considerazioni

Il valore della Permanenza

Il valore della Permanenza

Nell’ultima lezione abbiamo affrontato vari temi, uno in particolare ha attirato la mia attenzione ed è  quello della permanenza, permanenza intesa come valore.

Ma cosa è permanenza?

Una permanenza è ciò che persiste nel tempo, rimane e viene ereditato.

Diventiamo quindi eredi inconsapevoli di tracce di passato che entrano nella nostra memoria collettiva.

Riconoscere queste tracce di passato non è semplice e immediato, in quanto “assorbite” nella maglia regolare dell’edificato. E’ necessario analizzare lo sviluppo urbano, che è differente da luogo a luogo, specifico di un’area e riferito a un determinato periodo storico, unito alle conoscenze tecniche e materiali.

Quindi metodi di costruire differenti a seconda dei luoghi che si collegano e sono intrisi delle tradizioni ereditate dal passato. Tali azioni permangono nei manufatti e sono di assoluta importanza poiché costituiscono i riferimenti ed i modelli seguiti in passato, che servono come fonte di conoscenza e continuano a fare da modello ancora oggi.

Secondo Saverio Muratori la struttura attuale della città è la storia: la struttura attuale è, infatti il frutto di una successione di concetti di città, varianti nel tempo, e riconoscibili perché comuni ai singoli individui che vi hanno operato.

Quindi la città, con il suo continuo divenire, cresce su se stessa, arricchisce la sua memoria e in essa permangono i motivi originali.

Saverio Muratori sperimenta la sua analisi urbana su Venezia individuando in tal modo il tessuto base e gli elementi ricorrenti.

Gianfranco Caniggia successivamente, tra il 1959 e il 1963, utilizza il metodo di studio introdotto da Muratori applicandolo alla città di Como, scelta anche per la facilità di lettura dell’impianto.

Da questa analisi rintraccia la “matrice genetica” di Como che, rimasta sostanzialmente inalterata per due millenni, appare come il risultato della collocazione del castrum romano nella convalle.

Inoltre è stato possibile al Caniggia l’individuazione di più impianti, con la successiva determinazione di elementi tipici ricorrenti.

E’ necessario, pertanto, cogliere il rapporto primigenio che corre tra sito ed insediamento, attraverso la lettura della sua attuale forma, della struttura fisica e sociale che lo costituisce, e delle funzioni che ad esso sono attribuite.

Nella città di Roma è possibile riconoscere molti segni che, l’evoluzione continua e costante dell’opera dell’uomo ha lasciato.

Ne sono esempio: il Palazzo Massimo alle Colonne che, cristallizza il ricordo di un tracciato che non c’è più, la Colonna Traiana che segna il livello del terreno pre-sbancamento della collina della Velia oppure Palazzo Montecitorio che si caratterizza per la sua facciata convessa, dovuta all’andamento del terreno e delle vie circostanti ormai perdute.

Concludo quindi riportando alcune parole del libro di Aldo Rossi “L’architettura della città”, che sottolineano come queste “eredità” entrino a far parte del nostro patrimonio e come l’Architetto in quanto “artista vocato alla trasformazione dello spazio civile” deve sempre tenere in buona considerazione.

 “Progettare l’Architettura significa portare a coerenza le spinte della contemporaneità e quelle della memoria: e la città è il deposito della memoria.” 

Considerazioni sulle ultime lezioni

Paolo Marconi, in un’intervista apparsa sul Tempo il 3 Agosto del 1990, parlando dei monumenti dell’architettura del “Ventennio Fascista” afferma che essi rappresentano: Una città ideale ma fragile. […]Un’architettura che nasceva con il vanto della sua fine […]. Sulla distanza dei cinquant’anni il cemento armato dà preoccupazioni […]. Alle prese con un materiale così “fragile”, la manutenzione è tutto.

Tali parole possono essere emblematicamente associate al complesso di edifici del Foro Italico (inaugurato nel 1932 con il nome di Foro Mussolini) ed in particolar modo alla Casa delle Armi. Tale edificio fu progettato da L. Moretti nel 1936 e purtroppo, nel corso di nemmeno cento anni, è stato più volte devastato in tutti i modi possibili in cui un edificio può essere violato: nel giugno del 1944 vi si stanziarono le truppe alleate guidate dal generale statunitense M.W. Clarke; nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta fu parzialmente occupato dagli allievi frequentanti l’ISEF e, ad esempio, la Sala delle Armi fu trasformata in campo da basket; negli anni Settanta ed Ottanta fu adibito allo svolgimento di processi penali delicati dal punto di vista dell’ordine pubblico, come il processo Moro e quello contro le Brigate Nere e, a questo proposito, l’ala dell’ex Biblioteca fu trasformata in presidio delle forze dell’ordine, la Sala delle Esercitazioni divenne un bunker e vennero costruiti due livelli di uffici nella Galleria d’Onore dell’ex Biblioteca. Solo a partire dal 2001 le istituzioni si sono rese conto della necessità di trasferire altrove il nucleo di Polizia Giudiziaria insediatosi nell’ala dell’ex Biblioteca e, dal 2009, la struttura è stata consegnata alla gestione del CONI, nel quadro della cessione gestionale dell’intero complesso del Foro Italico. Di fatto, il CONI, anziché preoccuparsi di tutelare e valorizzare gli edifici posti sotto la sua gestione, si limita tutt’oggi ad affittare lo Stadio Olimpico per le partite di calcio, per competizioni di atletica leggera, per alcuni concerti ed altri eventi di vario genere. A questo proposito, non bisogna dimenticare lo scempio compiuto sulle strutture dello stesso stadio in occasione dei mondiali di calcio del 1990, quando il CONI stabilì che la finale si sarebbe dovuta disputare in uno spazio al coperto; per questo motivo, anziché procedere alla costruzione di un nuovo impianto all’avanguardia per tecnologia e sicurezza, si optò per lo stravolgimento dello Stadio Olimpico con l’introduzione di coperture in acciaio e l’aggiunta di nuove gradinate in pannelli di legno. Probabilmente tale scelta venne fatta soprattutto per motivi economici, ma dubito fortemente che gli autori di tale intervento possano ritenersi soddisfatti. Per quanto riguarda tutti gli altri edifici del Foro Italico, il CONI non sembra preoccuparsi troppo del loro destino che sembra sempre più quello del degrado e dell’abbandono se tutto continuerà ad essere così com’è. La Casa delle Armi, in particolare, è un gioiello architettonico che deve essere conservato e tutelato innanzitutto perché altissima espressione del pensiero del suo creatore (con i suoi giochi di luce/ombra e con la sapiente contrapposizione di vuoti/pieni, tanto che lo stesso Moretti lo definì un grande contenitore vuoto) e poi perché è testimonianza del passato italiano. Perché nessuno ha mai messo in discussione l’importanza degli edifici progettati da Michelangelo piuttosto che  da Raffaello o da Bramante, considerati (a ragione) opere d’arte, ma in molti sono pronti a negare la validità delle architetture realizzate nel Ventennio Fascista? E’ vero, esse sono espressione dell’ideologia corrente di quegli anni, ma non per questo possono essere demonizzate, condannate all’oblio o peggio, massacrate con interventi incongrui. In nessun Paese civile dovrebbe essere permesso un simile atteggiamento. Tornando all’edificio di Moretti, oggi bisognerebbe provvedere ad un restauro altamente filologico, dal momento che esistono numerosi documenti che testimoniano le sue fasi costruttive ed i materiali usati, che miri a ripristinare l’immagine originaria del suo capolavoro. Successivamente, la struttura potrebbe essere adibita a museo dell’architettura o potrebbe essere visitata se inserita in un percorso di guida che comprenda altre architetture contemporanee. Certo, i costi di un tale restauro sono stati stimati intorno ai 15 milioni di Euro: una cifra impossibile da raggiungere senza l’apporto di privati che possano effettivamente finanziare l’intervento. Ma allora è meglio continuare a lasciare la struttura abbandonata a se stessa come fosse un malato inguaribile? Forse le istituzioni potrebbero farsi un “esame di coscienza” e capire dove e come sono stati investiti fino ad ora i fondi europei destinati al restauro e alla conservazione dei beni architettonici (la maggior parte dei quali, in Italia, riversa in condizioni di degrado e di totale incuria) e porre un rimedio a questa situazione che, a mio parere, danneggia gravemente l’immagine del nostro Paese. Mi riferisco non solo a singoli edifici immersi in un tessuto urbano, ma anche ad intere aree archeologiche che tutto il mondo ci invidia come Pompei, Ostia Antica, la Valle dei Templi di Agrigento, solo per citarne alcune; si tratta di veri e propri monumenti che attirano frotte di turisti ma che sono mal restaurate e/o mal conservate, invase dalla vegetazione. Quale senso può avere possedere un così vasto patrimonio  culturale, artistico ed architettonico se non si ha la volontà di valorizzarlo? A cosa serve scavare per riportare alla luce antichi complessi romani o greci se poi tutto viene nuovamente coperto, come i mosaici che altrimenti si danneggerebbero se esposti in modo continuativo agli agenti atmosferici, o se i ruderi vengono lasciati come tali? Una delle ultime volte che sono stata ad Ostia Antica, una signora inglese mi ha chiesto perché gli antichi romani vivevano in case senza i tetti; in un primo momento ho pensato che stesse scherzando, poi mi sono resa conto che, senza un efficiente apparato didattico che ne ricostruisca la storia e che lo spieghi al grande pubblico, qualsiasi monumenti appare muto, svuotato della sua anima. Per questo motivo ritengo che gli interventi di ricostruzione del Partenone sull’Acropoli di Atene possano essere considerati un tentativo valido di restituire identità al luogo per eccellenza più famoso della civiltà classica e del mondo antico in generale. E’ ovvio che per tale ricostruzione verranno utilizzati elementi originali ed elementi nuovi (con le stesse caratteristiche materiche di quelli originali), ma ciò è inevitabile; d’altronde lo stesso percorso è stato seguito anche per gli altri edifici presenti sulla spianata, primo fra tutti l’Eretteo, che presenta, nella Loggetta a sud, delle Korai che sono una copia in gesso di quelle originali conservate nel Museo dell’Arcropoli.

In altri contesti, invece, può avere esiti particolarmente felici l’idea di inserire, in un contesto antico, un’architettura moderna, come nel caso del progetto di Rafael Moneo per il Museo del Teatro Romano di Cartagena o di quello di P. Zumthor per il Kolumba Museum a Colonia.

Nel primo caso si tratta di un museo, inaugurato nel luglio del 2008, che si innesta in un tessuto urbano molto stratificato e che è stato allestito proprio grazie ai ritrovamenti archeologici effettuati durante lo scavo dell’area. E’ lo stesso Moneo ad affermare che Lo scavo diventa lo strumento per cercare nelle sue viscere la diretta testimonianza di un passato sepolto, [in quanto c’è] un legame diretto fra gli edifici e il passato che i luoghi nascondono. La novità del progetto di Moneo risiede nel fatto che il Teatro Romano rappresenta l’ultima tappa del percorso espositivo del museo e, ad esso, funge da fondale paesaggistico il Parque de la Cornisa; l’intervento di restauro su questo monumento è consistito sostanzialmente nel consolidamento delle parti originali che rischiavano di crollare, nell’integrazione di alcuni elementi costruttivi andati perduti e nella messa a punto di un sistema di percorsi interni che permettessero una migliore fruizione di quello spazio. Parzialmente diverso è, invece, il lavoro svolto da Zumthor nel Museo dell’Arcidiocesi di Colonia: l’edificio, infatti, si presenta come una sorta di “fortilizio” che contiene al suo interno rovine romane, franche, romaniche e tardogotiche e che pare negarsi al rapporto verso l’esterno. L’architetto, ripercorrendo il profilo planimetrico della chiesa originale, prosegue le antiche mura della chiesa tardogotica, utilizzando dei mattoni realizzati a mano e dall’inconsueto formato (4x21x54 cm), che sono stati studiati per anni nella composizione materica e cromatica e che ben si innestano nei muri medievali. La nuda purezza del muro, a volte, diventa traforo e la luce, che entra attraverso tali fessure, crea splendidi giochi di chiaroscuro. L’eleganza del progetto risiede nel fatto che in esso convivono, senza la prevalenza dell’uno sull’altro, passato e presente, esposizione museale ed architettura perché, come afferma lo stesso Zumthor, Passato e presente nella buona arte si incontrano.

Considerazioni sulle ultime due lezioni di estimo

L’architettura Razionalista e la Damnatio Memoriae

Negli anni Venti e Trenta in Italia nel difficile clima politico e culturale si fa strada, per iniziativa dei giovani del «Gruppo 7», l’interesse al «movimento moderno». Ne fanno parte Giuseppe Terragni, Gino Pollini, Luigi Figini, Sebastiano Larco, Carlo Enrico Rava, ai quali si aggiunge Adalberto Libera.

Luigi Moretti fu un esponente di primo piano del gruppo di architetti che costituirono l'avanguardia, in quella formidabile stagione dell'architettura italiana.

Una delle opere più significative della produzione di Luigi Moretti è la Casa delle Armi al Foro Italico progettata nel 1934 e costruita nel 1935. E’ il primo edificio dopo l’età classica completamente rivestito in marmo lunense.

La vicenda dell'edificio  è caratterizzata da vicissitudini rocambolesche: non entrò mai pienamente in funzione, fu dimenticato sino agli anni Ottanta, quando venne riadattato ad aula bunker per i processi al terrorismo, subendo così tante modificazione che ne rendono molto difficile il recupero.

 Si tratta di un tesoro architettonico e urbanistico completamente rimosso dal dibattito culturale odierno, la cui sfortuna è stata solamente quella di essere stato realizzato in un periodo storico brillante dal punto di vista artistico, ma scuro dal punto di vista politico.

Ma è solo un’architettura italiana e fascista?

Per chiarire tale concetto si fa riferimento all’architettura dello stesso periodo storico di altre capitali estere. Infatti la Parigi di quei tempi era quella del fronte popolare di Lèon Blum e guardando le architetture dello stesso periodo possiamo notare molti caratteri in comune. Nella Washington di Franklin Roosevelt, l’architettura federale segue la medesima cifra architettonica dell’Italia di Mussolini, la Federal Reserve ha gli stessi ritmi dei palazzi di Roma o di Milano. Uno stile internazionale, dunque, che ha il suo centro di nascita in Italia.

Era un’architettura fatta per durare nei secoli, non era fascista, ma divenne un aulico modello internazionale.

Dopo il lungo periodo, di natura sostanzialmente morale e politica, opposto a tale architettura, molti in Italia hanno cominciato ad analizzarla senza i pregiudizi e stereotipi ideologici, e a rivalutarne il valore architettonico; quel valore che ha reso l’Italia capace di esportare a livello internazionale un modello architettonico.

Il Vecchio e il Nuovo

Una antica polemica riconosceva  contrapposti due campi in cui si vedevano schierati da un lato i sostenitori di una sostanziale libertà di comportamento dell’architetto nei confronti dell’antico, da subordinare ad un progetto del nuovo in cui permangono eventualmente le tracce di ciò che un tempo sussisteva. L’antico riletto ed interpretato viene ricondotto al moderno. Viene effettuata un’operazione selettiva frutto di un implicito giudizio critico attraverso la sensibilità del progettista. Viene in mente la teoria del restauro critico, articolata da Roberto Pane e Renato Bonelli, con il “giudizio critico” e l’”atto creativo”.  

Sul fronte opposto c’è chi invece pone in primo piano l’autonomia dell’antico, la sua trasmissione al futuro, come portatore di valori irripetibili, come portatore del sentimento d’arte di una civiltà, testimonianza della capacità artistico costruttiva di una determinata epoca.

Paolo Marconi con Arte e cultura della manutenzione dei monumenti, del 1984, pone l’esigenza di comprendere l’architettura come testimonianza storica. Egli rifiuta la dialettica opposizione tra nuovo intervento e antica fabbrica e rifugge anche la necessità di distinzione tra nuovo e vecchio. Ritiene quindi necessario muoversi in una continuità governata dalle forme, dalle materie e dalle abilità costruttive. Da tutto questo nasce  l’esperienza dei Manuali del Recupero in cui l’elemento conoscitivo diventa un supporto e una guida sicura all’azione.

Il rapporto tra vecchio e nuovo è quindi un tema molto discusso in architettura. Ogni qual volta si interviene su qualche preesistenza storica ci si chiede fino a che punto debba spingersi l’incisività dell’architetto.

La questione del rapporto tra nuovo e antico, non cessa di essere d’attualità e continua ad alimentare il dibattito tra gli architetti e gli organi preposti alla tutela del patrimonio storico.

Su questo difficile rapporto si è cimentato Rafael Moneo nella progettazione del Museo del teatro romano a Cartagena. Moneo realizza all’interno del museo un percorso. Lungo il percorso si incontrano una serie di preesistenze, “trasformando frammenti di accadimenti appartenenti a epoche tra loro lontane in un tessuto ben ordito”.

In questo modo Rafael Moneo valorizza frammenti di storia della città offrendoli ai visitatori.

Un ulteriore esempio, di come l’architettura possa far emergere monumenti millenari portatori di valori storici che giganteggiano nella solitudine, rendendoli fruibili e conosciuti, è offerto da Peter Zumthor nel museo diocesano di Colonia.

L’edificio  sorge sulle rovine di un chiesa tardogotica distrutta durante la seconda guerra mondiale. Il bando del concorso prevedeva quindi l’inserimento nel museo dell’area archeologica e medievale. Zumthor ha, pertanto, concepito nell’area delle rovine una grande hall delimitata da dei bassi muri di mattoni in prosecuzione delle antiche strutture preesistenti.

Questi due casi mostrano come sia possibile all’architettura moderna rendere le città custodi del passato, oltre la separazione tra passato e futuro, e quindi superare la convinzione che «l’architettura moderna, proprio in quanto moderna, deve rispettare il carattere e l’autonomia di quella passata con la quale non ha più niente a che fare, né materialmente né spiritualmente».

 

PRIME CONSIDERAZIONI: L’IMPORTANZA DI UNA VISIONE GLOBALE

Vivere e vedere i cantieri è un passo fondamentale per capire il ruolo dell’architetto, che non si limita al disegno su carta, alla progettazione di spazi e ambienti, ma è anche e soprattuto la realizzazione ultima.

Il progetto è solo il primo approccio e anche considerandolo tale non può prescindere da un pensiero successivo che coinvolga tutti gli aspetti della realizzazione. La progettazione è quindi un processo che, anche avanzando per fasi, in ogni istante deve tenere conto di quella precedente e quella successiva.

Da queste considerazioni la scelta di analizzare il ruolo del direttore lavori è stato un passo quasi obbligato poiche il direttore lavori è in qualche modo colui che in qualche modo deve tenere presenti le varie fasi e i vairi stati del progetto, dovendo conoscere gli aspetti tanto progettuali quanto costruttivi.

Durante le varie visite nei cantieri è stato interessante notare come la fase di progettazione su carta avesse dei riscontri diretti sulla realizzazione e la ‘posa in opera’ e come a rendere interessante il progetto non sia  solo l’idea concettuale e la sua ‘materializzazione’ ma anche e soprattuto i piccoli espedienti che, immaginati e previsti nella fase iniziale, hanno poi permesso una relizzazione fedele e interessante di quell’idea iniziale.

Nella visita al cantiere di velletri abbiamo potuto notare come elementi studiati in fase di realizzazione si siano adattati perfettamente ed abbiano ulteriormente arricchito il progetto inziale. Ne sono un esempio i parapetti metallici o anche l’espediente dell’infisso arretrato per esaltare la purezza del volume e dello spessore della massa muraria.


 

Il compito del direttore lavori cambia molto da cantiere a cantiere, cos’ come cambiano gli approcci alla progettazione e i problemi riscontrati nella realizzazione.

Il cantiere del mattatoio, ad esempio, è stato fortemente condizionato da mancanza di un costante confronto tra il progettista iniziale e il direttore lavori, fatto che ha portato a diverse modifiche non previste in fase preliminare.


 

Andamento completamente diverso nei cantieri di casal palocco e infernetto, dove previa una progettazione più dettagliata e in qualche modo ‘tecnica’ il progetto ha subito poche modifiche, legate soprattuto a problemi strutturali nati in seguito a perizie specifiche.