blog di lorenzo.cacchi

Il Valore della Permanenza

 

Il valore della Permanenza

 

Il concetto di permanenza in architettura è legato al concetto di tempo e in particolare agli eventi consequenziali a cui un bene è soggetto.

Ciò che mi è sembrato doveroso notare, nella scorsa lezione, è l’importanza rappresentata dalle “tracce antropiche” che permangono nel tempo e la loro rilevanza nel descriverci informazioni appartenenti alla storia. Così come le più antiche vie di comunicazione si ritrovano lungo i crinali degli altopiani, data la loro immunità dalle esondazioni, non a caso, spesso le circonvallazioni sorgono presso le antiche cinte murarie delle città, la centuriatio e il sistema cardo-decumanico romani, permangono, come direttrici, determinando l’assetto di molti centri di origine romana. I tracciati viari sono dei segni che, spontaneamente, tendono a permanere nella storia, per cause naturali, oppure a testimonianza dei notevoli interessi che essi sostenevano nel tempo attraverso le città e i relativi edifici e fronti e tutti i luoghi che, in questo modo, andavano a valorizzare. Un altro valido esempio delle vie di comunicazione come permanenza, riguarda il caso singolare di Broadway Avenue, antica via di percorrenza dei nativi americani, che si insinua nella maglia squadrata di New York come un forte segno di rottura del reticolo regolare.

Uno dei compiti più virtuosi dell’ architetto è decidere cosa deve essere tramandato ai posteri. Ogni intervento di recupero necessità un’ interpretazione, e aldilà della scelta che si compie è importante seguirla fino in fondo per non generare degli ibridi. Come nel caso del Pantheon o dell’ anfiteatro di Arles, si è scelto di eliminare gli elementi, considerati superfetazioni, che confondevano, compromettendo, il significato didascalico che essi dovevano rappresentare. Permanenza significa dunque memoria, a volte anche specifica, come lo sono i metri dello sbancamento effettuato presso i fori riportati nella lunghezza della colonna traiana; aldilà della più esplicita vicenda storica documentata nei bassorilievi della stessa.

Il concetto di “dovere etico” è insito in quello della “permanenza”: il dovere di non lasciare in decadenza i beni artistici e culturali; il dovere di compiere una scelta precisa e di rispettarla; il dovere (e la responsabilità) di eseguirla secondo regola d’arte. Affinché  l’ opera ben restaurata sia restituita alla comunità, nel presente, e alla relativa memoria collettiva.
Non bastano solo le intenzioni del restauratore: il processo produttivo è molto più complesso e si scontra spesso con i problemi pragmatici legati al rapporto con la committenza (privato o ente che sia), con l’impresa esecutrice (e la manodopera), con la burocrazia delle norme, tutto poi ricondotto a problemi di tipo economico.

 

"Cupido che dorme è l’antica architettura, il monumento. Psiche, curiosa, con la lucerna, è l’architetto, l’ingegnere, il tecnico. Ma una goccia di olio bollente cade dalla lucerna: è l’azione di “restauro”. Cupido si sveglia e fugge via, così l’autenticità è compromessa."

Sono d’accordo solo in parte con questa affermazione, infatti, se è vero che intervenire significa modificare, non vuol dire anche, necessariamente, compromettere, in questa accezione allora siamo tutti colpevoli di aver alterato la storia, in un modo o nell’ altro. Indubbiamente si è sempre commesso errori - anche irreparabili talvolta, però quello che maggiormente non riesco a comprendere, è il motivo di tanto screditamento: perché il restauro, oggi, deve necessariamente essere percepito con tanta diffidenza? Come se oggi nessuno (o quasi) avesse le credenziali per interferire con la storia, in altre parole, come se ciò che si compie nel presente è necessariamente di un livello inferiore rispetto all’ operato dei nostri avi e che in una maniera o nell’altra si finisce col rompere la stessa “autenticità”.

Capisco che il lascito della storia è spesso considerato un fardello spesso troppo complicato da interpretare, e capisco che si sono commessi tanti o/errori che si parte demoralizzati, però non sono d’accordo con coloro che hanno timore di intervenire per paura di disturbare il sonno infinito di Cupido.
Non che questo significhi che bisogna intervenire sempre e comunque, spesso si tratta solo di affidare l’incarico in maniera coscienziosa.

Per concludere credo che l’obbiettivo, in particolare quando un determinato bene è in stato precario, sia quello di intervenire per “salvarlo” dalla decadenza e che, il problema dei restauri con esito negativo, possa in parte essere risolto affidando l’ incarico, esclusivamente, cercando di far prevalere il merito, per esempio attraverso i concorsi pubblici.

Un ottimo esempio di “costruire in continuità con l’antico”, è rappresentato dal progetto del Museo realizzato da Peter Zumtor nel centro di Colonia, presso le rovine di una chiesa tardo gotica andata distrutta durante la seconda guerra mondiale. Progetto scelto proprio in occasione di un concorso pubblico.

“Zumthor ha progettato nell’area delle rovine una grande hall, delimitata nella parte bassa in muri di mattoni quali prosecuzione delle antiche pareti della chiesa: una soluzione ardita e coraggiosa, che ha riscontrato l’approvazione e l’appoggio dei committenti e l’assenzo, non scontato, della soprintendenza ai monumenti” (http://www.archisquare.it/peter-zumthor-kolumba-museum-colonia/).

La cortina laterizia bianca, messa in opera in continuità con la preesistente, si contraddistingue nettamente rispetto a quest’ultima per il colore chiaro, in questo modo la muratura antica risalta su quella nuova. L’ approccio di Zumtor sembra quello di voler rispettare il patrimonio artistico valorizzandolo con un architettura che risponda a delle esigenze odierne.

 

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi del palazzo Massimo alle Terme e della palazzina di Libera ad Ostia

 

Palazzo Massimo alle Terme

L’ edificio fu costruito tra il 1883-87 da parte dell’ Architetto Camillo Pistrucci su committenza del gesuita Massimiliano Massimo. Il palazzo Massimo, che va ad occupare la villa Poretti-Montalto, svolge la funzione di collegio d’istruzione fino al 1960; acquistato nel 1981 dallo Stato italiano, è interessato da un primo intervento di restauro a cura dell’ architetto Costantino Dardi, che ha il compito di predisporlo ad ospitare parte del Museo Nazionale Romano e uffici della soprintendenza.

L’ architettura del palazzo cambia così per riadattarsi alla nuova destinazione d’uso: l’esposizione d’arte. Il progetto è ambizioso e complesso, infatti l’intervento dovrà lasciar spazio a compromessi per molteplici motivi, tra i quali l’ inadeguatezza degli spazi poichè le vecchie aule scolastiche risultano piuttosto piccole e dunque sarà necessaria la modifica degli interpiani.

Oggi l’ edificio è oggetto di un nuovo progetto a cura di Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia. L’ approccio degli architetti è stato di continuità rispetto al passato, infatti risulta chiaro il tentativo di lasciare tracce delle configurazioni precedenti (i ballatoi del coro della sala un tempo adibita a teatro della scuola; l’ impronta della visione dell’architetto Dardi, del suo concetto di “osservare l’arte da fessure”).

Per quanto riguarda la resa degli spazi espositivi credo che gli architetti abbiano saputo sfruttare al massimo e con economia le possibilità dell’edificio, studiando molto accuratamente la luce e la cromia degli ambienti per enfatizzare le opere, inserendole negli spazi a disposizione con tecniche quasi scenografiche.

Ritengo inoltre utile e positiva la conversione di vecchi fabbricati, per nuove funzioni specie se di sfondo culturale e di interesse pubblico.

Dopo aver fatto una breve analisi descrittiva dei lavori effettuati, si può ardire al porsi una domanda: perché stravolgere un edificio pensato originariamente per tutt’altra funzione? Perché non riutilizzare altri edifici più spaziosi e che meglio si prestino ad ospitare un’ esposizione?

L’ambiziosità e la complessità sono sicuramente valori aggiunti che caratterizzano le grandi opere. Il punto sta nel capire in quale caso e in che misura valga la pena trasformare un edificio e stravolgere la propria funzionalità per nuovi scopi.

Infatti la domanda successiva che mi pongo è come si poteva fare diversamente? Come si potevano organizzare gli spazi, quali impianti e disposizioni avrei concepito? Oppure, più radicalmente, quali erano i siti alternativi che potevano ospitare la mostra?

Rispondere a queste domande mi risulta piuttosto difficile data la scarsa disponibilità di elaborati e documenti riguardo l’iter del lavoro.

Spostando ora la discussione sul piano prettamente economico, pur non conoscendo l’effettiva cifra sostenuta, posso intuire che la spesa è stata notevole già solo considerando l’entità dell’intervento di modifica delle quote dei solai.

Penso che sia un’ operazione  sterile considerare una cifra, senza rapportarla alla qualità del prodotto finale  ed è proprio tenendo presente questa relazione che ritengo  il progetto “fattibile” ,in quanto il rapporto tra costo e qualità risulta bilanciato.

In conclusione, considerando le ingenti difficoltà di partenza credo che l’intervento, sia in termini economici che architettonici (costi-benefici), debba essere considerato riuscito per la modalità in cui sono riusciti ad esplicare la nuova funzione dell’ edificio e per il valore culturale e sociale rappresentato dall’ opera.

 

Palazzina a Ostia – Arch. Adalberto Libera

 

In questo caso l’intervento di restauro è atto a ripristinare più che sconvolgere la funzionalità e l’integrità del fabbricato in oggetto.

La complessità di questo lavoro è rappresentata, oltre che dalle condizioni fisiche dell’edificio, dall’ opposizione dei proprietari all’intervento di restauro, causata principalmente da motivi economici. Questi infatti furono quasi costretti ad affrontare l’intervento, dato che era stato decretato lo stato di emergenza e l’ordinanza di demolizione della palazzina.

In termini di fattibilità dunque, rispetto all’altro caso, le condizioni di criticità giustificano la necessità di un intervento.

Dato il valore storico dell’edificio, credo che si sarebbe dovuto fare tutto il possibile per riportarlo allo stato ottimale come è stato effettivamente fatto dalla commissione di architetti, nonostante le esigue capacità economiche e le difficoltà affrontate nell’esecuzione dei lavori.

Dal punto di vista della fattibilità il pesante stato di degrado si scontra con il grande valore architettonico rappresentata dall’opera. Quindi, se da un lato c’è l’ordinanza di demolizione perché edificio pericolante, dall’altra parte c’è la volontà di salvare un pezzo di storia spinta dalla sensibilità culturale e dalla lotta all’ incuria dei “beni culturali” che spesso si nota nel nostro paese.

Come per il palazzo Massimo, la mancanza di fondi non ha consentito di rispettare totalmente il progetto originario, tuttavia la tenacia dei progettisti ha saputo valorizzare l’entità storico-culturale dell’edificio.