blog di Serena Mastrobattista

Revisioni di fine agosto 2012 Lab. Restauro

Gentile professore, io e la mia collega, Valentina Merino Vazquez, abbiamo appena appreso della revisione di Giovedì 30 Agosto presso l'ex-mattatoio. Purtroppo io in questo momento sono fuori dall'Italia e tornerò proprio giovedì, mentre la mia collega partirà proprio quel giorno per Venezia. Ci scusiamo di tale situazione e speriamo che Lei possa darci disponibilità per un altro giorno, considerando anche che l'appello di Laboratorio di Restauro 3M è fissato per il 24 Settembre. Grazie in anticipo per la sua disponibilità e ci scusi ancora.

Il valore della permanenza

Cupido che dorme è l’antica architettura, il monumento. Psiche, curiosa, con la lucerna, è l’architetto, l’ingegnere, il tecnico. Ma una goccia di olio bollente cade dalla lucerna: è l’azione di “restauro”. Cupido si sveglia e fugge via, così l’autenticità è compromessa.

Si tratta di una delle tante definizioni che sono state date del restauro, qui considerato, metaforicamente, come la mitica goccia d’olio della lucerna di Psiche che, irrimediabilmente, porta alla fuga di Cupido. Certo, ogni volta che si interviene su un monumento si altera il suo stato di fatto. Ma ciò è sempre un male? Ipotizziamo di trovarci davanti ad un monumento seriamente compromesso dal degrado. Quanto si è disposti a pagare affinché tale edificio, nella sua consistenza fisica e storica, permanga in quello spazio? E quanto si è disposti a pagare perché il monumento riacquisti una propria identità? Bene, il fine del restauro colto è proprio questo: garantire la permanenza di un monumento. Ma, per far ciò, è necessario intervenire in maniera intelligente, rispettando il manufatto antico; tale obiettivo si consegue attraverso un accurato studio preliminare delle fonti documentarie, un preciso rilievo volto ad evidenziare degradi ed eventuali problemi strutturali dell’edificio, un dettagliato progetto degli interventi ed un indispensabile computo metrico estimativo per valutare la fattibilità del progetto stesso. Oggigiorno esistono diverse scuole di pensiero che riguardano il progetto di restauro: c’è chi pensa che tutto debba essere lasciato come si trova, a meno di piccoli interventi di pulitura e consolidamento; chi ritiene che tutto debba essere ricostruito “com’era, dov’era”; chi decide di integrare il nuovo con l’antico. Io sono dell’idea che ogni intervento debba essere valutato di volta in volta; come già detto, infatti, testimonianze storiche come i monumenti sull’Acropoli di Atene è giusto che vengano ricostruite, mentre in altri casi si può optare per un ben studiato progetto di integrazione tra passato e presente, come avviene sia nei progetti di Peter Zumthor, di Rafael Moneo o di José Ignatio Linazasoro, sia negli allestimenti di mostre all’interno di consistenze storiche, come nel caso di Franco Albini. Di Zumthor e Moneo si è già parlato la volta scorsa; per quanto riguarda Linazasoro, i suoi interventi di restauro e di riuso di antichi edifici sono piuttosto interessanti, basti pensare al progetto finalista per la sistemazione di Piazza Augusto Imperatore, in cui il monumento (al cui interno viene lasciato intatto) è valorizzato da un’ampia piazza che lo isola e al tempo stesso lo collega al resto della città, o alla Biblioteca del quartiere di Lavapiés a Madrid, in cui l’architetto cerca di creare una continuità materica (ottenuta attraverso l’uso del mattone) e, allo stesso tempo, una discontinuità concettuale tra nuovo ed antico, proponendo un ordine nuovo in cui i resti della preesistenza (una chiesa barocca) sono non solo valorizzati, ma si integrano nella costruzione recente. Albini, invece, è stato considerato dalla socia Franca Helg un uomo“silenzioso e fedele”, un architetto molto preciso in tutto ciò in cui si impegnava e, proprio per questo, che esigeva un uguale rigore da tutti i suoi collaboratori; più stimava una persona, più pretendeva che essa non sbagliasse, che non pensasse cose non logiche, che aspirasse sempre “alla luna”. Sicuramente, uno dei progetti per cui Albini è stato reso celebre è il Palazzo della Rinascente in Piazza Fiume a Roma (1957), ma non bisogna dimenticare il quartiere Fabio Filzi a Milano (1936-1938; “un’oasi di ordine nel disordinato tessuto della città” secondo il parere di Giuseppe Pagano), l’Albergo-rifugio per ragazzi Pirovano di Cervinia (1948-1952), il Museo del Tesoro di San Lorenzo a Genova (1952-1956). Egli, inoltre, fu anche raffinato designer e curò, come già accennato, diverse mostre, tra cui l’Allestimento della stanza di soggiorno in una villa alla VII Triennale di Milano (1940), la Mostra di Arte contemporanea, Arte decorativa e Architettura italiana a Stoccolma (1953), la Mostra su Palladio organizzata nella Basilica Palladiana di Vicenza nel 1973; si tratta, in quest’ultimo caso, di un allestimento particolarmente rispettoso del valore storico dell’edificio in cui si svolge. Albini, infatti, decise di “pensare” come Palladio, di entrare in sintonia con il luogo, in modo tale che le opere dell’architetto del XVI secolo, rappresentate da accurati plastici in scala 1:33, fossero il più possibile valorizzate e non “schiacciate” dal peso imponente di un allestimento fine a se stesso. In questo senso, credo che oggi, nella maggior parte dei casi, manchi un atteggiamento di umiltà nei confronti di una permanenza storica e che i “grandi” architetti si dilettino a concepire progetti fatti per destare stupore, non per adattarsi al contesto circostante, che si possano replicare in varie città del mondo senza prendere in considerazione le specificità di un luogo rispetto ad un altro. Bisognerebbe allora fermarsi a riflettere prima di accettare un incarico e pensare: sono in grado di portare avanti una simile idea? Ho le conoscenze sufficienti per impegnarmi in questo progetto? E se si risponde affermativamente, si deve mettere a disposizione tutta la propria tecnica, tutta la propria persona nella realizzazione di quel progetto, allo stesso modo di Albini, “il più geniale muratore di geometrie funzionali della storia dell’architettura moderna”.

Considerazioni sulle ultime lezioni

Paolo Marconi, in un’intervista apparsa sul Tempo il 3 Agosto del 1990, parlando dei monumenti dell’architettura del “Ventennio Fascista” afferma che essi rappresentano: Una città ideale ma fragile. […]Un’architettura che nasceva con il vanto della sua fine […]. Sulla distanza dei cinquant’anni il cemento armato dà preoccupazioni […]. Alle prese con un materiale così “fragile”, la manutenzione è tutto.

Tali parole possono essere emblematicamente associate al complesso di edifici del Foro Italico (inaugurato nel 1932 con il nome di Foro Mussolini) ed in particolar modo alla Casa delle Armi. Tale edificio fu progettato da L. Moretti nel 1936 e purtroppo, nel corso di nemmeno cento anni, è stato più volte devastato in tutti i modi possibili in cui un edificio può essere violato: nel giugno del 1944 vi si stanziarono le truppe alleate guidate dal generale statunitense M.W. Clarke; nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta fu parzialmente occupato dagli allievi frequentanti l’ISEF e, ad esempio, la Sala delle Armi fu trasformata in campo da basket; negli anni Settanta ed Ottanta fu adibito allo svolgimento di processi penali delicati dal punto di vista dell’ordine pubblico, come il processo Moro e quello contro le Brigate Nere e, a questo proposito, l’ala dell’ex Biblioteca fu trasformata in presidio delle forze dell’ordine, la Sala delle Esercitazioni divenne un bunker e vennero costruiti due livelli di uffici nella Galleria d’Onore dell’ex Biblioteca. Solo a partire dal 2001 le istituzioni si sono rese conto della necessità di trasferire altrove il nucleo di Polizia Giudiziaria insediatosi nell’ala dell’ex Biblioteca e, dal 2009, la struttura è stata consegnata alla gestione del CONI, nel quadro della cessione gestionale dell’intero complesso del Foro Italico. Di fatto, il CONI, anziché preoccuparsi di tutelare e valorizzare gli edifici posti sotto la sua gestione, si limita tutt’oggi ad affittare lo Stadio Olimpico per le partite di calcio, per competizioni di atletica leggera, per alcuni concerti ed altri eventi di vario genere. A questo proposito, non bisogna dimenticare lo scempio compiuto sulle strutture dello stesso stadio in occasione dei mondiali di calcio del 1990, quando il CONI stabilì che la finale si sarebbe dovuta disputare in uno spazio al coperto; per questo motivo, anziché procedere alla costruzione di un nuovo impianto all’avanguardia per tecnologia e sicurezza, si optò per lo stravolgimento dello Stadio Olimpico con l’introduzione di coperture in acciaio e l’aggiunta di nuove gradinate in pannelli di legno. Probabilmente tale scelta venne fatta soprattutto per motivi economici, ma dubito fortemente che gli autori di tale intervento possano ritenersi soddisfatti. Per quanto riguarda tutti gli altri edifici del Foro Italico, il CONI non sembra preoccuparsi troppo del loro destino che sembra sempre più quello del degrado e dell’abbandono se tutto continuerà ad essere così com’è. La Casa delle Armi, in particolare, è un gioiello architettonico che deve essere conservato e tutelato innanzitutto perché altissima espressione del pensiero del suo creatore (con i suoi giochi di luce/ombra e con la sapiente contrapposizione di vuoti/pieni, tanto che lo stesso Moretti lo definì un grande contenitore vuoto) e poi perché è testimonianza del passato italiano. Perché nessuno ha mai messo in discussione l’importanza degli edifici progettati da Michelangelo piuttosto che  da Raffaello o da Bramante, considerati (a ragione) opere d’arte, ma in molti sono pronti a negare la validità delle architetture realizzate nel Ventennio Fascista? E’ vero, esse sono espressione dell’ideologia corrente di quegli anni, ma non per questo possono essere demonizzate, condannate all’oblio o peggio, massacrate con interventi incongrui. In nessun Paese civile dovrebbe essere permesso un simile atteggiamento. Tornando all’edificio di Moretti, oggi bisognerebbe provvedere ad un restauro altamente filologico, dal momento che esistono numerosi documenti che testimoniano le sue fasi costruttive ed i materiali usati, che miri a ripristinare l’immagine originaria del suo capolavoro. Successivamente, la struttura potrebbe essere adibita a museo dell’architettura o potrebbe essere visitata se inserita in un percorso di guida che comprenda altre architetture contemporanee. Certo, i costi di un tale restauro sono stati stimati intorno ai 15 milioni di Euro: una cifra impossibile da raggiungere senza l’apporto di privati che possano effettivamente finanziare l’intervento. Ma allora è meglio continuare a lasciare la struttura abbandonata a se stessa come fosse un malato inguaribile? Forse le istituzioni potrebbero farsi un “esame di coscienza” e capire dove e come sono stati investiti fino ad ora i fondi europei destinati al restauro e alla conservazione dei beni architettonici (la maggior parte dei quali, in Italia, riversa in condizioni di degrado e di totale incuria) e porre un rimedio a questa situazione che, a mio parere, danneggia gravemente l’immagine del nostro Paese. Mi riferisco non solo a singoli edifici immersi in un tessuto urbano, ma anche ad intere aree archeologiche che tutto il mondo ci invidia come Pompei, Ostia Antica, la Valle dei Templi di Agrigento, solo per citarne alcune; si tratta di veri e propri monumenti che attirano frotte di turisti ma che sono mal restaurate e/o mal conservate, invase dalla vegetazione. Quale senso può avere possedere un così vasto patrimonio  culturale, artistico ed architettonico se non si ha la volontà di valorizzarlo? A cosa serve scavare per riportare alla luce antichi complessi romani o greci se poi tutto viene nuovamente coperto, come i mosaici che altrimenti si danneggerebbero se esposti in modo continuativo agli agenti atmosferici, o se i ruderi vengono lasciati come tali? Una delle ultime volte che sono stata ad Ostia Antica, una signora inglese mi ha chiesto perché gli antichi romani vivevano in case senza i tetti; in un primo momento ho pensato che stesse scherzando, poi mi sono resa conto che, senza un efficiente apparato didattico che ne ricostruisca la storia e che lo spieghi al grande pubblico, qualsiasi monumenti appare muto, svuotato della sua anima. Per questo motivo ritengo che gli interventi di ricostruzione del Partenone sull’Acropoli di Atene possano essere considerati un tentativo valido di restituire identità al luogo per eccellenza più famoso della civiltà classica e del mondo antico in generale. E’ ovvio che per tale ricostruzione verranno utilizzati elementi originali ed elementi nuovi (con le stesse caratteristiche materiche di quelli originali), ma ciò è inevitabile; d’altronde lo stesso percorso è stato seguito anche per gli altri edifici presenti sulla spianata, primo fra tutti l’Eretteo, che presenta, nella Loggetta a sud, delle Korai che sono una copia in gesso di quelle originali conservate nel Museo dell’Arcropoli.

In altri contesti, invece, può avere esiti particolarmente felici l’idea di inserire, in un contesto antico, un’architettura moderna, come nel caso del progetto di Rafael Moneo per il Museo del Teatro Romano di Cartagena o di quello di P. Zumthor per il Kolumba Museum a Colonia.

Nel primo caso si tratta di un museo, inaugurato nel luglio del 2008, che si innesta in un tessuto urbano molto stratificato e che è stato allestito proprio grazie ai ritrovamenti archeologici effettuati durante lo scavo dell’area. E’ lo stesso Moneo ad affermare che Lo scavo diventa lo strumento per cercare nelle sue viscere la diretta testimonianza di un passato sepolto, [in quanto c’è] un legame diretto fra gli edifici e il passato che i luoghi nascondono. La novità del progetto di Moneo risiede nel fatto che il Teatro Romano rappresenta l’ultima tappa del percorso espositivo del museo e, ad esso, funge da fondale paesaggistico il Parque de la Cornisa; l’intervento di restauro su questo monumento è consistito sostanzialmente nel consolidamento delle parti originali che rischiavano di crollare, nell’integrazione di alcuni elementi costruttivi andati perduti e nella messa a punto di un sistema di percorsi interni che permettessero una migliore fruizione di quello spazio. Parzialmente diverso è, invece, il lavoro svolto da Zumthor nel Museo dell’Arcidiocesi di Colonia: l’edificio, infatti, si presenta come una sorta di “fortilizio” che contiene al suo interno rovine romane, franche, romaniche e tardogotiche e che pare negarsi al rapporto verso l’esterno. L’architetto, ripercorrendo il profilo planimetrico della chiesa originale, prosegue le antiche mura della chiesa tardogotica, utilizzando dei mattoni realizzati a mano e dall’inconsueto formato (4x21x54 cm), che sono stati studiati per anni nella composizione materica e cromatica e che ben si innestano nei muri medievali. La nuda purezza del muro, a volte, diventa traforo e la luce, che entra attraverso tali fessure, crea splendidi giochi di chiaroscuro. L’eleganza del progetto risiede nel fatto che in esso convivono, senza la prevalenza dell’uno sull’altro, passato e presente, esposizione museale ed architettura perché, come afferma lo stesso Zumthor, Passato e presente nella buona arte si incontrano.

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi di Palazzo Massimo alle Terme e della Palazzina di Libera ad Ostia

Situato nei pressi della Stazione Termini a Roma, Palazzo Massimo alle Terme è un edificio ottocentesco, costruito in stile rinascimentale, che nel corso dei secoli ha subito dei cambiamenti di destinazione d’uso: da scuola-convitto si è infatti trasformato in una delle nuove sedi del Museo Nazionale Romano che ospita una collezione d’ arte classica fra le più importanti in Italia e nel mondo. Inoltre, in questi ultimi anni, è stata avviata una revisione dell’allestimento, curata dagli architetti Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia, i quali si sono prefissi lo scopo di rendere  il più possibile fruibili e piacevoli sezioni museali altrimenti anonime; anche se il progetto non è stato ancora del tutto completato, ritengo che l’obiettivo dei progettisti sia stato pienamente raggiunto attraverso alcuni particolari accorgimenti architettonici. Innanzitutto, si è pensato di rimodellare gli spazi: nel vecchio teatro del convitto, ad esempio, l’altezza originale del soffitto era piuttosto consistente (circa 9,5 m) e, per evitare uno spazio espositivo troppo dispersivo, sono stati utilizzati dei pannelli sospesi che, collegati a tralicci in acciaio per mezzo di cavi anch’essi in acciaio, essendo disposti a quote leggermente sfalsate, non costituiscono una sorta di controsoffitto ma svolgono una duplice funzione di caratterizzare esteticamente gli ambienti senza alterare la leggibilità della struttura preesistente e di nascondere gli apparecchi illuminanti. A questo proposito, per quanto concerne le sezioni dedicate alla scultura, sono stati scelti degli apparecchi illuminanti al led che diffondono una luce bianca naturale e che, essendo sospesi in alto, rappresentano una sorta di “cielo stellato” e permettono di illuminare senza problemi di abbagliamento, in modo da poter apprezzare al meglio lo splendore del marmo  e la perfezione delle forme umane scolpite nella pietra. Ancora una considerazione sul colore: prima del nuovo allestimento le pareti delle sale erano tinteggiate con colori chiari, come il bianco ed il beige, e le statue poggiavano su basi in pietra; successivamente si è pensato di sostituire le basi delle statue con dei cubi grigio-scuro e di tinteggiare le pareti con diverse tonalità di grigio, sovrapponendovi, in alcune parti, pannelli di una sfumatura leggermente diversa, in maniera tale da sottolineare l’importanza di alcune sculture. In questa maniera il museo non è più uno spazio asettico, che può essere compreso solo dagli studiosi o dai grandi patiti di arte che vogliono ammirare le antiche sculture romane senza essere distratti dal contesto circostante, ma diventa un luogo fruibile da un gran numero di persone che, consapevoli o meno, si lasciano incantare dall’aura quasi magica dello spazio che li circonda e possono così apprezzare appieno il patrimonio artistico che hanno di fronte. Maggiormente didattico è, invece, l’allestimento delle sezioni che ospitano, sin dagli anni Novanta del XX secolo, gli affreschi di epoca augustea ritrovati nel parco della Villa Farnesina. Utilizzando le più moderne tecnologie nel campo della museografia e basandosi su studi di psicologia della percezione, i progettisti hanno scelto di definire una collocazione degli ambienti affrescati secondo una sequenza corrispondente a quella originaria; di annullare il più possibile il contesto, usando geometrie primarie e colori neutri, per lasciare protagonisti assoluti gli affreschi delle pareti; di illuminare le opere nella maniera migliore, evitando ogni riflesso o abbagliamento, con un sistema di illuminazione biodinamica. Il percorso di visita  inizia dalla lunga galleria del Criptoportico: si tratta di circa 25 m di parete, i cui affreschi, montati su pannelli per facilitarne il trasporto ed assicurarne la conservazione, rappresentano finte colonne, architravi e basamenti che incorniciano riquadri figurati; sulla parete opposta, gran parte delle vetrate che si affacciano sul terrazzo sono state tamponate per ridurre la quantità di luce solare e ricreare l'antica alternanza luce-ombra. Successivamente si accede ad una grande sala le cui pareti esterne sono di colore grigio-medio per segnalarne la neutralità e in cui sono collocati gli apparati figurativi di duecubicula e del triclinio, posti  in posizione analoga a quella della pianta originaria. Da notare la presenza di lacerti di pavimento in mosaico che non sono collocati come in origine sia per permettere un facile passaggio dei visitatori, sia perché non si conosce la loro esatta posizione. Di particolare pregio è poi una sala in cui sono esposti gli affreschi che rappresentano un giardino illusionistico riprodotto a grandezza naturale nei minimi particolari, con una grande varietà di specie vegetali e di uccelli. Non è certa la destinazione d’uso originaria di questa stanza, ma è probabile che si trattasse di un ambiente senza finestre, usato per difendersi dalla calura estiva, la cui illuminazione era forse consentita attraverso un lucernario posto sulla volta a botte con cui era sicuramente coperto il vano, dal momento che ne è stata ritrovata l’imposta. L’unico difetto che rimprovero all’allestimento,  dovuto peraltro all’insufficienza dello spazio e non alla mancanza di cultura dei progettisti, è il fatto di non aver ripristinato la copertura voltata di questo spazio, cosa che invece è stata fatta nel triclinio nonostante non fossero presenti tracce dell’imposta della volta stessa. Inoltre, l’idea di un sistema di illuminazione biodinamica ottenuta con l’uso di tubi al neon la cui temperatura di colore varia tra i 3000 e i 6000° K, permette di riprodurre, ogni 90 secondi, il ciclo del sole durante il giorno, in modo che i visitatori possano godere al meglio degli affreschi; tuttavia il risultato da un punto di vista prettamente estetico non è, a mio avviso, dei migliori. In definitiva, penso che gli architetti Celia e Cacciapaglia siano stati in grado di creare un perfetto connubio fra l’architettura dell’edificio, i materiali e le tecnologie moderne e il patrimonio artistico contenuto all’interno del museo, dando così vita all’idea espressa da Mario Ridolfi secondo cui “[…] opere architettoniche appartenenti a periodi diversi l’uno dall’altro […] possono coesistere armonizzandosi reciprocamente”.  Diverso è il caso del restauro della Palazzina B di Adalberto Libera ad Ostia, curato dall’architetto Roberta Rinaldi. L’edificio, realizzato negli anni Trenta del XX secolo, pur rappresentando un simbolo dell’architettura razionalista italiana, prima dell’intervento era caratterizzato da un forte degrado che riguardava: la facciata, tanto che l’intonaco, di un colore giallo-ocra assolutamente inappropriato, si distaccava perché realizzato con il quarzo plastico, un materiale estremamente dannoso per gli edifici perché non lascia traspirare i muri; i ferri dei balconi, che si erano ossidati a causa della salsedine e di altri agenti atmosferici; le ringhiere dei balconi, alcune delle quali erano state rimosse; il terrazzo, che presentava problemi di infiltrazione d’acqua e la cui fisionomia originale era stata sconvolta da un intervento abusivo; gli infissi, tra loro tutti diversi perché la palazzina è abitata da tre inquilini; il giardino incolto. Dal momento che l’edificio non è un bene culturale e quindi non è sottoposto ad alcun vincolo, fatta eccezione per quello paesaggistico, il restauro non è stato sovvenzionato da fondi pubblici, ma dagli stessi condomini, i quali, inizialmente, hanno posto qualche perplessità al riguardo. In effetti il costo dell’intervento è stato ridotto al minimo (circa 200.000,00 €) ma si è trattata comunque di una spesa ingente da parte dei tre inquilini. C’è però anche da dire che, dopo il restauro, che purtroppo ha riguardato solo gli spazi comuni (giardino, atrio di ingresso e corpo scala, involucro esterno, balconi) il valore degli appartamenti, ognuno dei quali avente una superficie di circa 140 mq, è triplicato da 1.500,00 €/mq nel 1999 a 5.000,00 €/mq ad oggi. L’intervento, avvenuto nel rispetto del progetto di Libera, ha avuto come obiettivo quello di riqualificare l’edificio, restituendogli una propria dignità ed identità e, a mio parere, tale traguardo è stato raggiunto più che discretamente, tenendo conto dei numerosi problemi avuti sul cantiere; ciò che colpisce maggiormente la mia attenzione è però una riflessione: se ai condomini non fosse stato proposto tale intervento, se non fossero stati convinti ad investire i loro risparmi in un’operazione del genere, quanto ancora si sarebbe aspettato prima che la palazzina crollasse del tutto? E questo è un problema che non riguarda solo l’edilizia residenziale di zone periferiche, ma anche quella di quartieri più centrali della città di Roma (basti pensare alle tante facciate dei palazzi sulla centralissima Via Cavour, sporche per lo smog o violentate dai vandali con le loro bombolette spray, o ai quartieri che sorgono a ridosso della Stazione Termini) o agli edifici pubblici di una certa importanza. A questo proposito, trovo emblematico il caso del Museo delle Navi Romane a Nemi, realizzato gratuitamente dall’architetto Vittorio Ballio Morpurgo ed inaugurato nel 1936; si tratta di una struttura unica nel suo genere, concepita come un’enorme scatola in cemento armato che, nonostante la sua bellezza nel panorama architettonico dei nostri giorni, appare come una sorta di rudere, uno scheletro pieno di infiltrazioni d’acqua, sporco, un malato terminale cui non si presta un minimo di cura e che invece, con un restauro colto, avrebbe ancora molto da raccontare.