Prime impressioni sulla fattibilità: i casi di Palazzo Massimo alle Terme e della Palazzina di Libera ad Ostia

Situato nei pressi della Stazione Termini a Roma, Palazzo Massimo alle Terme è un edificio ottocentesco, costruito in stile rinascimentale, che nel corso dei secoli ha subito dei cambiamenti di destinazione d’uso: da scuola-convitto si è infatti trasformato in una delle nuove sedi del Museo Nazionale Romano che ospita una collezione d’ arte classica fra le più importanti in Italia e nel mondo. Inoltre, in questi ultimi anni, è stata avviata una revisione dell’allestimento, curata dagli architetti Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia, i quali si sono prefissi lo scopo di rendere  il più possibile fruibili e piacevoli sezioni museali altrimenti anonime; anche se il progetto non è stato ancora del tutto completato, ritengo che l’obiettivo dei progettisti sia stato pienamente raggiunto attraverso alcuni particolari accorgimenti architettonici. Innanzitutto, si è pensato di rimodellare gli spazi: nel vecchio teatro del convitto, ad esempio, l’altezza originale del soffitto era piuttosto consistente (circa 9,5 m) e, per evitare uno spazio espositivo troppo dispersivo, sono stati utilizzati dei pannelli sospesi che, collegati a tralicci in acciaio per mezzo di cavi anch’essi in acciaio, essendo disposti a quote leggermente sfalsate, non costituiscono una sorta di controsoffitto ma svolgono una duplice funzione di caratterizzare esteticamente gli ambienti senza alterare la leggibilità della struttura preesistente e di nascondere gli apparecchi illuminanti. A questo proposito, per quanto concerne le sezioni dedicate alla scultura, sono stati scelti degli apparecchi illuminanti al led che diffondono una luce bianca naturale e che, essendo sospesi in alto, rappresentano una sorta di “cielo stellato” e permettono di illuminare senza problemi di abbagliamento, in modo da poter apprezzare al meglio lo splendore del marmo  e la perfezione delle forme umane scolpite nella pietra. Ancora una considerazione sul colore: prima del nuovo allestimento le pareti delle sale erano tinteggiate con colori chiari, come il bianco ed il beige, e le statue poggiavano su basi in pietra; successivamente si è pensato di sostituire le basi delle statue con dei cubi grigio-scuro e di tinteggiare le pareti con diverse tonalità di grigio, sovrapponendovi, in alcune parti, pannelli di una sfumatura leggermente diversa, in maniera tale da sottolineare l’importanza di alcune sculture. In questa maniera il museo non è più uno spazio asettico, che può essere compreso solo dagli studiosi o dai grandi patiti di arte che vogliono ammirare le antiche sculture romane senza essere distratti dal contesto circostante, ma diventa un luogo fruibile da un gran numero di persone che, consapevoli o meno, si lasciano incantare dall’aura quasi magica dello spazio che li circonda e possono così apprezzare appieno il patrimonio artistico che hanno di fronte. Maggiormente didattico è, invece, l’allestimento delle sezioni che ospitano, sin dagli anni Novanta del XX secolo, gli affreschi di epoca augustea ritrovati nel parco della Villa Farnesina. Utilizzando le più moderne tecnologie nel campo della museografia e basandosi su studi di psicologia della percezione, i progettisti hanno scelto di definire una collocazione degli ambienti affrescati secondo una sequenza corrispondente a quella originaria; di annullare il più possibile il contesto, usando geometrie primarie e colori neutri, per lasciare protagonisti assoluti gli affreschi delle pareti; di illuminare le opere nella maniera migliore, evitando ogni riflesso o abbagliamento, con un sistema di illuminazione biodinamica. Il percorso di visita  inizia dalla lunga galleria del Criptoportico: si tratta di circa 25 m di parete, i cui affreschi, montati su pannelli per facilitarne il trasporto ed assicurarne la conservazione, rappresentano finte colonne, architravi e basamenti che incorniciano riquadri figurati; sulla parete opposta, gran parte delle vetrate che si affacciano sul terrazzo sono state tamponate per ridurre la quantità di luce solare e ricreare l'antica alternanza luce-ombra. Successivamente si accede ad una grande sala le cui pareti esterne sono di colore grigio-medio per segnalarne la neutralità e in cui sono collocati gli apparati figurativi di duecubicula e del triclinio, posti  in posizione analoga a quella della pianta originaria. Da notare la presenza di lacerti di pavimento in mosaico che non sono collocati come in origine sia per permettere un facile passaggio dei visitatori, sia perché non si conosce la loro esatta posizione. Di particolare pregio è poi una sala in cui sono esposti gli affreschi che rappresentano un giardino illusionistico riprodotto a grandezza naturale nei minimi particolari, con una grande varietà di specie vegetali e di uccelli. Non è certa la destinazione d’uso originaria di questa stanza, ma è probabile che si trattasse di un ambiente senza finestre, usato per difendersi dalla calura estiva, la cui illuminazione era forse consentita attraverso un lucernario posto sulla volta a botte con cui era sicuramente coperto il vano, dal momento che ne è stata ritrovata l’imposta. L’unico difetto che rimprovero all’allestimento,  dovuto peraltro all’insufficienza dello spazio e non alla mancanza di cultura dei progettisti, è il fatto di non aver ripristinato la copertura voltata di questo spazio, cosa che invece è stata fatta nel triclinio nonostante non fossero presenti tracce dell’imposta della volta stessa. Inoltre, l’idea di un sistema di illuminazione biodinamica ottenuta con l’uso di tubi al neon la cui temperatura di colore varia tra i 3000 e i 6000° K, permette di riprodurre, ogni 90 secondi, il ciclo del sole durante il giorno, in modo che i visitatori possano godere al meglio degli affreschi; tuttavia il risultato da un punto di vista prettamente estetico non è, a mio avviso, dei migliori. In definitiva, penso che gli architetti Celia e Cacciapaglia siano stati in grado di creare un perfetto connubio fra l’architettura dell’edificio, i materiali e le tecnologie moderne e il patrimonio artistico contenuto all’interno del museo, dando così vita all’idea espressa da Mario Ridolfi secondo cui “[…] opere architettoniche appartenenti a periodi diversi l’uno dall’altro […] possono coesistere armonizzandosi reciprocamente”.  Diverso è il caso del restauro della Palazzina B di Adalberto Libera ad Ostia, curato dall’architetto Roberta Rinaldi. L’edificio, realizzato negli anni Trenta del XX secolo, pur rappresentando un simbolo dell’architettura razionalista italiana, prima dell’intervento era caratterizzato da un forte degrado che riguardava: la facciata, tanto che l’intonaco, di un colore giallo-ocra assolutamente inappropriato, si distaccava perché realizzato con il quarzo plastico, un materiale estremamente dannoso per gli edifici perché non lascia traspirare i muri; i ferri dei balconi, che si erano ossidati a causa della salsedine e di altri agenti atmosferici; le ringhiere dei balconi, alcune delle quali erano state rimosse; il terrazzo, che presentava problemi di infiltrazione d’acqua e la cui fisionomia originale era stata sconvolta da un intervento abusivo; gli infissi, tra loro tutti diversi perché la palazzina è abitata da tre inquilini; il giardino incolto. Dal momento che l’edificio non è un bene culturale e quindi non è sottoposto ad alcun vincolo, fatta eccezione per quello paesaggistico, il restauro non è stato sovvenzionato da fondi pubblici, ma dagli stessi condomini, i quali, inizialmente, hanno posto qualche perplessità al riguardo. In effetti il costo dell’intervento è stato ridotto al minimo (circa 200.000,00 €) ma si è trattata comunque di una spesa ingente da parte dei tre inquilini. C’è però anche da dire che, dopo il restauro, che purtroppo ha riguardato solo gli spazi comuni (giardino, atrio di ingresso e corpo scala, involucro esterno, balconi) il valore degli appartamenti, ognuno dei quali avente una superficie di circa 140 mq, è triplicato da 1.500,00 €/mq nel 1999 a 5.000,00 €/mq ad oggi. L’intervento, avvenuto nel rispetto del progetto di Libera, ha avuto come obiettivo quello di riqualificare l’edificio, restituendogli una propria dignità ed identità e, a mio parere, tale traguardo è stato raggiunto più che discretamente, tenendo conto dei numerosi problemi avuti sul cantiere; ciò che colpisce maggiormente la mia attenzione è però una riflessione: se ai condomini non fosse stato proposto tale intervento, se non fossero stati convinti ad investire i loro risparmi in un’operazione del genere, quanto ancora si sarebbe aspettato prima che la palazzina crollasse del tutto? E questo è un problema che non riguarda solo l’edilizia residenziale di zone periferiche, ma anche quella di quartieri più centrali della città di Roma (basti pensare alle tante facciate dei palazzi sulla centralissima Via Cavour, sporche per lo smog o violentate dai vandali con le loro bombolette spray, o ai quartieri che sorgono a ridosso della Stazione Termini) o agli edifici pubblici di una certa importanza. A questo proposito, trovo emblematico il caso del Museo delle Navi Romane a Nemi, realizzato gratuitamente dall’architetto Vittorio Ballio Morpurgo ed inaugurato nel 1936; si tratta di una struttura unica nel suo genere, concepita come un’enorme scatola in cemento armato che, nonostante la sua bellezza nel panorama architettonico dei nostri giorni, appare come una sorta di rudere, uno scheletro pieno di infiltrazioni d’acqua, sporco, un malato terminale cui non si presta un minimo di cura e che invece, con un restauro colto, avrebbe ancora molto da raccontare.