo valorizzare l’entità storico-culturale dell’edificio.