L’architettura Razionalista e la Damnatio Memoriae
Negli anni Venti e Trenta in Italia nel difficile clima politico e culturale si fa strada, per iniziativa dei giovani del «Gruppo 7», l’interesse al «movimento moderno». Ne fanno parte Giuseppe Terragni, Gino Pollini, Luigi Figini, Sebastiano Larco, Carlo Enrico Rava, ai quali si aggiunge Adalberto Libera.
Luigi Moretti fu un esponente di primo piano del gruppo di architetti che costituirono l'avanguardia, in quella formidabile stagione dell'architettura italiana.
Una delle opere più significative della produzione di Luigi Moretti è la Casa delle Armi al Foro Italico progettata nel 1934 e costruita nel 1935. E’ il primo edificio dopo l’età classica completamente rivestito in marmo lunense.
La vicenda dell'edificio è caratterizzata da vicissitudini rocambolesche: non entrò mai pienamente in funzione, fu dimenticato sino agli anni Ottanta, quando venne riadattato ad aula bunker per i processi al terrorismo, subendo così tante modificazione che ne rendono molto difficile il recupero.
Si tratta di un tesoro architettonico e urbanistico completamente rimosso dal dibattito culturale odierno, la cui sfortuna è stata solamente quella di essere stato realizzato in un periodo storico brillante dal punto di vista artistico, ma scuro dal punto di vista politico.
Ma è solo un’architettura italiana e fascista?
Per chiarire tale concetto si fa riferimento all’architettura dello stesso periodo storico di altre capitali estere. Infatti la Parigi di quei tempi era quella del fronte popolare di Lèon Blum e guardando le architetture dello stesso periodo possiamo notare molti caratteri in comune. Nella Washington di Franklin Roosevelt, l’architettura federale segue la medesima cifra architettonica dell’Italia di Mussolini, la Federal Reserve ha gli stessi ritmi dei palazzi di Roma o di Milano. Uno stile internazionale, dunque, che ha il suo centro di nascita in Italia.
Era un’architettura fatta per durare nei secoli, non era fascista, ma divenne un aulico modello internazionale.
Dopo il lungo periodo, di natura sostanzialmente morale e politica, opposto a tale architettura, molti in Italia hanno cominciato ad analizzarla senza i pregiudizi e stereotipi ideologici, e a rivalutarne il valore architettonico; quel valore che ha reso l’Italia capace di esportare a livello internazionale un modello architettonico.
Il Vecchio e il Nuovo
Una antica polemica riconosceva contrapposti due campi in cui si vedevano schierati da un lato i sostenitori di una sostanziale libertà di comportamento dell’architetto nei confronti dell’antico, da subordinare ad un progetto del nuovo in cui permangono eventualmente le tracce di ciò che un tempo sussisteva. L’antico riletto ed interpretato viene ricondotto al moderno. Viene effettuata un’operazione selettiva frutto di un implicito giudizio critico attraverso la sensibilità del progettista. Viene in mente la teoria del restauro critico, articolata da Roberto Pane e Renato Bonelli, con il “giudizio critico” e l’”atto creativo”.
Sul fronte opposto c’è chi invece pone in primo piano l’autonomia dell’antico, la sua trasmissione al futuro, come portatore di valori irripetibili, come portatore del sentimento d’arte di una civiltà, testimonianza della capacità artistico costruttiva di una determinata epoca.
Paolo Marconi con Arte e cultura della manutenzione dei monumenti, del 1984, pone l’esigenza di comprendere l’architettura come testimonianza storica. Egli rifiuta la dialettica opposizione tra nuovo intervento e antica fabbrica e rifugge anche la necessità di distinzione tra nuovo e vecchio. Ritiene quindi necessario muoversi in una continuità governata dalle forme, dalle materie e dalle abilità costruttive. Da tutto questo nasce l’esperienza dei Manuali del Recupero in cui l’elemento conoscitivo diventa un supporto e una guida sicura all’azione.
Il rapporto tra vecchio e nuovo è quindi un tema molto discusso in architettura. Ogni qual volta si interviene su qualche preesistenza storica ci si chiede fino a che punto debba spingersi l’incisività dell’architetto.
La questione del rapporto tra nuovo e antico, non cessa di essere d’attualità e continua ad alimentare il dibattito tra gli architetti e gli organi preposti alla tutela del patrimonio storico.
Su questo difficile rapporto si è cimentato Rafael Moneo nella progettazione del Museo del teatro romano a Cartagena. Moneo realizza all’interno del museo un percorso. Lungo il percorso si incontrano una serie di preesistenze, “trasformando frammenti di accadimenti appartenenti a epoche tra loro lontane in un tessuto ben ordito”.
In questo modo Rafael Moneo valorizza frammenti di storia della città offrendoli ai visitatori.
Un ulteriore esempio, di come l’architettura possa far emergere monumenti millenari portatori di valori storici che giganteggiano nella solitudine, rendendoli fruibili e conosciuti, è offerto da Peter Zumthor nel museo diocesano di Colonia.
L’edificio sorge sulle rovine di un chiesa tardogotica distrutta durante la seconda guerra mondiale. Il bando del concorso prevedeva quindi l’inserimento nel museo dell’area archeologica e medievale. Zumthor ha, pertanto, concepito nell’area delle rovine una grande hall delimitata da dei bassi muri di mattoni in prosecuzione delle antiche strutture preesistenti.
Questi due casi mostrano come sia possibile all’architettura moderna rendere le città custodi del passato, oltre la separazione tra passato e futuro, e quindi superare la convinzione che «l’architettura moderna, proprio in quanto moderna, deve rispettare il carattere e l’autonomia di quella passata con la quale non ha più niente a che fare, né materialmente né spiritualmente».