Prime impressioni sulla fattibilità: i casi del Palazzo Massimo alle Terme e della Palazzina di Libera ad Ostia

 

Un progetto di allestimento museale in una struttura ottocentesca al centro di Roma ed un intervento di restauro su un edificio di architettura moderna ad Ostia: seppure questi due esempi possano sembrare molto distanti ci sono alcune caratteristiche comuni che si ritrovano nel metterli a confronto.

Palazzo Massimo è un edificio ottocentesco, nato come convitto e trasformato in museo dalla Soprintendenza nella metà degli ’80 del Novecento. La nuova funzione si è ben presto rivelata incongrua per il tipo di fabbricato in cui doveva essere inserita. L’edificio ha dovuto subire una serie di trasformazioni di adeguamento che hanno alterato l’architettura originaria e gli ambienti si sono rivelati di dimensioni esigue per essere usati come spazi espositivi.Il primo allestimento è stato curato dall’architetto friulano Costantino Dardi che ha organizzato il percorso museale, studiando un sistema di illuminazione con pannelli orientabili in reticoli tridimensionali.Il risultato, ancora visibile in alcune sale, non metteva però in risalto le opere che si confondevano tra le pareti bianche e le basi in marmo chiaro. L’intervento dell’architetto Carlo Celia, che insieme a Stefano Cacciapaglia si è occupato non solo del progetto ma anche della direzione dei lavori, si inserisce in questo contesto. La prima difficoltà incontrata è stata quella di dover operare in una struttura già fortemente caratterizzata ed organizzata. Si è proceduto quindi per compromessi ma senza rinunciare ad alcuni principi fondamentali, come il rispetto per le caratteristiche architettoniche degli ambienti: i nuovi elementi sono stati progettati in modo da lasciare la visibilità della funzione originaria senza che l’allestimento risultasse per questo di minore forza espressiva.  Lo studio del colore e delle superfici per ottenere visuali preferenziali, la cura dell’illuminazione, una più coerente disposizione delle opere sono alla base del nuovo allestimento. La mancanza di finanziamenti non ha permesso purtroppo di operare in tutto il museo: l’intervento è stato quindi limitato ad una sola parte del museo e si è ottenuta una differenziazione forzata tra sale nuove e vecchie che potrebbe lasciare perplesso il visitatore.

 

Il secondo restauro riguarda una palazzina di Libera degli anni ‘30 sul lungomare di Ostia, curato dall’architetto Roberta Rinaldi che, come Celia, ha ricoperto anche il ruolo di direttore dei lavori. L’edificio versava in uno stato di fortissimo degrado, a causa della mancata manutenzione e del disinteresse degli inquilini, ed aveva perso qualsiasi tipo di attrattiva, divenendo anzi un elemento peggiorativo per l’intera zona. Alcune scelte sbagliate nel restauro precedente avevano contribuito ad alterare ulteriormente l’aspetto del complesso, che si mostrava con un intonaco color ocra ed una recinzione inadeguata. Lo studio dei disegni di progetto e della documentazione fotografica ha consentito di compiere un restauro filologico che riportasse l’edificio quanto più possibile al suo stato originario. Anche in questo caso l’esiguità dei fondi ha costituito un impedimento ed ha comportato una limitazione delle scelte nell’esecuzione. Ad Ostia, ancor più che nell’esempio precedente, è stata fondamentale la partecipazione del progettista nella direzione dei lavori. Nel cantiere si sono trovate una serie di difficoltà sia nel rapporto con l’impresa che con le maestranze (come ad esempio il fabbro), che hanno reso necessario un intervento diretto dell’architetto per risolvere gli errori che erano stati commessi. Questa molteplicità di problematiche che si possono presentare in fase di esecuzione, se non controllate, rischiano di portare ad un’alterazione del progetto.

 

Nei due esempi l’esigenza di avere un controllo completo, anche durante la fase di cantiere, appare quindi evidente. La supervisione del progettista ha infatti permesso di ottenere un risultato di qualità nonostante in entrambi i casi si sia operato con una disposizione economica ridotta che ha limitato le scelte in fase di progetto e di esecuzione. L’architettura dei due fabbricati era stata alterata e snaturata (nel caso di Ostia in modo sicuramente più drastico e preoccupante) ed il merito del restauro è stato di ridonare il valore e la qualità che nel tempo si era perduta.