palazzo massimo alle terme

Considerazioni sulle ultime lezioni di Estimo: il Vecchio e il Nuovo

Trovo intrigante l’analogia tra composizione metafisica in pittura  e compresenza di antico e moderno in  composizione architettonica. La suggestione metafisica che deriva dall’accostamento di passato e presente in architettura può essere un’esperienza edificante, piacevole e addirittura esaltante ma  anche grottesca, nociva e deprimente.

Riflettendo sui progetti di restauro analizzati durante le lezioni del corso del Prof. Passeri e non solo, ritengo che gli interventi che hanno generato risultati del secondo tipo siano purtroppo numerosi.

In alcuni casi la negatività di questi restauri è giustificata dal periodo in cui questi vennero effettuati, come il restauro del palazzo di Cnosso realizzato nei primi del ‘900, anni in cui il cemento armato veniva considerato un materiale ottimo proprio per la sua versatilità, venne quindi abbondantemente utilizzato nelle strutture storiche; ingiustificabili sono invece interventi che manifestano una non volontà di tramandare ai posteri le caratteristiche formali di una determinata architettura ma anzi addirittura di negarle come nel caso del Foro Italico ed in particolare della Casa delle Armi di Moretti.

Tuttavia se troppo spesso il nuovo non è stato all’altezza del vecchio mancandone di rispetto e deturpandolo , vorrei ricordare interventi che a mio parere sono stati benefici, quelli che partendo da una solida preparazione filologica si sono relazionati all’edificio storico in modo colto e generoso.

Considerando i casi analizzati a lezione non posso non elogiare il lavoro effettuato sulla palazzina di Libera ad Ostia che ha restituito l’ aspetto originario a questo importante esempio di architettura razionalista italiana. L’intervento non ha ricevuto sovvenzioni dallo stato in quanto l’edificio non è sottoposto a vincoli se non quello paesaggistico, i progettisti hanno quindi cercato di mantenere al minimo le spese,  ricadenti  esclusivamente sui tre proprietari, questa operazione di restauro ha richiesto quindi una continua abilità nel scegliere il giusto compromesso tra interessi privati e proposito culturale.

Palazzo Massimo alle Terme, sede di una parte del Museo Nazionale Romano, è un altro interessante caso che ha posto i restauratori (Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia) di fronte alla necessità di far conciliare tra loro epoche distanti: l’antichità greco-romana delle opere esposte, l’ involucro ottocentesco e le operazioni effettuate nel passato intervento di restauro risalente agli anni ottanta diretto da Costantino Dardi.

Visitando il museo ho percepito la volontà dei progettisti di rispettare e valorizzare gli ambienti ottocenteschi, subordinandoli però al loro attuale compito di museo, ogni intervento manifesta questa generosità nei confronti delle opere esposte, questa volontà di guidare l’attenzione del visitatore verso l’esposizione: trovo quindi che Celia e Cacciapaglia siano intervenuti  progettando il “presente” in funzione del “passato”, ed è  in questo la piacevolezza delle loro scelte architettoniche, e il buon esito del progetto.

Trovo saggia e corretta anche la loro volontà di mantenere le installazioni per l’illuminazione risalenti al progetto di Dardi, nonostante il loro carattere, a mio avviso, un po’ egocentrico sia distante dalla filosofia del nuovo allestimento.

Altri due architetti , citati durante il corso, abili nel coniugare antico e moderno, sono Peter Zumthor che ha realizzato il Kolumba Museum di Colonia e Rafael Moneo il quale ha progettato il Museo del Teatro Romano di Cartagena.

Non ho mai personalmente visitato le loro opere ma guardando alcune fotografie trovate in rete, mi sembra che in questi ambienti il nuovo diventi custode dell’antico, diventi un mezzo che rende piacevole e agevole la fruizione del passato ai visitatori.

Concludo quindi elogiando il matrimonio tra passato e presente in architettura, nel caso del restauro però ritengo che, affinché lo stupore metafisico generato da questo accostamento sia quanto più edificante, il presente debba restare al servizio del passato, debba dialogare con il passato evitando il pericolo di sopraffarlo ed in questo suo delicato compito di servitore trovare la propria essenza formale e materica. 

Riflessioni sulle ultime lezioni

Durante gli ultimi anni di studio, e in particolare durante le lezioni del modulo di Estimo, mi sono trovata a riflettere spesso sul significato della parola “restauro”. Dal momento che ho scelto di assecondare le mie attitudini personali, scegliendo di studiare Architettura e Restauro, questo equivale a porsi una domanda quasi di tipo esistenziale. Che cos'è il “restauro”?

 

Esistono diverse definizioni della parola e quasi tutte si riferiscono ad una serie di azioni volte alla manutenzione, al recupero, al ripristino e alla conservazione delle opere storiche, come suggerisce del resto, anche l'etimologia stessa della parola: dal latino: “re” e “staurare” = rendere solido nuovamente.

 

Ma le cose non sono così semplici. Esistono vari dibattiti sviluppatisi intorno alla materia, derivanti soprattutto dal fatto che restaurare non è mai un'operazione oggettiva. Esattamente come per la progettazione del nuovo, il restauratore esprime la sua personalità e la sua sensibilità professionale immersa inevitabilmente nell' humus culturale, sociale, politico in cui si trova a vivere.

Risulta chiaro quindi che non può esserci un'oggettività della materia sospesa nel tempo che si traduca in una definizione letterale univoca e chiara.

 

Non trovando risposta nelle definizioni della parola, ho ascoltato con interesse le varie lezioni sul tema nel corso degli anni di studio, in particolare quelle del modulo di Estimo.

 

A partire dalla visita al Palazzo Massimo alle Terme fino alle parole del Bonelli, è emerso un concetto fondamentale che appare quasi scontato se riferito al progetto dell' architettura del nuovo, ma che quasi mai si ascolta o si legge quando si parla di restauro: il concetto di fruibilità.

 

Il motivo che ci porta a desiderare il restauro delle opere è di certo l'interesse che queste abbiano la possibilità di continuare a vivere nel tempo, e ancor di più, che vivano affinché l'umanità abbia la possibilità di conoscerle e di farle proprie. E' importante capire che la cultura non deve restare fine a se stessa. affinchè possa portare a termine la sua missione intrinseca: quella di comunicare la bellezza dell'esistenza a tutti, in maniera indiscriminata.

 

Per questo motivo, quando ho ascoltato le parole dell'architetto Bonelli, tratte dal libro "Architettura e Restauro", questo concetto che da un po' cercava di emergere tra le mie idee, si è fatto evidente in maniera lampante.

Non c'è dubbio che per Bonelli, l'opera di restauro sia prima un' azione culturale e poi un'azione fisica:  le opere infatti, devono occupare la giusta posizione all'interno di un contesto culturale che sia in grado di giovare alle generazioni future. Che siano fruibili, quindi, comprese e vissute, prima a livello emotivo e poi a livello sensoriale.

 

Se pensiamo ad esempio, al riallestimento di Palazzo Massimo alle Terme, questo concetto appare immediatamente più chiaro. Si pensi all'utilizzo magistrale del colore, attraverso il quale è stato possibile esaltare le opere scultoree inserite negli spazi espositivi e allo stesso tempo conferire una guida che accompagnasse lo spettatore per mano lungo il percorso da seguire.

Il coraggioso intervento, ha portato anche delle critiche agli architetti incaricati di realizzare l'opera, dovute probabilmente all'atteggiamento di timore reverenziale verso l'antico che si ha spesso in questa nazione. Ma, dal confronto con le sale ancora non riallestite, l'intervento esce sicuramente vincitore, sia per la chiarezza del percorso, sia per l'interesse suscitato nello spettatore sia per la riuscita messa in luce delle opere esposte attraverso i contrasti cromatici. Rendere fruibile un'opera significa anche renderla immediatamente accessibile, cosa che a mio avviso accade felicemente in questo edificio.

 

C'è un altra questione da considerare quando si parla di restauro architettonico: quella del falso storico.

Pensando al Teatro di Ostia Antica, da molti definito come "pesantemente restaurato", possiamo dire di trovarci di fronte ad un falso storico oppure possiamo apprezzare la restituzione di un edificio nelle sue proporzioni spaziali, nei suoi materiali, nelle funzioni che doveva assumere ai tempi dell'antica Roma?

Se pensiamo alle parole del Bonelli, è assolutamente giusto che un'opera sopravviva allo scorrere del tempo per portare giovamento alle generazioni future, eppure il dubbio resta quando osserviamo i lavori di restauro del Partenone.

C'è bisogno di risarcire ogni singola lacuna dell'apparecchio murario affinchè si abbia una percezione che renda giustizia all'opera più famosa dell'acropoli di Atene?

 

La domanda nasconde il travaglio interiore di ogni progettista che si trovi ad affrontare un'opera di restauro: limitarsi a conservare oppure compiere un atto creativo che modifichi la forma dell'oggetto in base alle nuove concezioni culturali del tempo presente?

 

La questione ancora non trova risposta.

 

 

PRIME IMPRESSIONI SULLA FATTIBILITA': I casi del Palazzo Massimo alle Terme e della palazzina di Libera ad Ostia

Il palazzo Massimo alle Terme fu progettato e costruito nel 1883, dall’architetto Camillo Pistrucci, nell’area dove sorgeva la cinquecentesca villa Montalto Peretti. Commissionato dal padre gesuita Massimiliano Massimo, il palazzo svolse la funzione di collegio d’istruzione fino agli anni 60 del XX secolo, per poi essere acquistato dallo Stato italiano e restaurato affinché potesse ospitare parte del patrimonio archeologico di Roma.

 

In seguito al restauro firmato dall’architetto Costantino Dardi negli anni 80, di cui sono visibili ancora le belle “macchine illuminanti”, cubi dalla struttura metallica bianca e pannelli riflettenti che illuminano le opere attraverso la luce riflessa, gli architetti Cacciapaglia e Celia sono stati chiamati a dare vita ad un progetto di allestimento atto a valorizzare le importanti opere mostrate all'interno delle sale.

La caratteristica fondamentale di questo recentissimo intervento, è la caratterizzazione cromatica degli ambienti in base al colore e alle peculiarità delle opere stesse in essi contenute: un espediente economico e assolutamente efficace a dimostrare che spesso è nella semplicità ragionata il successo degli interventi più riusciti. Infatti, entrando nella sala più grande, una volta ospitante il piccolo teatro del collegio, non si può non restare colpiti dalla bellezza delle candide statue romane di marmo, che risaltano sui toni grigi delle pareti, del pavimento e del controsoffitto. Il colore è usato con sapienza anche per accompagnare lo spettatore nella fruizione dello spazio espositivo. Sono da segnalare a tal proposito i due riquadri di un grigio più scuro, rispetto al fondo delle pareti di un grigio chiaro, posti alle due estremità dell’asse longitudinale della sala: questi permettono di individuare immediatamente i due capolavori principali, nonché la direzionalità dell’ambiente lungo la quale il visitatore deve muoversi. Dello stesso grigio scuro sono anche il pavimento e il controsoffitto. Quest’ultimo è stato concepito come una macchina teatrale, predisposta per essere in grado di abbassarsi e di alzarsi in base alle esigenze espositive dello spazio, richiamando la funzione che lo spazio ha avuto in passato. Tuttavia a causa della scarsa disponibilità di fondi, l’aspetto dinamico del controsoffitto nello spazio è lasciato esclusivamente al suo scomporsi in più pannelli sfalsati tra loro: ancora una volta emerge la brillantezza delle scelte architettoniche capaci di far fronte a difficoltà oggettive, come quelle di tipo economico. Il colore ha la sua importanza anche nella rievocazione del mare nei tendaggi della sala della nave di Nemi, e soprattutto nella valorizzazione del sarcofago di Portonaccio, la cui base in travertino, sulla quale si trova esposto, è stata rivestita con pannelli grigi per permettere al color del marmo di risaltare pienamente.

La differenza tra il nuovo progetto di allestimento e quello degli anni 80, si fa evidente entrando nella sala immediatamente successiva non ancora restaurata, in cui i sarcofagi esposti sono ancora su basi di travertino, immersi in un ambiente dalle cromie estremamente chiare, che non permettono l’immediata godibilità delle opere all’occhio anche dello spettatore meno erudito.

Considerando che la cultura è un bene che appartiene alla collettività e che non esaudisce la sua missione quando resta fine a se stessa, la fruibilità degli spazi e un’esposizione accattivante sono aspetti che andrebbero sempre ben considerati in un progetto di allestimento e di restauro filologico.

A questo proposito, sono apprezzabili le feritoie nei muri tra un ambiente e l’altro, che permettono di sbirciare all'interno della sala conseguente, accompagnando con una certa enfasi la curiosità della scoperta delle opere successive. Così come pure l’allestimento della Casa di Livia. Anche in questo caso, l’esatta riproposizione della disposizione degli ambienti originali, e la creazione di una volta illuminata e realizzata con materiali economici, tubi al neon coperti da pannelli di pvc, invitano lo spettatore ad avere una percezione immediata degli spazi di una domus romana propriamente detta.

In generale, questo intervento testimonia che la parola “restauro” porta con sé il concetto secondo cui le opere devono essere proposte e valorizzate in funzione e a misura dello spettatore che vi si trova dinanzi, affinché possano essere comprese e apprezzate come meritano, anche da coloro che sono lontani dal tempo in cui sono state create.

Si può affermare quindi che, in questo caso, il coraggio delle scelte compiute dagli architetti, insieme al costo ragionevole dell'opera, conducono ad un esito particolarmente felice dell'intervento, nella speranza che si possano trovare nuove fonti economiche, pubbliche o private, per far sì che tutto il museo possa trovare un più felice riassetto e la conseguente valorizzazione.

 

Che l'opera di restauro sia necessaria ai fini di una degna valorizzazione dell'opera architettonica nel tempo, è evidente nel caso della Palazzina di Libera ad Ostia.

Si tratta di un edificio esemplare nell'ambito dell'architettura razionalista italiana. Tuttavia pur essendo un capolavoro ed entrando di diritto tra le fila del patrimonio culturale di tutti, non è sottoposta ad alcun vincolo da parte dei Beni Culturali, se non quello paesaggistico della zona. Per questo motivo l'onere dell'opera di restauro, riservata agli spazi comuni e alla facciata, è ricaduto sugli inquilini che la abitano. Ridurre il più possibile i costi dell'opera, quindi, è stato uno tra i principali obiettivi dell'architetto Roberta Rinaldi.

Nonostante i problemi riscontrati in cantiere, che hanno prolungato nel tempo i lavori, l'esito dell'intervento è sicuramente positivo secondo molteplici punti di vista. Uno su tutti, l'incremento del valore al mq delle abitazioni, da 1500 euro/mq a 5000 euro/mq, a testimoniare che un corretto intervento di restauro ha un potenziale di valenza culturale, che si esprime nella godibilità dell'opera architettonica e che si riflette felicemente anche sul piano economico.

 

 

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi di Palazzo Massimo alle Terme e della palazzina di Libera ad Ostia

 

Nei due casi che ci proponiamo di analizzare, il Palazzo Massimo alle Terme e la palazzina di Libera ad Ostia, si evidenziano le differenze nell'affrontare un progetto di restauro.

 

Il primo caso riguarda il Palazzo Massimo alle Terme: si tratta di un edificio costruito tra il 1883 e il 1887 nell'area dove sorgeva la cinquecentesca Villa Montalto-Peretti. Il Palazzo divenne sede di un collegio dei Gesuiti fino al 1960 e fu successivamente acquistato dallo Stato Italiano nel 1961; in seguito ad un intervento di restauro e consolidamento ad opera dell'architetto Costantino Dardi, finalizzato ad adeguare il Palazzo a spazio espositivo, ospita dal 1992 una parte del Museo nazionale Romano.

 

Il progetto di allestimento delle sale interne è stata curato dagli architetti Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia, i quali si sono dovuti confrontare con i caratteri di un edificio ottocentesco e la necessità di non stravolgere l'impianto architettonico interno, nonostante si è dovuto eseguire un cambio di destinazione.

Particolare attenzione è stata posta nella sala dell'ex teatro della scuola, con l'intenzione di conservare i caratteri preesistenti, ovvero i ballatoi, la galleria e il proscenio; dai 9 metri precedenti si è ridotta l'altezza dell'ambiente, utilizzando un sistema di pannelli sospesi, disposti su quote sfalsate in modo da creare uno spazio espositivo più raccolto e per una miglior lettura delle opere. Questo particolare accorgimento era stato pensato inizialmente come una “macchina scenica”, che con l’abbassarsi e l’alzarsi dei pannelli aveva la funzione di rievocare proprio un teatro, che però a causa della mancanza di fondi non verrà realizzato secondo questo artificio.

 

Altro aspetto interessante è quello delle scelte cromatiche: nei restauri precedenti le pareti erano di color bianco e le basi delle statue in pietra. In un secondo momento si sono rivestite le basi di un color grigio scuro e per le pareti è stato adottato un grigio più chiaro proprio per far risaltare il marmo chiaro delle statue, e sono stati utilizzati dei grigi più scuri sul fondo ai fini di creare degli assi visivi sulle opere di maggior importanza.

Anche per quanto riguarda l'illuminazione sono stati usati particolari accorgimenti. Nella sezione dedicata alla scultura, l'utilizzo del led inserito all'interno dei pannelli sospesi è risultato ottimale, in primo luogo perché crea una luce uniforme evitando l'abbagliamento e consente quindi di apprezzare al meglio le sculture marmoree, in secondo luogo perché riduce i consumi energetici e i costi di manutenzione.

Nella sezione dedicata agli affreschi di epoca augustea ritrovati nella Villa Farnesina viene adottato un sistema di illuminazione ottenuta con l'uso di tubi al neon, ottima riuscita a mio parere in quanto creando una luce diffusa e senza ombre consente di esaltare gli affreschi e di apprezzare al meglio il colore.

 

A mio avviso le soluzioni illuminotecniche sono state studiate per ogni opera in modo da valorizzarla e apprezzare la materia e i dettagli della scultura, pensate per rispondere anche alle esigenze di flessibilità d'uso.

Alcuni accorgimenti vengono studiati in modo tale da sorprendere l’osservatore, come nel caso ad esempio del Sarcofago di Portonaccio: qui i progettisti inducono il visitatore a scoprire l'opera progressivamente, prima osservandolo attraverso una piccola fessura sulla parete e poi entrando nella sala nella quale è esposto, così da apprezzarlo maggiormente.

Trovo che i risultati ottenuti riescano ad esaltare maggiormente rispetto ai restauri precedenti le sculture antiche e a comunicare agli osservatori i contenuti che queste ci trasmettono, ma per mancanza di finanziamenti non si sono potuti completare i restauri in tutte le sale; si nota quindi una netta differenza tra l'allestimento precedente e quello attuale e ciò provoca disorientamento nell'osservatore, come ho potuto infatti constatare di persona.

Per ciò che concerne l'adozione delle misure di sicurezza, a mio giudizio meno riuscito è stato l'inserimento delle scale di emergenza sul retro dell'edificio, in quanto si inseriscono in maniera inadeguata e “danneggiano” l'estetica della facciata.

 

Il secondo caso riguarda il restauro della palazzina di Adalberto Libera ad Ostia ad opera dell'architetto Roberta Rinaldi.

La Palazzina, realizzata nel 1933, simbolo dell’architettura razionalista italiana, dopo circa sessant’anni appariva in uno stato di forte degrado, dovuto alla mancata manutenzione, alla noncuranza dei condomini, al deterioramento di alcuni elementi, causato anche dagli agenti atmosferici, e agli errori condotti dai precedenti restauri.

Era necessario perciò un intervento di restauro, il cui obiettivo è stato quello di riconferire alla palazzina il suo aspetto originario.

I lavori di restauro, che hanno riguardato gli spazi comuni (atrio di ingresso e corpi scala, giardino, facciate e balconi), sono stati sin da subito problematici; trattandosi di un edificio non sottoposto ad alcun vincolo, ad eccezione di quello paesaggistico, non potevano quindi essere sovvenzionati dallo stato, ma dovevano essere sostenuti dagli stessi inquilini; perciò si è cercato di ridurre al minimo le spese (circa 200.000 euro).

Prima dell’intervento, la palazzina mostrava evidenti segni di degrado, come ad esempio la facciata, nella quale l’intonaco precedente era stato ricoperto con il quarzo plastico che, non lasciando traspirare le murature, aveva provocato il distacco di alcune parti di intonaco; inoltre le ringhiere in ferro dei balconi si erano ossidate a causa della salsedine.

Durante i lavori si sono incontrate una serie di problematiche con l'impresa e con le maestranze; per esempio le ringhiere sono state realizzate due volte, in quanto le prime, realizzate in ferro pre-zincato, dopo solo due mesi si erano già arrugginite.

Nonostante le problematiche economiche incontrate, trattandosi di un'opera sovvenzionata esclusivamente da privati, il risultato conseguito è positivo, in quanto il valore iniziale della palazzina da 1500 euro/mq è passato a 5000 euro/mq. Questo dimostra quindi che le spese di realizzazione sono state inferiori al valore finale dell'immobile che si è triplicato; ciò ha quindi contribuito a valorizzare un edificio di valore storico e culturale che si stava deteriorando in maniera quasi irreparabile.

PRIME IMPRESSIONI SULLA FATTIBILITA': I casi del Palazzo Massimo alle Terme e della palazzina di Libera ad Ostia

Primeimpressioni sulla fattibilità

Il palazzo Massimoalle Terme

Le prime impressioni che il restauro (o nuovo allestimento)da è che non si vuole aggiungere niente architettonicamente, ma attraverso l’architetturasi prova dare più valore alle opere esposte. In modo figurativo e letterale siè provato di mettere tutto sotto una luce migliore. In questo senso il progettosecondo me ha raggiunto i suoi obbiettivi.  Il museo è abbastanza particolare, quello chepiù mi ha colpito è che le opere di maggiore importanza (es. maschera d’avorioe il sarcofago di portonaccio) stanno in una sala molto piccola, chestranamente le rende più importanza che al centro di una sala grande. Insomma,le opere vengono esposte nello spazio e le condizioni più adatte alle loroesigenze.
E’ difficile dire qualcosa sulla fattibilità del progetto soltanto dai costi(ca. €500.000) per 600m2. Ovviamente si può dire che è fattibile vedendo ilprogetto adesso quasi completato. Sarebbe molto interessante studiare le stimefatte in tutte le fasi del progetto fino alla realizzazione con alla fine ilconto finale (dopo tutti lavori imprevisti ecc.) insieme alle scadenze inizialie la data del collaudo. In più sarebbe interessante capire i costi di ognispazio separato (visto che sono molto diverse tra di loro), per capire l’impattodi certe scelte architettoniche sul budget e la qualità architettonica ottenuta.In questo caso i conti sembrano quadrare abbastanza bene (dentro il budget)anche se è leggermente oltre la data di scadenza (19 dicembre 2011 ?). Allafine un progetto veramente è un successo non solo quando si realizza (quasi)come si è pensato, ma anche quando è dentro il budget e dentro la scadenzaprevista.
 

La Palazzina di Libera ad Ostia

L’intervento sulla palazzina di Libera è molto singolareperché si tratta di un edificio che non veniva considerata di grande valorearchitettonica fino a qualche anno fa. Un’ idea che sta cambiando soprattutto dovutoal lavoro della DOCOMOMO che prova dare valore agli edifici del MovimentoModerno che spesso si trovano in condizioni molto degradate. Mentre è chiaroche l’edificio non poteva essere lasciata alla demolizione, il progetto direstauro è molto ambizioso con grande attenzione per il dettaglio. Mi vienequindi il dubbio sulla fattibilità e posso capire bene che un proprietarioesita ad investire in un progetto del genere. I valori dati nella presentazioneanche non mi convincono molto è sembrano appartenere al solito gioco dei numeriche il venditore fa per vendere ad un prezzo più alto.
Sarebbe quindi utile capire qual è il fattore del l’aumento dei prezzi daquando l’edificio è stata costruita (e costava ca. €300.000 => ma questo èpoi il valore stimato, il valore di assicurazione o il costo di costruzione??)quando si fa il confronto col prezzo attuale dopo i restauri (ca €900.000).Ovviamente è impossibile che il valore a mq aumenta da €1500 a €5000 dopo l’interventodi facciata. Soltanto giocando un po’ con i numeri (valore assicurazione controvalore stimato troppo alto non realistico, mq lordi contro mq netti, ecc.,ecc.)Un analisi approfondito dei veri costi e benefici sarebbe in questo caso moltointeressante da studiare.

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi del palazzo Massimo alle Terme e della palazzina di Libera ad Ostia

Facendo riferimento ai due casi analizzati, il palazzo Massimo alle Terme e la palazzina di Libera ad Ostia, emergono delle differenze sostanziali: il primo caso riguarda un intervento mirato alla proposizione di uno spazio interno adatto ad una destinazione d’uso diversa rispetto a quella originaria di collegio, il secondo invece ha puntato sull’aspetto esterno dell’edificio.

Nel palazzo Massimo è importante tenere presente lo scopo dell’intervento: l’esposizione della collezione del Museo Nazionale Romano. Questo ha comportato, nell’ideare il progetto, una scelta di fondamentale importanza: trattandosi di un edificio storico, quale aspetto dare agli ambienti interni? Cosa favorire, l’architettura o le collezioni d’arte? Visitando il museo è chiaro che i progettisti, Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia, hanno preferito mettere in risalto le qualità artistiche della collezione piuttosto che le caratteristiche dell’edificio che, in seguito all’intervento, non sono più percepibili. Probabilmente anche nel teatro del palazzo, un visitatore non informato, non potrebbe riconoscere l’originaria funzione della sala, nonostante l’architetto abbia espresso la volontà di lasciarne le tracce. Gli elementi architettonici infatti (ballatoi, galleria e proscenio) non sono immediatamente leggibili ad un occhio non abituato alla lettura dello spazio, che si fa catturare invece, anche grazie all’intervento eseguito, dalle sculture custodite nella sala. Lo scopo dell’intervento è dunque raggiunto a pieno perché lo spettatore, invece di “distrarsi” guardando l’architettura, concentra tutta la propria attenzione sull’apparato scultoreo e pittorico, il vero obiettivo della sua visita, mentre l’allestimento, ispirato al “cielo stellato” resta un gradevole ambiente in cui immergersi senza soffermarsi troppo ad osservarlo. Gli scorci prospettici creati attraverso i pannelli delle sale offrono dei punti di vista interessanti, ma solo i più curiosi si soffermeranno a guardarvi attraverso, e fra questi, quello verso il sarcofago, che traguarda addirittura due sale mi è sembrato un po’ forzato.

Al piano superiore invece, l’intervento si è svolto secondo un’ottica diversa data la diversa natura delle opere esposte. Trattandosi infatti di affreschi provenienti dalla villa Farnesina, per renderne più agevole la comprensione si sono riprodotti gli ambienti originari. Le strutture tuttavia non sono predominanti, ma sono nascoste dalla luminosità stessa delle sale. La resa volumetrica è molto efficace, peccato che nella sala che riproduce il giardino la volta a botte che chiudeva l’ambiente non sia stata riproposta, quando invece l’imposta è chiaramente visibile.

Infine è importante sottolineare anche come, data la scarsità di risorse economiche, si sia agito riutilizzando elementi preesistenti come ad esempio le basi in travertino su cui poggiavano le sculture che sono state semplicemente coperte con dei pannelli, i tendaggi o le teche in vetro.

L’intervento condotto alla palazzina di Libera ha invece riguardato gli esterni e gli spazi comuni interni, ed essendo stato pagato quasi per intero dagli stessi condomini anche in questo caso è stato portato avanti prestando particolare attenzione a mantenere dei costi contenuti. Può essere che questo vincolo abbia portato a scegliere materiali non corrispondenti agli originari, tuttavia il risultato generale è buono. Inoltre bisogna tener presente che ogni appartamento, grazie all’intervento, ha più che triplicato il suo valore al mq passando dai 1500 euro/mq iniziali ai 5000 euro/mq dopo l'intervento. Si tratta di un esempio positivo dal punto di vista economico poiché il valore aggiunto delle proprietà supera di gran lunga il costo sostenuto per effettuare i lavori.  Speriamo che l’edificio non torni mai più nelle condizioni in cui si trovava prima dell’intervento ma questo sarà possibile solo se interverranno due fattori: la redazione di un piano di manutenzione ordinaria efficace, e la presa di coscienza da parte dei proprietari…magari ci abitassi io!!! Il problema è il riconoscimento del valore degli edifici moderni che non viene ancora sufficientemente riconosciuto dagli enti preposti e da molti studiosi.

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi di Palazzo Massimo alle Terme e della Palazzina di Libera ad Ostia

Situato nei pressi della Stazione Termini a Roma, Palazzo Massimo alle Terme è un edificio ottocentesco, costruito in stile rinascimentale, che nel corso dei secoli ha subito dei cambiamenti di destinazione d’uso: da scuola-convitto si è infatti trasformato in una delle nuove sedi del Museo Nazionale Romano che ospita una collezione d’ arte classica fra le più importanti in Italia e nel mondo. Inoltre, in questi ultimi anni, è stata avviata una revisione dell’allestimento, curata dagli architetti Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia, i quali si sono prefissi lo scopo di rendere  il più possibile fruibili e piacevoli sezioni museali altrimenti anonime; anche se il progetto non è stato ancora del tutto completato, ritengo che l’obiettivo dei progettisti sia stato pienamente raggiunto attraverso alcuni particolari accorgimenti architettonici. Innanzitutto, si è pensato di rimodellare gli spazi: nel vecchio teatro del convitto, ad esempio, l’altezza originale del soffitto era piuttosto consistente (circa 9,5 m) e, per evitare uno spazio espositivo troppo dispersivo, sono stati utilizzati dei pannelli sospesi che, collegati a tralicci in acciaio per mezzo di cavi anch’essi in acciaio, essendo disposti a quote leggermente sfalsate, non costituiscono una sorta di controsoffitto ma svolgono una duplice funzione di caratterizzare esteticamente gli ambienti senza alterare la leggibilità della struttura preesistente e di nascondere gli apparecchi illuminanti. A questo proposito, per quanto concerne le sezioni dedicate alla scultura, sono stati scelti degli apparecchi illuminanti al led che diffondono una luce bianca naturale e che, essendo sospesi in alto, rappresentano una sorta di “cielo stellato” e permettono di illuminare senza problemi di abbagliamento, in modo da poter apprezzare al meglio lo splendore del marmo  e la perfezione delle forme umane scolpite nella pietra. Ancora una considerazione sul colore: prima del nuovo allestimento le pareti delle sale erano tinteggiate con colori chiari, come il bianco ed il beige, e le statue poggiavano su basi in pietra; successivamente si è pensato di sostituire le basi delle statue con dei cubi grigio-scuro e di tinteggiare le pareti con diverse tonalità di grigio, sovrapponendovi, in alcune parti, pannelli di una sfumatura leggermente diversa, in maniera tale da sottolineare l’importanza di alcune sculture. In questa maniera il museo non è più uno spazio asettico, che può essere compreso solo dagli studiosi o dai grandi patiti di arte che vogliono ammirare le antiche sculture romane senza essere distratti dal contesto circostante, ma diventa un luogo fruibile da un gran numero di persone che, consapevoli o meno, si lasciano incantare dall’aura quasi magica dello spazio che li circonda e possono così apprezzare appieno il patrimonio artistico che hanno di fronte. Maggiormente didattico è, invece, l’allestimento delle sezioni che ospitano, sin dagli anni Novanta del XX secolo, gli affreschi di epoca augustea ritrovati nel parco della Villa Farnesina. Utilizzando le più moderne tecnologie nel campo della museografia e basandosi su studi di psicologia della percezione, i progettisti hanno scelto di definire una collocazione degli ambienti affrescati secondo una sequenza corrispondente a quella originaria; di annullare il più possibile il contesto, usando geometrie primarie e colori neutri, per lasciare protagonisti assoluti gli affreschi delle pareti; di illuminare le opere nella maniera migliore, evitando ogni riflesso o abbagliamento, con un sistema di illuminazione biodinamica. Il percorso di visita  inizia dalla lunga galleria del Criptoportico: si tratta di circa 25 m di parete, i cui affreschi, montati su pannelli per facilitarne il trasporto ed assicurarne la conservazione, rappresentano finte colonne, architravi e basamenti che incorniciano riquadri figurati; sulla parete opposta, gran parte delle vetrate che si affacciano sul terrazzo sono state tamponate per ridurre la quantità di luce solare e ricreare l'antica alternanza luce-ombra. Successivamente si accede ad una grande sala le cui pareti esterne sono di colore grigio-medio per segnalarne la neutralità e in cui sono collocati gli apparati figurativi di duecubicula e del triclinio, posti  in posizione analoga a quella della pianta originaria. Da notare la presenza di lacerti di pavimento in mosaico che non sono collocati come in origine sia per permettere un facile passaggio dei visitatori, sia perché non si conosce la loro esatta posizione. Di particolare pregio è poi una sala in cui sono esposti gli affreschi che rappresentano un giardino illusionistico riprodotto a grandezza naturale nei minimi particolari, con una grande varietà di specie vegetali e di uccelli. Non è certa la destinazione d’uso originaria di questa stanza, ma è probabile che si trattasse di un ambiente senza finestre, usato per difendersi dalla calura estiva, la cui illuminazione era forse consentita attraverso un lucernario posto sulla volta a botte con cui era sicuramente coperto il vano, dal momento che ne è stata ritrovata l’imposta. L’unico difetto che rimprovero all’allestimento,  dovuto peraltro all’insufficienza dello spazio e non alla mancanza di cultura dei progettisti, è il fatto di non aver ripristinato la copertura voltata di questo spazio, cosa che invece è stata fatta nel triclinio nonostante non fossero presenti tracce dell’imposta della volta stessa. Inoltre, l’idea di un sistema di illuminazione biodinamica ottenuta con l’uso di tubi al neon la cui temperatura di colore varia tra i 3000 e i 6000° K, permette di riprodurre, ogni 90 secondi, il ciclo del sole durante il giorno, in modo che i visitatori possano godere al meglio degli affreschi; tuttavia il risultato da un punto di vista prettamente estetico non è, a mio avviso, dei migliori. In definitiva, penso che gli architetti Celia e Cacciapaglia siano stati in grado di creare un perfetto connubio fra l’architettura dell’edificio, i materiali e le tecnologie moderne e il patrimonio artistico contenuto all’interno del museo, dando così vita all’idea espressa da Mario Ridolfi secondo cui “[…] opere architettoniche appartenenti a periodi diversi l’uno dall’altro […] possono coesistere armonizzandosi reciprocamente”.  Diverso è il caso del restauro della Palazzina B di Adalberto Libera ad Ostia, curato dall’architetto Roberta Rinaldi. L’edificio, realizzato negli anni Trenta del XX secolo, pur rappresentando un simbolo dell’architettura razionalista italiana, prima dell’intervento era caratterizzato da un forte degrado che riguardava: la facciata, tanto che l’intonaco, di un colore giallo-ocra assolutamente inappropriato, si distaccava perché realizzato con il quarzo plastico, un materiale estremamente dannoso per gli edifici perché non lascia traspirare i muri; i ferri dei balconi, che si erano ossidati a causa della salsedine e di altri agenti atmosferici; le ringhiere dei balconi, alcune delle quali erano state rimosse; il terrazzo, che presentava problemi di infiltrazione d’acqua e la cui fisionomia originale era stata sconvolta da un intervento abusivo; gli infissi, tra loro tutti diversi perché la palazzina è abitata da tre inquilini; il giardino incolto. Dal momento che l’edificio non è un bene culturale e quindi non è sottoposto ad alcun vincolo, fatta eccezione per quello paesaggistico, il restauro non è stato sovvenzionato da fondi pubblici, ma dagli stessi condomini, i quali, inizialmente, hanno posto qualche perplessità al riguardo. In effetti il costo dell’intervento è stato ridotto al minimo (circa 200.000,00 €) ma si è trattata comunque di una spesa ingente da parte dei tre inquilini. C’è però anche da dire che, dopo il restauro, che purtroppo ha riguardato solo gli spazi comuni (giardino, atrio di ingresso e corpo scala, involucro esterno, balconi) il valore degli appartamenti, ognuno dei quali avente una superficie di circa 140 mq, è triplicato da 1.500,00 €/mq nel 1999 a 5.000,00 €/mq ad oggi. L’intervento, avvenuto nel rispetto del progetto di Libera, ha avuto come obiettivo quello di riqualificare l’edificio, restituendogli una propria dignità ed identità e, a mio parere, tale traguardo è stato raggiunto più che discretamente, tenendo conto dei numerosi problemi avuti sul cantiere; ciò che colpisce maggiormente la mia attenzione è però una riflessione: se ai condomini non fosse stato proposto tale intervento, se non fossero stati convinti ad investire i loro risparmi in un’operazione del genere, quanto ancora si sarebbe aspettato prima che la palazzina crollasse del tutto? E questo è un problema che non riguarda solo l’edilizia residenziale di zone periferiche, ma anche quella di quartieri più centrali della città di Roma (basti pensare alle tante facciate dei palazzi sulla centralissima Via Cavour, sporche per lo smog o violentate dai vandali con le loro bombolette spray, o ai quartieri che sorgono a ridosso della Stazione Termini) o agli edifici pubblici di una certa importanza. A questo proposito, trovo emblematico il caso del Museo delle Navi Romane a Nemi, realizzato gratuitamente dall’architetto Vittorio Ballio Morpurgo ed inaugurato nel 1936; si tratta di una struttura unica nel suo genere, concepita come un’enorme scatola in cemento armato che, nonostante la sua bellezza nel panorama architettonico dei nostri giorni, appare come una sorta di rudere, uno scheletro pieno di infiltrazioni d’acqua, sporco, un malato terminale cui non si presta un minimo di cura e che invece, con un restauro colto, avrebbe ancora molto da raccontare.

 

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi del palazzo Massimo alle terme e della palazzina di Libera a Ostia.

I due casi che abbiamo analizzato di interventi di restauro o ripristino di edifici di valore storico, ci hanno posto di fronte alle diverse problematiche e tematiche che si devono affrontare quando si interviene nel costruito.

Per quanto riguarda il caso del palazzo Massimo alle Terme, l’intervento avviene su un edificio di fine ottocento, la cui primaria funzione era quella di collegio e che oggi, invece, è diventato la sede centrale del Museo Nazionale Romano.

La visita in loco, guidati dall’architetto Celia, ci ha fatto comprendere quali intenti e quali diffocoltà hanno caratterizzato l’attuazione del progetto di restauro. Molta attenzione è stata posta verso l’allestimento dei diversi ambienti che compongono il percorso di visita del museo. Si è cercato di creare degli spazi adatti a valorizzare gli oggetti antichi, senza alterare in maniera eccessiva gli ambienti che li ospitano, rispettando la loro storia e senza negare la loro vecchia funzione. Un caso esemplare è, per esempio, la sala dell’ex teatro dove, nonstante le scelte di trattamento delle superfici con colori diversi dagli orginali e l’inserimento di impianti di illuminazione applicati su pannelli sospesi dal soffitto che vanno a diminuire il volume dell’ambiente, si cerca di mantenere l’impianto originario che viene richiamato anche dai balconi correnti lasciati in vista.

Per quanto riguarda la riproposizione di affreschi o mosaici, si è cercato di ricreare gli ambienti per come erano originariamente in modo da rendere i pezzi antichi intellegibili, anche con il supporto di impianti di illuminazione posti in copertura che vanno a riprodurre la variazione della luce per come è percepita durante l’arco di una giornata.

L’attenzione primaria è posta sempre verso la valorizzazione dei pezzi antichi, ciò, però, non può ignorare delle necessità pratiche, di tipo economico, di sicurezza, ecc, che invitabilmente obbligano a scendere a dei compromessi. In questo caso i lavori sono stati in parte finanziati dalla Sovrintendenza, ed i committenti pur avendo presentato ogni tanto delle perplessità riguardo alcune scelte di progetto, si sono mostrati abbastanza aperti al dialogo ed attenti a scelte colte e studiate.

L’imminente inaugurazione della mostra temporanea “I regni immaginari” ospitata in un’ ala del museo, ci ha fatto comprendere “dal vivo” quanti problemi possano sorgere in fase di attuazione di un progetto.   

Per quanto riguarda, invece, la palazzina di Adalberto Libera ad Ostia,si passa ad un progetto che, a differenza del caso precedente, tratta interventi prevalentemente su spazi esterni, all’aperto. La palazzina che negli anni 30 del Novecento, si presentava come un gioiello del razionalismo italiano, dopo circa sessant’anni di vita era ridotta in stato di forte degrado e rischiava l’abbattimento per motivi di sicurezza poichè considerato un edificio pericolante.

In questo caso l’intervento è stato spinto dalla volontà di riportare questo edificio, se non alla bellezza originale, almeno ad uno status decoroso. Tramite il percorso dell’ante e post restauro proposto dall’architetto Rinaldi, abbiamo compreso come i lavori di restauro abbiano incontrato, sin da subito, diversi ostacoli.

Il badget disponibile per i lavori di restauro era molto limitato, così i vari imprevisti in corso d’opera, hanno comportato delle scelte sugli interventi da compiere più urgenti.

In una manutenzione ordinaria degli anni 70/80 circa, sulle superfici esterne dell’edificio è stato steso un intonaco di rivestimento contente quarzo plastico, questo ha compromesso fortemente le facciate che con il tempo hanno riportato importanti distacchi di parti di intonaco, dovuti alla poco traspirazione delle murature. La rimozione di questo strato di intonaco ha gravato molto sulle spese di cantiere. Tra le varie accortezze portate avanti negli ultimi lavori, c’è stata invece l’attenzione alla durabilità degli interventi e comunque alla previsione di una manutenzione poco frequente e onerosa.

Un problema da non sottovalutare, quando si lavora su edifici privati, è il rapporto con i proprietari. In questo caso, pur essendo soltanto tre condomini, è stato difficile far comprendere l’importanza di certe scelte di cantiere, soprattutto perchè le spese ricadevano principalmente su questi. Non sempre si collabora con persone con una sensibilità culturale che permetta di rendere comprensibile l’intento di un progetto di restauro filologico. Ed è anche vero che il valore degli appartamenti che, prima del restauro era di 1500 €/mq è diventato di 5000 €/mq, cifre che non si possono sottovalutare. L’edificio di Libera, sebbene sia considerato un elemento di valore storico ed artistico non è soggetto a vincoli di nessun tipo e non si è potuto usufruire di nessun tipo di finanziamento pubblico. E’ stata, infatti, necessaria la ricerca di uno sponsor, che però è riuscito a sostenere le spese in modo consistente.

Anche in questo caso, gli imprevisti in fase di attuazione non sono mancati, un esempio sono le ringhiere dei balconi che dopo essere state montate sono arrugginite in breve tempo. In questo caso, oltre all’imprevisto in se, il fatto di dover rifare da capo le ringhiere ha comportato delle spese non previste che hanno inciso sugli altri interventi previsti.

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi del Palazzo Massimo alle Terme e della Palazzina di Libera ad Ostia

 

Un progetto di allestimento museale in una struttura ottocentesca al centro di Roma ed un intervento di restauro su un edificio di architettura moderna ad Ostia: seppure questi due esempi possano sembrare molto distanti ci sono alcune caratteristiche comuni che si ritrovano nel metterli a confronto.

Palazzo Massimo è un edificio ottocentesco, nato come convitto e trasformato in museo dalla Soprintendenza nella metà degli ’80 del Novecento. La nuova funzione si è ben presto rivelata incongrua per il tipo di fabbricato in cui doveva essere inserita. L’edificio ha dovuto subire una serie di trasformazioni di adeguamento che hanno alterato l’architettura originaria e gli ambienti si sono rivelati di dimensioni esigue per essere usati come spazi espositivi.Il primo allestimento è stato curato dall’architetto friulano Costantino Dardi che ha organizzato il percorso museale, studiando un sistema di illuminazione con pannelli orientabili in reticoli tridimensionali.Il risultato, ancora visibile in alcune sale, non metteva però in risalto le opere che si confondevano tra le pareti bianche e le basi in marmo chiaro. L’intervento dell’architetto Carlo Celia, che insieme a Stefano Cacciapaglia si è occupato non solo del progetto ma anche della direzione dei lavori, si inserisce in questo contesto. La prima difficoltà incontrata è stata quella di dover operare in una struttura già fortemente caratterizzata ed organizzata. Si è proceduto quindi per compromessi ma senza rinunciare ad alcuni principi fondamentali, come il rispetto per le caratteristiche architettoniche degli ambienti: i nuovi elementi sono stati progettati in modo da lasciare la visibilità della funzione originaria senza che l’allestimento risultasse per questo di minore forza espressiva.  Lo studio del colore e delle superfici per ottenere visuali preferenziali, la cura dell’illuminazione, una più coerente disposizione delle opere sono alla base del nuovo allestimento. La mancanza di finanziamenti non ha permesso purtroppo di operare in tutto il museo: l’intervento è stato quindi limitato ad una sola parte del museo e si è ottenuta una differenziazione forzata tra sale nuove e vecchie che potrebbe lasciare perplesso il visitatore.

 

Il secondo restauro riguarda una palazzina di Libera degli anni ‘30 sul lungomare di Ostia, curato dall’architetto Roberta Rinaldi che, come Celia, ha ricoperto anche il ruolo di direttore dei lavori. L’edificio versava in uno stato di fortissimo degrado, a causa della mancata manutenzione e del disinteresse degli inquilini, ed aveva perso qualsiasi tipo di attrattiva, divenendo anzi un elemento peggiorativo per l’intera zona. Alcune scelte sbagliate nel restauro precedente avevano contribuito ad alterare ulteriormente l’aspetto del complesso, che si mostrava con un intonaco color ocra ed una recinzione inadeguata. Lo studio dei disegni di progetto e della documentazione fotografica ha consentito di compiere un restauro filologico che riportasse l’edificio quanto più possibile al suo stato originario. Anche in questo caso l’esiguità dei fondi ha costituito un impedimento ed ha comportato una limitazione delle scelte nell’esecuzione. Ad Ostia, ancor più che nell’esempio precedente, è stata fondamentale la partecipazione del progettista nella direzione dei lavori. Nel cantiere si sono trovate una serie di difficoltà sia nel rapporto con l’impresa che con le maestranze (come ad esempio il fabbro), che hanno reso necessario un intervento diretto dell’architetto per risolvere gli errori che erano stati commessi. Questa molteplicità di problematiche che si possono presentare in fase di esecuzione, se non controllate, rischiano di portare ad un’alterazione del progetto.

 

Nei due esempi l’esigenza di avere un controllo completo, anche durante la fase di cantiere, appare quindi evidente. La supervisione del progettista ha infatti permesso di ottenere un risultato di qualità nonostante in entrambi i casi si sia operato con una disposizione economica ridotta che ha limitato le scelte in fase di progetto e di esecuzione. L’architettura dei due fabbricati era stata alterata e snaturata (nel caso di Ostia in modo sicuramente più drastico e preoccupante) ed il merito del restauro è stato di ridonare il valore e la qualità che nel tempo si era perduta.

 

 

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi di palazzo Massimo alle Terme e della palazzina di Libera ad Ostia.

 

 

Il  restauro condotto dall’architetto Rinaldi presso una delle case di Libera ad Ostia mostra le numerose problematiche che possono insorgere anche in un intervento su un edificio moderno, che in questo caso era, ed è tuttora, soggetto a vincolo paesaggistico. Dal momento che l’abitazione non era tutelata, i lavori sono stati finanziati dai tre proprietari dell’edificio (i quali in un primo momento erano contrari al restauro) che hanno messo a disposizione un budget molto limitato di circa 200.000€. I lavori hanno riguardato solo l’esterno e gli ambienti comuni (come la scala); la presenza del vincolo paesaggistico imponeva di non modificare l’aspetto esterno della palazzina che però aveva già subito delle trasformazioni, non congrue con il progetto iniziale di Libera, che ne avevano alterato l’aspetto (una modifica tra le tante il color ocra-giallo dell’intonaco esterno che non rispecchiava l’immagine originale dell’edificio). Il doppio appalto ha comportato un aumento dei costi e quindi uno spreco di risorse che potevano essere sfruttate per migliorare alcuni interventi (come ad esempio la realizzazione delle pendenze sulla copertura dell’abitazione).

Nonostante i numerosi studi preliminari, sono però emersi diversi problemi durante la fase esecutiva.

Le ringhiere, attualmente in ferro zincato a caldo e verniciate a polvere, erano state realizzate in un primo momento con ferro prezincato che si era arrugginito dopo soli due mesi. E’ stato dunque necessario sostituirle determinando un aumento dei costi. 

La facciata, oltre ad avere (come detto in precedenza) un colore non congruo con il progetto di Libera, presentava un forte degrado dovuto agli interventi non corretti compiuti nella manutenzione straordinaria degli anni ’70-’80 durante la quale è stato utilizzato il quarzo plastico. Si è dunque dovuto spicconare la parete eliminando anche lo spesso strato di intonaco e ciò ha comportato l’utilizzo di impalcature che hanno inciso fortemente sui costi dell’intervento. E’ stato ripristinato l’intonaco bianco, il quale però al termine dei lavori ha mostrato delle cavillature, dovute probabilmente al diverso assorbimento dell’intonaco in alcune zone del prospetto. Il gruppo Keraton ha però fornito il materiale per rimediare al danno provocato.

Nell’intervenire si è pensato anche ad un piano di manutenzione. L’uso della linea Bio della Keraton per il rivestimento esterno consentirà di restaurare l’intonaco attraverso una ripittura e non una picchettatura, non richiedendo quindi l’utilizzo di impalcature, bensì di ponti mobili, che incidono in maniera minore sui costi.

Dai 1.500€/mq del 1999 (anno in cui un’ordinanza dei vigili del fuoco prevedeva di demolire l’edificio perché pericolante) si è passati, grazie ai lavori di restauro, ad un valore di 5.000€/mq favorendo in questo modo anche la riqualificazione dell’intera area.

Il vincolo economico ha fortemente condizionato anche il progetto di allestimento del Museo Nazionale Romano presso il Palazzo Massimo alle Terme, condotto dagli architetti Cacciapaglia e Celia. Il costo complessivo del progetto, finanziato in parte dalla Sovraintendenza, è stato di 500.000€ ed ha interessato 600 mq di sale espositive. Altro fattore immutabile dei lavori, oltre ai costi, era rappresentato dalla data di inaugurazione del museo, avvenuta il 19 dicembre del 2011. Il progetto, che si fonda sul recupero di elementi della tradizione e della storia (e dunque anche sui restauri di Costantino Dardi condotti alla fine degli anni ’80 del ‘900) ha puntato alla realizzazione di un “allestimento invisibile” che valorizzasse le opere d’arte. L’ incombenza della luce (o troppo piatta, o abbagliante), i supporti non adeguati per il materiale di cui erano costituite le statue, le proporzioni non armoniche delle sale, il colore bianco delle pareti  che non faceva emergere il marmo delle sculture, non permettevano una facile lettura degli oggetti esposti e non consentivano dunque di far ammirare i dettagli delle opere. Il progetto si è concentrato sullo studio dei percorsi, sulla giusta collocazione delle sculture e sulla realizzazione di sale che mettessero in risalto le opere d’arte, facendo attenzione all’uso dei colori (per pareti, soffitti, supporti), ma soprattutto all’illuminazione, studiata e pensata per ogni singola opera esposta. Sale espositive che quindi si “adattano ed adeguano” alle necessità delle opere, divenute le vere protagoniste dell’allestimento grazie all’intervento non solo di architetti, ma anche di storici dell’arte e archeologici, il cui confronto/scontro ha portato al pieno successo del progetto.

 

 

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