blog di Alessandra.Vocaturo

Visita al teatro Argentina

Il Teatro Argentina, uno dei più antichi teatri di Roma, venne inaugurato nel 1732 su progetto dell’arch. Girolamo Teodoli. La facciata, in stile neoclassico, venne realizzata tra il 1836-37 da Pietro Holl.  Un intervento di notevole rilievo è rappresentato dai lavori condotti da Gioacchino Ersoch alla fine dell’800 (1886-1888), che consistettero in una completa ristrutturazione distributiva con la costruzione di quattro nuove scale in luogo di quelle settecentesche e con un generale riassetto dell'architettura degli interni, ma i  successivi restauri di Marcello Piacentini (1926) e quelli effettuati nella seconda metà del secolo hanno quasi totalmente cancellato i segni della sua opera.
Con i restauri degli anni ‘70 del ‘900 sono state eliminate le capriate lignee e introdotti dei cordoli in calcestruzzo armato in sommità secondo le prescrizioni del Genio Civile per realizzare un presidio antisismico.
Col tempo si è però dimostrato che l’elevata rigidezza del calcestruzzo, superiore a quella della muratura sottostante, fa sì che si creino distacchi tra le due strutture in caso di sollecitazioni dinamiche, in quanto i due materiali rispondono diversamente alle accelerazioni trasmesse dal suolo.
Sempre negli stessi anni si è intervenuti sul gruppo statuario situato a coronamento della facciata con una colletta cementizia che ha eliminato l’effetto stucco alterando l’estetica delle sculture e provocando la fuoriuscita di sali. Con gli interventi del 1993 si è invece proceduto ad una scialbatura in resina vinilica dell’intero prospetto che ha totalmente alterato l’immagine della facciata non consentendone tra l’altro la traspirazione e provocando delle micro fessurazioni. L’architetto Celia, direttore dei lavori, con l’appoggio dell’architetto Giovannetti, ha proceduto all’eliminazione del cemento e delle recente scialbatura e al ripristino dello stucco originale in polvere di marmo e latte di calce. Dove non era possibile si è dovuto conservare il materiale cementizio, ora privo di sali, che ormai costituisce la parte materica delle sculture.
Sono stati condotti una serie di studi per conoscere la stratigrafia del rivestimento di facciata e comprendere i colori e i materiali originali: prima dei lavori infatti il prospetto tendeva ad un color ocra-marrone ed ora si sta cercando di restituire l’immagine originale dell’800 costituita da un finto bugnato color travertino. I restauri hanno riguardato anche gli infissi, in origine in legno, che nel corso degli anni sono stati nascosti da una vernice grigia e che ora sono stati liberati e riportati al loro colore naturale.
I lavori del teatro rappresentano un importante capitolo della città di Roma che vede per la prima volta un bene pubblico restaurato interamente con i proventi della pubblicità di privati. 

 

Il valore della permanenza - Il rigore di Franco Albini

 

Il valore della permanenza
“[…] col tempo la città cresce su se stessa: essa acquista coscienza e memoria di se stessa […]”.
Con questa ed altre frasi del libro Architettura della città di Aldo Rossi, ha inizio la lezione sul valore della permanenza.
“[…] non possiamo considerare lo studio della città semplicemente come uno studio storico. Dobbiamo anzi porre particolare attenzione nello studio delle permanenze per evitare che la storia della città si risolva unicamente nelle permanenze. Io credo infatti che gli elementi permanenti possano essere considerati alla stregua di elementi patologici […]”
Il senso di permanenza in una città consolidata come quella di Roma sta anche in segni e simboli, come quelli lasciati in epoca romana. La Colonna Traianea ad esempio, oltre a dover accogliere le ceneri dell’imperatore dopo la sua morte, aveva anche una funzione pratica: ricordare l’altezza della sella collinare prima dello sbancamento per la costruzione del Foro. L’altezza della colonna di 100 piedi corrisponde infatti all’altezza dello sbancamento del colle, come ricorda anche l’iscrizione riportata sul basamento in cui si racconta che la colonna venne innalzata “ad declarandum quantae altitudinis mons et locus tantis operibus sit egestus”.
Ma a Roma il senso di permanenza si avverte non solo nei segni, ma anche in veri e propri edifici, testimonianza del processo di sviluppo della nostra città. Le ville suburbane che possiamo ancora ammirare oggi (come ad esempio Villa Medici e Villa Borghese), rappresentano una permanenza delle numerose ville che sorsero a partire dal Rinascimento e prima del 1870 nel perimetro delle mura di Roma. Molte di queste ville furono demolite nel corso della febbre edilizia che investì la città e la sua nobiltà quando Roma divenne la capitale d'Italia e precisamente dopo il piano regolatore del 1883: “in questa Roma senza leggi né freni, dove il piano regolatore non era che la somma di tutti gli interessi manifestati prima della sua pubblicazione, salvare una villa significò distruggerne una dozzina tutt’intorno” [Italo Insolera, Roma moderna]. Se si fossero seguite le disposizioni del piano, questo patrimonio non sarebbe andato completamente perduto, prima fra tutti si sarebbe conservata la Villa Ludovisi, una tra le più belle ville di Roma, decantata da Goethe e Stendhal e di fronte alla cui distruzione protestarono D'Annunzio e Lanciani, sulla quale sorge l’attuale rione Ludovisi.
Anche in una realtà così lontana e così “recente” rispetto a Roma come quella americana, possiamo comunque ritrovare permanenze che ad esempio raccontano delle origini di Mahattan. La Broadway infatti trae origine da un antico sentiero indiano che tagliava l’isola. Una delle sue caratteristiche principali è dunque quella di non seguire la classica maglia regolare delle Streets ed Avenues, ma di tagliare Manhattan in obliquo, formando, di tanto in tanto, delle piazze (square), la più famosa dei quali è sicuramente Times Square.
E’ a Roma però che possiamo ritrovare il maggior numero di permanenze, che ancora oggi ci consentono di leggere le numerose trasformazioni, alcune delle quali condannabili, che hanno determinato il volto attuale della nostra città.
 
Saggi di buone pratiche di architettura: il rigore di Franco Albini
In occasione del ciclo di conferenze tenuto presso l’auditorium del museo del MAXXI di Roma nel 2011 e promosso dal Comitato Nazionale per le celebrazioni del centenario dalla nascita di Franco Albini, Marco Albini, docente, architetto e disigner specializzato nell’allestimento e nella museografia, nel corso del suo intervento, sottolinea come per il padre “il controllo della fantasia fosse un’ossessione”.
Franco Albini infatti rappresenta uno dei maggiori esponenti del razionalismo nonché simbolo di rigorismo e di minimalismo.
La sua carriera è stata incentrata sulla ricerca del rigore, della coerenza e della semplicità attraverso la realizzazione di allestimenti minimalisti e di “spazi negli spazi” negli ambienti museali.
Nella mostra su Andrea Palladio del 1973, Albini non si limita a fare l’allestitore, ma interpreta le opere del celebre architetto utilizzando il suo linguaggio e rispettando la struttura interna della Basilica Palladiana.
Non bisogna però dimenticare che Albini rimane anche uno dei precursori dell’architettura high-tech grazie all’usodi materiali sempre più tecnologiciealla progettazione di complesse soluzioni di dettaglio, come farà nella realizzazione dell’impianto di illuminazione della mostra.
Ma l’opera che meglio sintetizza l’innovazione e la tradizione tipica dell’architettura di Albini è la Rinascente a Roma, realizzata in collaborazione con Franca Helg nel 1957. Un’architettura contemporanea che guarda alla storia attraverso un accordo profondo con la città.
In questo edificio è possibile leggere la volontà costante dell’architetto di voler coniugare i principi della modernità con il concetto della permanenza del passato, richiamando la tradizione storica dei palazzi rinascimentali e delle vicine mura aureliane, ma con l’ausilio di soluzioni tecnologiche.

 

 

 

 

Il recupero in architettura

“Passato e presente nella buona arte si incontrano”. Così Peter Zumpthor si esprime in merito al progetto per il Kolumba Museum ideato a Colonia sui resti di una chiesa cattolica andata distrutta nel corso dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Con questo progetto, in cui moderno e antico si fondono, assistiamo ad un recupero di un’architettura di grande valore artistico, storico (al di sotto della chiesa sono state ritrovati negli anni ’70 resti di rovine romane, gotiche e medievali), ma soprattutto simbolico (la Madonna delle Rovine è stato considerata da molti un simbolo di speranza durante i dolorosi anni della ricostruzione post-bellica). Un progetto che dunque ha consentito di preservare le rovine di un’architettura  che rappresentano segni di una memoria sia del passato che della storia moderna.
Un’idea di recupero molto lontana da quella che possiamo ritrovare nel nostro paese, in cui spesso l’enorme patrimonio architettonico che ci circonda e che  necessiterebbe quanto meno di una continua manutenzione, è stato, e viene tuttora, “violentato” con interventi e/o eventi non congrui.
E’ il caso del Foro Italico, detto anche Foro Mussolini, un complesso sportivo che fungeva anche da scenario per le manifestazioni celebrative del regime, ideato nel ventennio fascista e realizzato da Enrico Del Debbio e Luigi Moretti. Finanziato interamente dallo Stato, il complesso di edifici rappresenta un bene pubblico che dunque deve essere valorizzato e reso fruibile alla collettività.
Gli edifici del Foro Italico, in particolare lo Stadio Olimpico e la Casa delle Armi, sono stati negli anni talmente manomessi e modificati da non permettere più di individuare il progetto originale.
Lo Stadio, realizzato negli anni ‘50 da Annibale Vitellozzi, raggiunse il momento di massimo fulgore in occasione delle Olimpiadi del 1960 durante le quali subì una serie di trasformazioni, tra cui l’eliminazione dei posti in piedi che ridusse la capienza effettiva a 65.000 spettatori. Ma gli interventi che ne alterarono drasticamente l’aspetto furono realizzati in vista dei Mondiali di calcio degli anni ’90: l'impianto fu quasi interamente demolito e ricostruito in cemento armato, ad eccezione della Tribuna Tevere ampliata con l'aggiunta di ulteriori gradinate. Un’inadeguata copertura, imposta dal CIO per coprire le tribune, stravolse completamente quella che era l’immagine originale del dopoguerra e ovviamente i costi degli interventi furono talmente cospicui che sarebbe stato più economico costruire un nuovo stadio.
Per quanto riguarda la Caserma della Armi il commento contenuto all’interno del libro “La forma violata” di Alessandra Nizzi e Marco Giunta, è quello che a mio parere sintetizza più adeguatamente gli effetti delle numerose devastazioni che hanno “aggredito” e completamente modificato architettonicamente e formalmente il progetto di Moretti del 1933: “La più clamorosa deturpazione di un bene pubblico, colpevole la superficialità della cultura architettonica, i cui riflessi negativi sono stati ampiamente sottovalutati”. Abbandonato per diversi anni a seguito della "damnatio memoriae" che ha accomunato molti architetti che hanno operato durante il fascismo, di cui Moretti era uno degli esponenti più illustri, l’edificio negli anni ’80 è stato trasformato in un bunker divenendo la sede per i processi al terrorismo di quegli anni e subendo delle radicali e probabilmente irreversibili modifiche che hanno snaturato completamente il progetto originale.
Di certo non possiamo parlare in questo caso di recupero di un’opera architettonica, intendendo per recupero un insieme di interventi e di trasformazioni che si integrano il più possibile nel rispetto dell'esistente (sia degli aspetti materiali e fisici che di quelli immateriali come il significato e la storia).
Cosa ne sarà di questo edificio tra qualche anno? Purtroppo temo che con moltissima difficoltà si potranno trovare i finanziamenti per ripristinare l’edificio così come era stato pensato da Moretti pur essendoci documenti di archivio che lo permetterebbero. Dovrebbe essere per questo demolito? Oppure bisognerebbe conservare lo stato di fatto in modo che diventi monito e testimonianza di come interventi superficiali, che trascurano il significato storico e architettonico di un edificio, possano trasformare irreversibilmente un’architettura?
Per cui la alla domanda su quando intervenire con una manutenzione, piuttosto che con un intervento di conservazione o di ripristino o di restauro, la risposta dipende da una serie complessa e lunga di fattori, tra i quali il contesto nel quale ci si trova, l’opera architettonica con la quale abbiamo a che fare, ma anche le risorse economiche a disposizione. Purtroppo la mancanza di risorse non consente, sempre e ovunque, di conservare il nostro patrimonio e di restaurare o ripristinare edifici che hanno subito delle trasformazioni che ne hanno alterato il significato architettonico.
Molti danni, ad esempio, sono stati prodotti dall’uso incosciente del calcestruzzo che comporta una continua e periodica manutenzione, oltre ovviamente a non rispettare i concetti di compatibilità con i materiali originali e di reversibilità che si sono affermati solamente negli ultimi anni.
La presenza della storia non sempre però preclude l’inserimento del “nuovo”, anzi, a volte, l’”antico” può essere esaltato e valorizzato dal “moderno”. Qui torniamo al progetto di Zumpthor del Kolumba Museum di cui ho parlato in precedenza: in un contesto del genere, in cui il ripristino sarebbe stato eccessivo e la conservazione non avrebbe fino in fondo esaltato le rovine in una città moderna, quasi completamente ricostruita dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, il progetto di Zumpthor dà valore ai resti della rovine, pur rispettando il progetto originario.
E in una città diversa come Roma, fortemente stratificata, sarebbe giusto e possibile un progetto del genere? Il nostro patrimonio è talmente vasto e versa a volte in tali condizioni di degrado per cui, in presenza di risorse, in primo luogo è doveroso procedere a lavori di conservazione e manutenzione, e poi forse, non ovunque, ma soprattutto con molta cautela e consapevolezza, si potrebbe combinare l’”antico” con il “moderno”.
 

 

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi di palazzo Massimo alle Terme e della palazzina di Libera ad Ostia.

 

 

Il  restauro condotto dall’architetto Rinaldi presso una delle case di Libera ad Ostia mostra le numerose problematiche che possono insorgere anche in un intervento su un edificio moderno, che in questo caso era, ed è tuttora, soggetto a vincolo paesaggistico. Dal momento che l’abitazione non era tutelata, i lavori sono stati finanziati dai tre proprietari dell’edificio (i quali in un primo momento erano contrari al restauro) che hanno messo a disposizione un budget molto limitato di circa 200.000€. I lavori hanno riguardato solo l’esterno e gli ambienti comuni (come la scala); la presenza del vincolo paesaggistico imponeva di non modificare l’aspetto esterno della palazzina che però aveva già subito delle trasformazioni, non congrue con il progetto iniziale di Libera, che ne avevano alterato l’aspetto (una modifica tra le tante il color ocra-giallo dell’intonaco esterno che non rispecchiava l’immagine originale dell’edificio). Il doppio appalto ha comportato un aumento dei costi e quindi uno spreco di risorse che potevano essere sfruttate per migliorare alcuni interventi (come ad esempio la realizzazione delle pendenze sulla copertura dell’abitazione).

Nonostante i numerosi studi preliminari, sono però emersi diversi problemi durante la fase esecutiva.

Le ringhiere, attualmente in ferro zincato a caldo e verniciate a polvere, erano state realizzate in un primo momento con ferro prezincato che si era arrugginito dopo soli due mesi. E’ stato dunque necessario sostituirle determinando un aumento dei costi. 

La facciata, oltre ad avere (come detto in precedenza) un colore non congruo con il progetto di Libera, presentava un forte degrado dovuto agli interventi non corretti compiuti nella manutenzione straordinaria degli anni ’70-’80 durante la quale è stato utilizzato il quarzo plastico. Si è dunque dovuto spicconare la parete eliminando anche lo spesso strato di intonaco e ciò ha comportato l’utilizzo di impalcature che hanno inciso fortemente sui costi dell’intervento. E’ stato ripristinato l’intonaco bianco, il quale però al termine dei lavori ha mostrato delle cavillature, dovute probabilmente al diverso assorbimento dell’intonaco in alcune zone del prospetto. Il gruppo Keraton ha però fornito il materiale per rimediare al danno provocato.

Nell’intervenire si è pensato anche ad un piano di manutenzione. L’uso della linea Bio della Keraton per il rivestimento esterno consentirà di restaurare l’intonaco attraverso una ripittura e non una picchettatura, non richiedendo quindi l’utilizzo di impalcature, bensì di ponti mobili, che incidono in maniera minore sui costi.

Dai 1.500€/mq del 1999 (anno in cui un’ordinanza dei vigili del fuoco prevedeva di demolire l’edificio perché pericolante) si è passati, grazie ai lavori di restauro, ad un valore di 5.000€/mq favorendo in questo modo anche la riqualificazione dell’intera area.

Il vincolo economico ha fortemente condizionato anche il progetto di allestimento del Museo Nazionale Romano presso il Palazzo Massimo alle Terme, condotto dagli architetti Cacciapaglia e Celia. Il costo complessivo del progetto, finanziato in parte dalla Sovraintendenza, è stato di 500.000€ ed ha interessato 600 mq di sale espositive. Altro fattore immutabile dei lavori, oltre ai costi, era rappresentato dalla data di inaugurazione del museo, avvenuta il 19 dicembre del 2011. Il progetto, che si fonda sul recupero di elementi della tradizione e della storia (e dunque anche sui restauri di Costantino Dardi condotti alla fine degli anni ’80 del ‘900) ha puntato alla realizzazione di un “allestimento invisibile” che valorizzasse le opere d’arte. L’ incombenza della luce (o troppo piatta, o abbagliante), i supporti non adeguati per il materiale di cui erano costituite le statue, le proporzioni non armoniche delle sale, il colore bianco delle pareti  che non faceva emergere il marmo delle sculture, non permettevano una facile lettura degli oggetti esposti e non consentivano dunque di far ammirare i dettagli delle opere. Il progetto si è concentrato sullo studio dei percorsi, sulla giusta collocazione delle sculture e sulla realizzazione di sale che mettessero in risalto le opere d’arte, facendo attenzione all’uso dei colori (per pareti, soffitti, supporti), ma soprattutto all’illuminazione, studiata e pensata per ogni singola opera esposta. Sale espositive che quindi si “adattano ed adeguano” alle necessità delle opere, divenute le vere protagoniste dell’allestimento grazie all’intervento non solo di architetti, ma anche di storici dell’arte e archeologici, il cui confronto/scontro ha portato al pieno successo del progetto.

 

 

"L'architettura è come l'opera pirandelliana: recita a soggetto"

Il progetto della Stazione Tiburtina cambia il volto della nostra città.

In quella che il progettista definisce "un'esperienza Kafkiana" le difficoltà maggiori hanno riguardato da un lato il giungere ad un compromesso tra gli interessi dei diversi organi che entrano in gioco nella realizzazione di un'opera pubblica di tale importanza, dall'altro "coniugare le eterogeneità gestionali e funzionali che spesso portano conflitti progettuali". La stazione si colloca dunque in una "condizione ibrida" che gli consente di assolvere al ruolo di stazione con 300.000 transiti stimati al giorno e nello stesso tempo fungere da piazza all'interno di una realtà urbana consolidata.

L'opera è stata concepita fin dall'inizio in interazione con tutte le discipline e i settori che regolano la progettazione. Si è pensato ad un apporto bioclimatico per risolvere il problema della coibentazione del ponte; all'ideazione del concept del flying object per evitare la trasmissione delle vibrazioni; all'elaborazione di acute soluzioni strutturali per poter utilizzare il solaio preesistente le cui fondazioni, in seguito alla realizzazione delle pareti perimetrali, non avrebbe resistito a torsione; infine un'ingegnosa reinterpretazione della normativa della sopraintendenza che imponeva un vincolo dell'altezza. 

Nonostante questo nel corso delle ultime fasi di progettazione e di cantierizzazione sono comunque emerse delle problematiche. Ad esempio l'inclinazione di 16° ad ovest della facciata sud è stata risolta realizzando 9 diverse tipologie di vetro che differiscono per serigrafia, colore e riflettanza mentre il problema dello "spostamento" della facciata est, dovuto alla dilatazione termica del solaio, ha permesso un'ulteriore ventilazione estiva dell'ambiente.

Le varianti che entrano in gioco durante l'intero processo che va dalla progettazione alla realizzazione sono dunque innumerevoli, ma risolvibili attraverso il connubio di forma e tecnologia. Insomma, come detto dall'arch, Desideri "L'architettura è come l'opera pirandelliana: recita a soggetto".