permanenza

Il valore della permanenza

Il valore della permanenza

Architettura è tutto ciò che è nella città, e la città a sua volta è forma, funzione e soprattutto identità; parlare di architettura, quindi, voleva dire, per architetti quali Aldo Rossi e molti altri, interrogarsi sulla costruzione della città nel tempo, sui suoi cambiamenti ed evoluzioni intrinseche, sul ruolo di anello di congiunzione tra realtà collettiva e individuale. Vuol dire analizzare non solo ciò che oggi vediamo e percepiamo, ma soprattutto afferrare il vero significato e senso proprio del processo progettuale ex ante, in modo tale che le consistenze architettoniche del passato siano vissute quali valori della permanenza da sperimentare nel presente. La città come un unicum progettuale che dura centinaia, a volte migliaia di anni, di cui bisogna comprendere le radici profonde per poter capire come poter inserirsi nel tessuto urbano modificandolo, consapevoli che le architetture del “passato” e del “presente” dialogano ( e forse a  volte litigano), che tra qualche tempo tutto ciò che oggi è “presente” potrà essere considerato “passato” e farà parte del bagaglio identitario, culturale dei nostri posteri. Come in tutte le cose, anche in architettura, si può scegliere di ignorare ciò che ci attornia ed imporsi, oppure come rapportarsi al contesto e studiare quale significato si vorrebbe conservare e trasmettere. Come il lavoro di Jose Ignacio Linazasoro per il centro culturale a Madrid, che rappresenta contemporaneamente un’unità di restauro, di rinnovamento e di nuova costruzione, ponendosi quale nodo della città dove queste operazioni si sono conciliate, aggiungendo al valore della permanenza quello della fruibilità del bene.

E sicuramente nel tema della permanenza entra prepotentemente la figura di Franco Albini, sia per i grandi segni da lui lasciati nelle città, sia per la grande capacità di studiare, ascoltare ed interpretare la Storia, cogliendone gli aspetti più profondi e a volte più reconditi. Egli stesso si definiva un “copione” dei modelli neoclassici, nonostante nel rigore e nella coerenza della propria produzione andò sempre alla ricerca di un costante rapporto creativo con le nuove tecnologie, perché capire il senso profondo del valore della permanenza in architettura non vuol dire riproporre in maniera compulsiva lo stesso schema, bensì far propria la volontà di rapportarsi con il contesto storico pur evitando qualsiasi approccio mimetico, qualsiasi soluzione finto-antica, e cercando di stabilire un dialogo, sia quando si tratti di operazioni di restauro, sia di progetti ex novo, come la Rinascente di Piazza Fiume, definito da Portoghesi nel 1998 “un edificio contemporaneo che guarda alla Storia”.

Il valore della permanenza e il rigore di Franco Albini

 

Nel libro “L'Architettura della città”, scritto da Aldo Rossi nel 1966, la città viene intesa come un'architettura, facendo riferimento non solo all'immagine visibile della città e all'insieme delle sue architetture, ma piuttosto all'architettura come costruzione, e più esattamente come costruzione della città nel tempo. La città viene quindi intesa nella sua completa interezza, come un'unica architettura nella quale la costruzione si stratifica e articola nel tempo, e crescendo quindi acquista coscienza e memoria di se stessa.

Il senso della conoscenza del divenire storico della città, e più specificatamente della permanenza, sono fondamentali nell'approccio di qualsiasi progetto. L'architetto diventa perciò portatore di innovazioni e trasformazioni, che devono essere tali però da rispettare i caratteri e la leggibilità del manufatto e tali da non alterare il senso della memoria e della permanenza.

Attraverso il recupero dei monumenti in una forma consona e adeguata, il passato viene sperimentato nel presente e diventa un veicolo che conduce alla quotidianità e al futuro.

A riguardo cito alcuni esempi in cui non si è tenuto conto del senso della permanenza: il Pantheon, nel quale furono demoliti i campanili realizzati da Bernini per conferire l'immagine più antica del monumento e per completare quindi l'isolamento dell'edificio antico; il teatro di Arles, anfiteatro romano che fu ricostruito nel 1686 eliminando le abitazioni che si erano installate con la finalità di restituire l'antica memoria al manufatto; la collina dei Parioli, nella quale la villa suburbana romana di notevole prestigio verrà trasformata in un blocco edilizio di sei piani con venti alloggi, esempio quindi in cui è stata soppiantata la permanenza del monumento.

Invece, per quanto riguarda il mantenimento della permanenza, riporto l'esempio di Manhattan, che, sviluppatasi all'inizio dell'800 con una maglia rigida ad eccezione della strada Broadway, il percorso che facevano gli indiani per andare a cavallo, rappresenta un esempio in cui la permanenza svolge una funzione simbolica, rimasta appunto con un segno, che è quello della strada.

 

Una figura di notevole importanza che affidava alla storia tutta l'esperienza progettuale è Franco Albini. Albini tratteggia la figura dell'intellettuale e dell'architetto consapevole di tutto il processo progettuale, di ciò che avviene prima e degli effetti e dei benefici che il progetto produce dopo la sua costruzione. Condivide l'interesse per la tradizione, forma portante dell'architettura italiana nel dopoguerra, assumendola però nell'ambito di un metodo di lavoro che implica la necessità di darsi delle regole. La tradizione non diventa quindi un elemento a cui conformarsi, ma un elemento di coscienza individuale e collettiva, di interpretazione dei valori riconosciuti, un patrimonio da reinterpretare per creare una sorta di nuova tradizione; diventa quindi un filo conduttore che collega interventi in ambienti e periodi diversi; come ad esempio nella Rinascente a Roma, realizzata con Franca Helg nel 1957, dove si manifesta una dicotomia tra la scelta stilistica del linguaggio, schiettamente moderno e la citazione di elementi costruttivi classici, quali le cornici costituite dalle travi di acciaio, e tradizionalmente romani quali i solai e la texture delle superfici murarie che ripensano nella granulometria e nei colori l'ondulazione barocca. Si tratta di un'architettura di grande contemporaneità che guarda alla storia, che si innesta in un tessuto urbano che è proprio quello delle vicine mura aureliane, trovando una sorta di accordo con il volto della città.

Altro intervento sarà l'allestimento, nel 1973, della mostra su Palladio all'interno della Basilica Palladiana a Vicenza, nel quale l'architetto si cimentò non solo nell'interpretazione delle opere di Palladio, cercando di utilizzare il suo metodo, ma soprattutto nel rispettare la struttura interna della Basilica.

Notiamo come nelle architetture di Albini, improntate sul rigore e sull'importanza della storia, venga utilizzata una profondità di linguaggio nel quale è fortissimo il senso della conoscenza e della memoria.

Altro esempio interessante del mantenimento della preesistenza è il Centro Cultural Escuelas Pias de Lavapies, realizzato nel quartiere popolare di Madrid da Linazasoro nel 1996, che comprende Aule Universitarie e una Biblioteca; le prime occupano lo spazio non edificato, mentre la seconda viene realizzata sulle rovine della Escuela Pias de San Fernando, chiesa barocca distrutta durante la guerra civile. Osserviamo come l'architetto ha abilmente integrato l'antico con il nuovo; è stato infatti prescelto il mattone, materiale che meglio risponde ai requisiti di uniformità, per ottenere un'immagine di forte coesione tra il nuovo e il vecchio.

Infatti, al fine di rendere maggiormente unitario il muro della facciata principale, questo viene reintegrato con mattoni nuovi, mentre per quanto riguarda la copertura, invece di ricostruire la cupola ottagonale andata distrutta, realizza una copertura a volta in doghe di legno lamellare da cui filtra la luce. Le scale, invece, di cemento armato, a mio avviso si inseriscono adeguatamente all'interno dell'edificio, in quanto, staccandosi dalla parete laterizia non vanno ad interrompere la continuità del muro.

Si tratta perciò di un esempio di notevole importanza in cui antico e nuovo dialogano e si integrano tra loro e in cui i resti dell'antico permangono, vengono rispettati, salvaguardati e resi perciò fruibili.

Il valore della permanenza

Cupido che dorme è l’antica architettura, il monumento. Psiche, curiosa, con la lucerna, è l’architetto, l’ingegnere, il tecnico. Ma una goccia di olio bollente cade dalla lucerna: è l’azione di “restauro”. Cupido si sveglia e fugge via, così l’autenticità è compromessa.

Si tratta di una delle tante definizioni che sono state date del restauro, qui considerato, metaforicamente, come la mitica goccia d’olio della lucerna di Psiche che, irrimediabilmente, porta alla fuga di Cupido. Certo, ogni volta che si interviene su un monumento si altera il suo stato di fatto. Ma ciò è sempre un male? Ipotizziamo di trovarci davanti ad un monumento seriamente compromesso dal degrado. Quanto si è disposti a pagare affinché tale edificio, nella sua consistenza fisica e storica, permanga in quello spazio? E quanto si è disposti a pagare perché il monumento riacquisti una propria identità? Bene, il fine del restauro colto è proprio questo: garantire la permanenza di un monumento. Ma, per far ciò, è necessario intervenire in maniera intelligente, rispettando il manufatto antico; tale obiettivo si consegue attraverso un accurato studio preliminare delle fonti documentarie, un preciso rilievo volto ad evidenziare degradi ed eventuali problemi strutturali dell’edificio, un dettagliato progetto degli interventi ed un indispensabile computo metrico estimativo per valutare la fattibilità del progetto stesso. Oggigiorno esistono diverse scuole di pensiero che riguardano il progetto di restauro: c’è chi pensa che tutto debba essere lasciato come si trova, a meno di piccoli interventi di pulitura e consolidamento; chi ritiene che tutto debba essere ricostruito “com’era, dov’era”; chi decide di integrare il nuovo con l’antico. Io sono dell’idea che ogni intervento debba essere valutato di volta in volta; come già detto, infatti, testimonianze storiche come i monumenti sull’Acropoli di Atene è giusto che vengano ricostruite, mentre in altri casi si può optare per un ben studiato progetto di integrazione tra passato e presente, come avviene sia nei progetti di Peter Zumthor, di Rafael Moneo o di José Ignatio Linazasoro, sia negli allestimenti di mostre all’interno di consistenze storiche, come nel caso di Franco Albini. Di Zumthor e Moneo si è già parlato la volta scorsa; per quanto riguarda Linazasoro, i suoi interventi di restauro e di riuso di antichi edifici sono piuttosto interessanti, basti pensare al progetto finalista per la sistemazione di Piazza Augusto Imperatore, in cui il monumento (al cui interno viene lasciato intatto) è valorizzato da un’ampia piazza che lo isola e al tempo stesso lo collega al resto della città, o alla Biblioteca del quartiere di Lavapiés a Madrid, in cui l’architetto cerca di creare una continuità materica (ottenuta attraverso l’uso del mattone) e, allo stesso tempo, una discontinuità concettuale tra nuovo ed antico, proponendo un ordine nuovo in cui i resti della preesistenza (una chiesa barocca) sono non solo valorizzati, ma si integrano nella costruzione recente. Albini, invece, è stato considerato dalla socia Franca Helg un uomo“silenzioso e fedele”, un architetto molto preciso in tutto ciò in cui si impegnava e, proprio per questo, che esigeva un uguale rigore da tutti i suoi collaboratori; più stimava una persona, più pretendeva che essa non sbagliasse, che non pensasse cose non logiche, che aspirasse sempre “alla luna”. Sicuramente, uno dei progetti per cui Albini è stato reso celebre è il Palazzo della Rinascente in Piazza Fiume a Roma (1957), ma non bisogna dimenticare il quartiere Fabio Filzi a Milano (1936-1938; “un’oasi di ordine nel disordinato tessuto della città” secondo il parere di Giuseppe Pagano), l’Albergo-rifugio per ragazzi Pirovano di Cervinia (1948-1952), il Museo del Tesoro di San Lorenzo a Genova (1952-1956). Egli, inoltre, fu anche raffinato designer e curò, come già accennato, diverse mostre, tra cui l’Allestimento della stanza di soggiorno in una villa alla VII Triennale di Milano (1940), la Mostra di Arte contemporanea, Arte decorativa e Architettura italiana a Stoccolma (1953), la Mostra su Palladio organizzata nella Basilica Palladiana di Vicenza nel 1973; si tratta, in quest’ultimo caso, di un allestimento particolarmente rispettoso del valore storico dell’edificio in cui si svolge. Albini, infatti, decise di “pensare” come Palladio, di entrare in sintonia con il luogo, in modo tale che le opere dell’architetto del XVI secolo, rappresentate da accurati plastici in scala 1:33, fossero il più possibile valorizzate e non “schiacciate” dal peso imponente di un allestimento fine a se stesso. In questo senso, credo che oggi, nella maggior parte dei casi, manchi un atteggiamento di umiltà nei confronti di una permanenza storica e che i “grandi” architetti si dilettino a concepire progetti fatti per destare stupore, non per adattarsi al contesto circostante, che si possano replicare in varie città del mondo senza prendere in considerazione le specificità di un luogo rispetto ad un altro. Bisognerebbe allora fermarsi a riflettere prima di accettare un incarico e pensare: sono in grado di portare avanti una simile idea? Ho le conoscenze sufficienti per impegnarmi in questo progetto? E se si risponde affermativamente, si deve mettere a disposizione tutta la propria tecnica, tutta la propria persona nella realizzazione di quel progetto, allo stesso modo di Albini, “il più geniale muratore di geometrie funzionali della storia dell’architettura moderna”.

Il valore della permanenza - Il rigore di Franco Albini

 

Il valore della permanenza
“[…] col tempo la città cresce su se stessa: essa acquista coscienza e memoria di se stessa […]”.
Con questa ed altre frasi del libro Architettura della città di Aldo Rossi, ha inizio la lezione sul valore della permanenza.
“[…] non possiamo considerare lo studio della città semplicemente come uno studio storico. Dobbiamo anzi porre particolare attenzione nello studio delle permanenze per evitare che la storia della città si risolva unicamente nelle permanenze. Io credo infatti che gli elementi permanenti possano essere considerati alla stregua di elementi patologici […]”
Il senso di permanenza in una città consolidata come quella di Roma sta anche in segni e simboli, come quelli lasciati in epoca romana. La Colonna Traianea ad esempio, oltre a dover accogliere le ceneri dell’imperatore dopo la sua morte, aveva anche una funzione pratica: ricordare l’altezza della sella collinare prima dello sbancamento per la costruzione del Foro. L’altezza della colonna di 100 piedi corrisponde infatti all’altezza dello sbancamento del colle, come ricorda anche l’iscrizione riportata sul basamento in cui si racconta che la colonna venne innalzata “ad declarandum quantae altitudinis mons et locus tantis operibus sit egestus”.
Ma a Roma il senso di permanenza si avverte non solo nei segni, ma anche in veri e propri edifici, testimonianza del processo di sviluppo della nostra città. Le ville suburbane che possiamo ancora ammirare oggi (come ad esempio Villa Medici e Villa Borghese), rappresentano una permanenza delle numerose ville che sorsero a partire dal Rinascimento e prima del 1870 nel perimetro delle mura di Roma. Molte di queste ville furono demolite nel corso della febbre edilizia che investì la città e la sua nobiltà quando Roma divenne la capitale d'Italia e precisamente dopo il piano regolatore del 1883: “in questa Roma senza leggi né freni, dove il piano regolatore non era che la somma di tutti gli interessi manifestati prima della sua pubblicazione, salvare una villa significò distruggerne una dozzina tutt’intorno” [Italo Insolera, Roma moderna]. Se si fossero seguite le disposizioni del piano, questo patrimonio non sarebbe andato completamente perduto, prima fra tutti si sarebbe conservata la Villa Ludovisi, una tra le più belle ville di Roma, decantata da Goethe e Stendhal e di fronte alla cui distruzione protestarono D'Annunzio e Lanciani, sulla quale sorge l’attuale rione Ludovisi.
Anche in una realtà così lontana e così “recente” rispetto a Roma come quella americana, possiamo comunque ritrovare permanenze che ad esempio raccontano delle origini di Mahattan. La Broadway infatti trae origine da un antico sentiero indiano che tagliava l’isola. Una delle sue caratteristiche principali è dunque quella di non seguire la classica maglia regolare delle Streets ed Avenues, ma di tagliare Manhattan in obliquo, formando, di tanto in tanto, delle piazze (square), la più famosa dei quali è sicuramente Times Square.
E’ a Roma però che possiamo ritrovare il maggior numero di permanenze, che ancora oggi ci consentono di leggere le numerose trasformazioni, alcune delle quali condannabili, che hanno determinato il volto attuale della nostra città.
 
Saggi di buone pratiche di architettura: il rigore di Franco Albini
In occasione del ciclo di conferenze tenuto presso l’auditorium del museo del MAXXI di Roma nel 2011 e promosso dal Comitato Nazionale per le celebrazioni del centenario dalla nascita di Franco Albini, Marco Albini, docente, architetto e disigner specializzato nell’allestimento e nella museografia, nel corso del suo intervento, sottolinea come per il padre “il controllo della fantasia fosse un’ossessione”.
Franco Albini infatti rappresenta uno dei maggiori esponenti del razionalismo nonché simbolo di rigorismo e di minimalismo.
La sua carriera è stata incentrata sulla ricerca del rigore, della coerenza e della semplicità attraverso la realizzazione di allestimenti minimalisti e di “spazi negli spazi” negli ambienti museali.
Nella mostra su Andrea Palladio del 1973, Albini non si limita a fare l’allestitore, ma interpreta le opere del celebre architetto utilizzando il suo linguaggio e rispettando la struttura interna della Basilica Palladiana.
Non bisogna però dimenticare che Albini rimane anche uno dei precursori dell’architettura high-tech grazie all’usodi materiali sempre più tecnologiciealla progettazione di complesse soluzioni di dettaglio, come farà nella realizzazione dell’impianto di illuminazione della mostra.
Ma l’opera che meglio sintetizza l’innovazione e la tradizione tipica dell’architettura di Albini è la Rinascente a Roma, realizzata in collaborazione con Franca Helg nel 1957. Un’architettura contemporanea che guarda alla storia attraverso un accordo profondo con la città.
In questo edificio è possibile leggere la volontà costante dell’architetto di voler coniugare i principi della modernità con il concetto della permanenza del passato, richiamando la tradizione storica dei palazzi rinascimentali e delle vicine mura aureliane, ma con l’ausilio di soluzioni tecnologiche.

 

 

 

 

Considerazioni sulla lezione di oggi

La lezione di oggi era incentrata sul tema del valore della permanenza. Per spiegarci il concetto il professore ci ha citato alcune frasi tratte dal libro di Aldo Rossi “L’architettura della città”.

Oggi sembra che il lavoro di un architetto si incentri principalmente sul progetto tralasciando spesso il contesto e le conseguenze. Il progetto è uno strumento, ma se non abbiamo ben chiari i processi evolutivi, gli avvenimenti e la percezione del luogo che hanno gli abitanti su un dato edificio, non possiamo intervenire in modo adeguato o quantomeno coscienziosamente, inoltre va tenuto conto anche l’impatto che il progetto avrà sul luogo e su chi ci abita. Sebbene questo discorso in teoria è accettato e riconosciuto, in realtà è molto difficile trovare una soluzione che tenga conto di tutti questi aspetti.

Un altro concetto trattato a lezione è stato introdotto da una frase: “ Cupido che dorme è l’antica architettura, il monumento. Psiche, curiosa, con la lucerna è l’architetto, l’ingegnere, il tecnico. Ma una goccia di olio bollente cade dalla lucerna: è l’azione di Restauro. Cupido si sveglia e fugge via, così l’autenticità è compromessa”. Non sono molto d’accordo con questa affermazione, perché la trovo ambigua, in quanto è vero che il restauro ne altera l’autenticità, ma un dato edificio, in particolare uno storico, ha subito nel tempo, soprattutto quando ancora era nel pieno della sua funzionalità, una serie di interventi manutentivi, che comunque ne hanno alterato il carattere originale. Ma fintanto che si parla di manutenzione non ci sono limiti ne restrizioni agli interventi, quando però l’edificio perde la sua funzione e ci si interviene con un restauro tutto si complica e diventa alterazione. A questo punto l’unico modo di preservarne l’autenticità sarebbe quello di non intervenirci, ma così facendo andremmo a perdere quella che è la memoria storica, perché non avremmo più una preesistenza da valutare e valorizzare.

La seconda parte della lezione, invece è stata incentrata sulla figura di Franco Albini e sul suo rigore, inteso come stile di vita improntato sull’autodisciplina.

In particolare ci siamo concentrati sulla mostra del 1973 su Andrea Palladio allestita da Albini, soffermandoci a leggere i documenti del 1500 che assegnavano a seguito di una votazione il lavoro alla Chiesa del Redentore a Palladio, nonostante si fossero presentati architetti d maggiore prestigio, poiché in lui meglio si applicava il compromesso tra manierismo e classicismo. Questo a dimostrazione del fatto che non sempre basta un nome importante, ma è sufficiente trovare il giusto equilibrio.

 

Riflessioni sulle ultime due lezioni di estimo: il Foro Italico ed il Recupero architettonico

 

L'ex Foro Mussolini, oggi Foro Italico, vasto complesso di edifici e impianti sportivi, nasce nel 1928, inizialmente su idea di Enrico Del Debbio e in seguito di Luigi Moretti.

Situato sulle pendici di Monte Mario, rappresenta uno dei principali interventi a scala urbana del regime fascista, significativo per l'intento di riunire attività sportiva e formazione ideologica.

Nella realizzazione di questo grandioso complesso, lo Stato intervenì in prima persona, finanziandolo interamente.

Le diverse costruzioni testimoniano l'oscillare della cultura architettonica del periodo tra classicismo stilizzato e deciso razionalismo, volti a rappresentare il monumentalismo e la forte identità propri del regime fascista.

Il progetto di Enrico Del Debbio si caratterizzava per la particolare attenzione al rispetto ambientale, secondo il criterio ellenistico, che seguiva l'orografia del terreno, a differenza del criterio romano che privilegiava l'elevazione delle murature. Tale progetto comprende lo Stadio Dei Marmi, l'Accademia di Educazione fisica, il Monolite Mussolini e lo Stadio dei Cipressi. Quest'ultimo, seppur non realizzato, era un'opera di forte impianto naturalistico e sfruttava appunto le depressioni del terreno. Lo Stadio Olimpico, nato appunto come Stadio dei Cipressi, sarà realizzato sino al primo anello murario ed inaugurato nel 1932. Nel 1952 lo Stadio venne riprogettato sulla base già realizzata dello Stadio dei Cipressi da Annibale Vitellozzi con una capienza di 80.000 posti. Nel 1990, in occasione del campionato di mondo di calcio, venne adeguata la capienza aumentandone le gradinate e inserendone una struttura reticolare ad anello. Intervento a mio parere incongruo, che con l'inserimento di piloni alti 14 metri, ha arrecato indubbio danno all'insieme ambientale e monumentale.

Lo Stadio dei Marmi anch'esso sfrutta il dislivello per allestire il campo e la pista. Il riferimento è allo stadio greco e all'architettura classica: gradinate perimetrali in marmo assieme alla presenza di sessanta statue di marmo rappresentanti tutte le provincie di Italia. Questo impianto, che rappresentò lo scenario del regime, oggi purtroppo viene deturpato con eventi incongrui. A partire dagli anni '80, infatti, diventando un luogo di pubblicità, iniziò a subire diverse degenerazioni d'uso: inizialmente ospitava un campo di calcio, diventò successivamente una sorta di pista per le motociclette, fino a diventare una pista da sci.

E' assurdo pensare che un impianto di così notevole importanza storica e architettonica possa essere così deturpato oggigiorno.

Ma l'opera più emblematica di questo grandioso complesso è senza dubbio la Casa delle Armi, realizzata da Luigi Moretti nel 1933. Moretti è uno dei maggiori architetti che operano durante il ventennio fascista, sarà però colpito dopo la guerra da una sorta di damnatio memoriae, in seguito rimossa a partire dagli anni '80 con l'inizio di una nuova stagione di interesse.

La Casa delle Armi è composta di due volumi ortogonali, la Biblioteca e la Sala delle Armi, collegate tra di loro da un passaggio pensile. Si tratta di grandi volumi, il cui rivestimento in facciata in marmo di Carrara, attraverso gli effetti di luce radente, contribuisce ad esaltare tutte le venature del marmo e l'eleganza e la purezza dei volumi e suggerisce l'idea di un interrotto blocco monolitico di marmo.

Infatti Moretti puntava a creare grandi effetti di luce ed era convinto che anche attraverso la pietra si potessero comunicare effetti di luce radente:attraverso una grande fenditura, si illuminano di luce riflessa omogenea il grande volume della sala interna della scherma e la grande pedana, creando quindi uno spazio unitario e solido.

Questo edificio nel 1974 viene adibito ad una funzione incongrua e quindi deturpato. Infatti, sebbene l'esterno, nonostante l'aggiunta di un'alta cancellata di recinzione e nonostante il fissaggio con viti di ferro delle lastre mantenga la sua riconoscibilità, all'interno questa viene invece compromessa dalle manomissioni per l'adeguamento in parte a a Tribunale in parte a carcere; in seguito si aggiunge anche una caserma dei Carabinieri. La Biblioteca all'interno viene completamente stravolta: negli spazi prima concepiti interamente vuoti, si inseriscono strutture in cemento per ottenere nuove superfici da destinare ad uffici; inoltre, fu realizzata un'aula bunker e viene scavata una trincea e una rampa con garage per portare i detenuti, causando quindi la distruzione di elementi esterni.

Tutte queste manomissioni hanno portato ad un deturpamento di un'opera di grande valore intrinseco, e gli eventuali interventi per rimediare a questi danni sono molto complessi e richiedono costi molto elevati.

Il problema maggiore delle architetture contemporanee del cemento armato, essendo molto più fragili delle altre, portano con sé già dall'inizio la logica della distruzione, e non essendo destinate quindi a durare in eterno, necessitano continue manutenzioni, indispensabili altrimenti si rischia di perdere il manufatto.

Bisognerebbe procedere a mio avviso ad un restauro di tipo filologico, mirato al ripristino delle sue qualità al fine di restituire all'opera l'antico splendore dei volumi e il fascino dei suoi nitidi spazi interni. Anche se i costi sarebbero molto elevati è importante tenere conto del fatto che i benefici sarebbero notevoli e compenserebbero gli investimenti pubblici: si conserverebbe un edificio di valore storico e artistico inserito nell'ambiente preesistente con criteri di rispetto paesaggistico, si restituirebbe alla cittadinanza l'uso di una splendida struttura dedicata allo sport. Insomma, si manterrebbe uno dei più grandi esempi di cultura e architettura razionalista.

 

 

 

Il Restauro come forma di cultura”, così scrisse Bonelli, segretario del processo di ricostruzione post-bellico INA Casa, nel suo libro “Architettura e Restauro” del 1959.

 

Ciò induce a riflettere su quanto incida sul progetto di restauro delle opere del passato la cultura del tempo: ogni tempo ha dato importanza diversa al rispetto e alla salvaguardia di ciò che la storia ci ha consegnato, di ciò che si è salvato dell'architettura del passato nel corso dei secoli. Qualsiasi progetto, infatti, deve tenere conto della storia e più diffusamente del valore della permanenza, concetto di fondamentale importanza in quanto rappresenta le tracce di una cultura millenaria.

A riguardo citiamo un esempio in cui non è stata rispettata la permanenza della stratificazione storica nel recupero del Mausoleo di Augusto, dedicato a lui e ai suoi successori; fu iniziato nel 27 a.C., cadde in rovina nella tarda antichità quando fu sfruttato come cava di materiali; fu però poi trasformato in vigna, giardino pensile, teatro, politeama e, infine, nel 1907 venne acquistato dal Comune di Roma e adattato a sala per concerti.

Tutto ciò oggi non esiste più. Mussolini, nel 1937, in occasione del bimillenario di Augusto, secondo il quale Roma sarebbe dovuta diventare grandiosa ed ordinata come si presentava all'epoca di Augusto, iniziò la demolizione delle strutture dell'auditorium sovrastanti il Mausoleo e costruì intorno alla piazza palazzi in stile monumentale dell'epoca a evidenziarne l'importanza del luogo e a conferirgli un aspetto celebrativo e scenografico, propri del regime fascista.

Il Mausoleo, frammento della Roma Imperiale, diventa quindi il centro di un nuovo spazio vuoto, non più fruibile ai cittadini e troppo basso rispetto agli edifici circostanti per essere messo in evidenza e, a mio avviso, non dialoga minimamente con il resto della piazza.

Tutta queste serie di operazioni incongrue hanno portato ad un velleitario tentativo di recupero dell'opera iniziale, senza tener quindi conto delle stratificazioni storiche che invece sarebbe stato utile conservare.

Il restauro archeologico comincia intorno alla metà del '700 in seguito agli scavi di Pompei ed Ercolano, alla riscoperta delle antichità greche ed alla scoperta di quelle egizie avvenuta con la campagna d'Egitto di Napoleone Bonaparte. Questo passaggio fondamentale della conoscenza dell'arte antica portò ad un cambiamento nel rapporto con le opere del passato dando l'avvio al restauro modernamente inteso.

Durante questo periodo si sviluppano due filoni differenti: quello che tende a distinguere l'integrazione rispetto alla parte preesistente, ricostruendo le parti mancanti in maniera riconoscibile attraverso la distinzione del materiale o la semplificazione delle forme, come è avvenuto ad esempio per il restauro dell'Arco di Tito eseguito da Valadier e il restauro del Colosseo ad opera di Stern; il secondo filone, stilistico, secondo cui il restauratore deve immedesimarsi nel progettista originario e integrarne l'opera nelle parti mancanti. Protagonista di questa seconda tendenza sarà l'architetto francese Viollet Le Duc che ricostruì le mura di Carcassonne come dovevano apparire nel Medioevo.

Verso la fine dell'800 in Italia nascono due nuovi modi di intendere il restauro architettonico: il restauro storico, finalizzato ad un ripristino integrale attraverso i documenti storiografici; il restauro filologico che riprende il concetto di riconoscibilità dell'intervento, prevede il rispetto per le aggiunte che sono state apportate al manufatto nel corso del tempo e tutela i segni del tempo.

Al giorno d'oggi gli interventi di restauro che si possono realizzare sono i seguenti: l'intervento di conservazione è finalizzato a confermare uno stato di fatto e si prefigge quindi lo scopo di arrestare le modificazioni in atto; l'obiettivo del ripristino è quello di ricondurre un sistema ad una condizione morfologica originaria, attraverso i documenti storici; infine il concetto di restauro che corrisponde all'idea di architettura come opera aperta, cioè disponibile alle interpretazioni e al giudizio.

Un esempio interpretativo è il restauro del Partenone, nella cui restauro si riproduce fedelmente l'architettura originaria, mantenendo la possibilità di distinguere chiaramente la parte antica dalle nuove aggiunte. Questo rappresenta al meglio l'idea di restauro, in quanto l'occhio coglie al meglio l'insieme, distinguendo però il nuovo dal vecchio.

Altro aspetto interessante della conservazione e utilizzazione dei centri storici riguarda l'accostamento tra vecchio e nuovo. A riguardo cito l'esempio del Museo Kolumba di Colonia realizzato da Peter Zumthor sui resti di una chiesa tardogotica distrutta in seguito alla seconda guerra mondiale. Qui il progettista non interrompe l'opera passata; prosegue infatti le antiche mura della chiesa costruendovi sopra il nuovo e attraverso il rispetto dei resti del manufatto originario crea una continuità tra passato e presente.

In questo modo l'antico diventa protagonista, e nonostante l'inserimento del nuovo, non viene contaminato, anzi al contrario viene esaltato ed è in grado di conferire maggior valore alla rovina storica.

Antico e contemporaneo possono perciò coesistere in armonia, pur sempre agendo adeguatamente nel rispetto dei caratteri, della leggibilità e dello spirito delle opere preesistenti.