blog di barbara_paroli

Considerazioni sulla visita alla Villa Capo di Bove ed al cantiere del Teatro Argentina

 

VILLA CAPO DI BOVE, Appia Antica

L’esempio della Villa di Capo di Bove è un perfetta testimonianza del susseguirsi di vicende che ha riguardato molte delle proprietà che affacciano sull’asse storico dell’Appia Antica. A differenza di altre, la villa è stata interessata da un’ultima fase di ‘riscatto’, grazie all’acquisizione da parte dello Stato che l’ha resa un bene pubblico fruibile.

La via Appia, iniziata dal console Appio Claudio nel IV secolo a.C., era uno dei maggiori assi di ingresso a Roma da sud e principale via di comunicazione verso l’Oriente: il diretto collegamento con il porto di Brindisi garantiva infatti l’apertura verso la Grecia ed il Mediterraneo. Il tratto della via consolare più vicino a Roma era caratterizzato dall’alternanza di vaste tenute agricole o residenziali e numerosi monumenti funerari, che per legge dovevano essere edificati oltre il limite sacro del Pomerio. La tenuta di Capo di Bove, così chiamata nel Medioevo in rimando ai bucrani del fregio del Mausoleo di Cecilia Metella, a partire dal II secolo d.C. rientrò nel Triopo di Erode Attico, un vasto latifondo di cui faceva parte anche un pagus, ossia un villaggio. Un casale era già presente all’inizio del ‘300, quando il cardinale Caetani acquistò il terreno con il rispettivo edificio. L’area, che nel corso dei secoli ha conosciuto numerosi passaggi di proprietà e conseguenti trasformazioni, ha avuto destinazione agricola fino alla metà del ‘900.

Negli anni ’50 del Novecento la proprietà venne acquistata da una famiglia di grossisti ortofrutticoli, i Romagnoli, che trasformarono il casale ad uso residenziale. Iniziò così una nuova fase per la tenuta, che rientrò nelle logiche di occupazione dei suoli tipiche di quegli anni, capeggiate da una committenza con elevata disponibilità economica. Un abusivismo che può essere definito consolidato, o addirittura illuminato, se contrapposto a quello speculativo; ma pur sempre abusivismo. L’immenso sviluppo dell’industria cinematografica, soprattutto a Roma, intensificò questo fenomeno. La via Appia vide una proliferazione di ville costruite da imprenditori e attori, desiderosi di avere la loro residenza privata in questa parte di città immersa nel verde. E fu così che nel ’62 un produttore cinematografico, Sauro Streccioni, comprò la villa di Capo di Bove: il progetto di recupero, probabilmente compiuto da un esponente della scuola di Busiri Vici, rientrava in quello stile antiquario a quei tempi così in voga nelle case dell’Appia.

Negli anni ’80 iniziò una nuova trasformazione della zona. Ai precedenti proprietari subentrarono i ‘nuovi ricchi’, che acquistarono le ville non più per amore del luogo ma per avere evidenza sociale. Con lo stesso spirito, alcuni anni più tardi, Streccioni tentò di vendere la sua residenza ad un nuovo acquirente, dichiarando un prezzo evidentemente troppo basso per essere un accordo esercitato nei termini della legalità. Un funzionario statale, venuto a conoscenza del prezzo stranamente esiguo, esercitò il diritto di prelazione sul bene vincolato, rendendo pubblica la villa e bloccando la frode in corso.

Dal 2002 sono iniziati i lavori tesi a valorizzare l’edificio e l’intera area da parte di un team della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, con a capo Rita Paris: un’operazione che è riuscita a trovare un equilibrio efficace tra la parte archeologica, naturalistica e di recupero architettonico.

A pochi metri dall’ingresso è stato parzialmente riportato alla luce un complesso termale, in origine più vasto, che si pensa sia stato costruito nel II secolo d.C. seguendo l’impianto di due precedenti edifici sepolcrali. Data la vicinanza con Roma, le terme non avevano funzione pubblica ma erano forse destinate ad una corporazione che frequentava la zona e, probabilmente, a coloro che si occupavano della gestione del territorio del Triopio di Erode Attico e degli edifici di culto in esso compresi. L’approvvigionamento idrico dell’impianto termale avveniva grazie a due cisterne, una delle quali è stata utilizzata per costruire il casale in epoca medievale.

Il giardino è stato ridisegnato da Massimo De Vico, che ha sostituito la simmetria che caratterizzava l’assetto precedente con un tracciato curvilineo, più adatto al gusto eclettico e pittoresco del luogo.

L’intervento sul casale è stato curato da Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia. I due architetti hanno cercato di mantenere quanto più possibile l’impianto della villa, operando gli adeguamenti necessari per rendere a norma l’edificio. All’esterno è stata rispettata l’apparecchiatura muraria: un caprice architettonico, in cui i resti in selce dell’antica cisterna sono stati reintegrati dalla muratura degli anni ’60, che rivisitava in termini moderni il concetto medievale dello ‘spolia’, unendo reperti antichi ad elementi costruttivi nuovi. L’interno è stato volutamente intonacato, previa documentazione dell’apparecchiatura romana ritrovata, per favorire al visitatore una corretta lettura dell’insieme.

L’edificio ospita dal 2008, oltre agli edifici della Soprintendenza, l’archivio di Antonio Cederna. Il noto archeologo e giornalista ha lottato durante la sua vita in difesa dei patrimoni artistici e paesaggistici, dedicando particolare attenzione alla tutela dell’Appia Antica e al progetto del Parco regionale. La scelta di collocare il suo archivio in un edificio rappresentativo di quei principi contro cui ha duramente combattuto in vita può sembrare a prima vista poco adeguata. Letta in una luce diversa, l’intera vicenda è però l’emblema della vittoria schiacciante dell’opera di risanamento morale da lui intrapresa contro una mentalità volta alla commercializzazione della storia e dei beni culturali: il riscatto di quei valori trova piena concretizzazione nel Parco dell’Appia e nella villa Capo di Bove, che da proprietà privata simbolo dell’abusivismo anni ’60 è diventata un contenitore di cultura illuminata.

 

TEATRO ARGENTINA, Restauro della facciata

Il Teatro Argentina è stato sottoposto nel tempo a molteplici trasformazioni: inaugurato nel 1732, rimase per quasi un secolo privo di facciata, costruita solo nel 1826 ad opera di P. Holl. Nel 1887 il teatro divenne comunale e l’anno successivo, grazie all’intervento di G. Ersoch, assunse l’aspetto attuale. Inizialmente il prospetto dell’edificio si caratterizzava per un’ampia pensilina, ormai demolita. I due ultimi interventi di restauro sono stati effettuati nel 1970 e nel 1993. In entrambi i casi sono state apportate modifiche incongrue alle quali si sta cercando di porre rimedio nei lavori in corso di esecuzione. 

Negli anni Settanta sono state effettuate operazioni di  adeguamento sismico, rimuovendo le capriate lignee per sostituirle con una struttura in cemento armato, ritenuta più resistente. Sul gruppo scultoreo di facciata si applicò una colletta cementizia, di spessore variabile dai 4 mm ai 5 cm, che modificò completamente il modellato originario. Negli anni Novanta la facciata era stata tinteggiata con coloriture a base di resina vinilica, che si è presto rivelata di scarsa durabilità. Il restauro attuale, curato dall’architetto Carlo Celia, si basa su uno studio filologico più attento ed è volto a ridonare alla facciata un aspetto corretto, dal punto di vista storico e materiale. Per questo motivo si è scelto di utilizzare intonaci a tinta di calce, in sostituzione dei precedenti sintetici. Si è quindi deciso di descialbare la superficie, per eliminare la coloritura del ’93 che non avrebbe favorito l’aderenza della nuova tinteggiatura. Descialbare una coloritura, come sostenuto dall’architetto, non è in generale un’operazione rispettosa della storia dell’edificio, in quanto cancella la stratificazione degli strati nel tempo. In questo caso però un tale intervento era necessario per non compromettere la buona riuscita del restauro. Sono ora in corso le prove di colore sia per i fondi color cortina che per le parti in finto bugnato, che verranno trattate con un tono travertino. Per quanto riguarda il gruppo scultoreo si sta intervenendo eliminando la colletta cementizia; nelle zone in cui l’asportazione potrebbe compromettere l’opera, è stato lasciato in opera il materiale a base di cemento e si sono attuate delle semplici integrazioni. La superficie in grassello e polvere di marmo sarà poi rifinita con una coloritura, che verrà decisa in relazione alle altre in un piano unitario di colore. L’applicazione del cemento è stata deleteria su più fronti: ha causato la formazione di sali all’interno dello stucco e fatto arrugginire le barre metalliche ottocentesche, di supporto al modellato.  Il ferro è stato quindi passivato, quando possibile, e negli altri casi rimosso e sostituito. Altri interventi riguardano gli infissi in legno del primo piano, gli unici ad essere rimasti originali. Gli elementi sono stati accuratamente liberati da uno smalto colorato, erroneamente applicato in passato, e rifiniti con una cera trasparente.

La conclusione dei lavori, iniziati a dicembre, è prevista a fine luglio.

Vista la particolare collocazione in pieno centro storico, grande importanza è stata posta al rispetto del contesto. Le scelte dell’ingegner Vicari, responsabile della sicurezza, sono state fondamentali. Uno dei primi problemi da affrontare è stata l’organizzazione dei ponteggi.  Si è scelto di rendere il cantiere accessibile solo dalla terrazza del teatro, garantendo per sicurezza una via di fuga dal basso. Altra difficoltà riguardava il deposito dei molti materiali e di una piccola betoniera, necessaria per ottenere l’intonaco con tinta a calce. E’ stata costruita una piccola terrazza per depositare la betoniera ed un cavedio di lavoro per trasportare volta per volta il materiale preparato.

Il restauro, supervisionato dalla Soprintendenza statale e comunale, è finanziato attraverso la pubblicità da un committente privato, Mecenarte. L’azienda, che coincide con l’impresa esecutrice dei lavori, si è proposta di sostenere completamente i costi, ricavando i proventi dalle inserzioni pubblicitarie poste sui teli a copertura dei ponteggi. Eventuali aumenti di costo, come quelli già causati dagli interventi relativi al gruppo statuario non prevedibili da una perizia da terra, saranno coperti dalla ditta, in virtù dell’impegno contrattuale. Questa scelta, che nel caso del Colosseo è stata ampiamente criticata, consentirà di eseguire i lavori in questo periodo di difficoltà economica del paese.

 

Saggi di buone pratiche di architettura: il rigore di Franco Albini

 

‘Fantasia di precisioni’ e ‘razionalismo artistico’. Le due locuzionidi Ponti e Persico sono una buona presentazione per l’architettura di Franco Albini, architetto iscritto tra i padri del razionalismo italiano a partire dagli anni ‘50. Molto spesso la lettura del suo operato si è però soffermata solo sugli aspetti prettamente tecnici e funzionali,  lasciando in secondo piano la poetica raffinata che lo caratterizza. La ricerca funzionale, la cura quasi ossessiva dei dettagli, la sperimentazione dei materiali sono quindi tratti distintivi del suo lavoro, ma rappresentano il veicolo per arrivare ad un risultato di estrema eleganza.

Le opere di Albini sono caratterizzate da un continuo affinamento, una ricerca quasi spasmodica della precisione. Tutto è progettato e controllato: non esistono professionalità separate nel suo lavoro. Per questo possiamo trovare una totale fusione tra ciò che è architettura, grafica e design. L’oggetto di design diventa parte integrante dell’edificio, con un passaggio continuo di scala, dal piccolo al grande, dal grande al piccolo. L’opera paziente di un ‘artigiano’, come lui stesso amava definirsi.

Se ci soffermiamo su ciò che ci riguarda più da vicino, ossia l’intervento sull’esistente, possiamo notare come l’atteggiamento di Albini sia quello di dare una nuova lettura dello spazio in cui si inserisce, ma sempre nel rispetto dell’esistente. Si sperimentano i nuovi materiali e le tecniche espositive per raggiungere una nuova concezione dell’esperienza museale, rendendola dinamica ed educativa: gli elementi espositivi sono ridotti al minimo, si accostano alla preesistenza senza sovrastarla. Gli allestimenti realizzati nella città di Genova tra gli anni ’50 e gli anni ’60 sono esplicativi di questo atteggiamento. L’integrazione tra nuovo ed antico, non solo dal punto di vista materiale ma anche funzionale, li rende opere d’arte totali.  

L’allestimento di Palazzo Bianco è un esempio di questa ricerca.  Un edificio cinquecentesco, ricostruito nel Settecento e trasformato in museo a fine Ottocento; gravemente colpito dai bombardamenti della secondo guerra mondiale, viene ricostruito nel suo aspetto settecentesco. In questa occasione Albini viene chiamato dalla direttrice dell’Ufficio Belle Arti per studiare un allestimento capace di dare un nuovo ordinamento al museo. L’architetto realizza un allestimento di assoluta purezza, esaltato dalla geometria degli antichi pavimenti in marmo chiaro ed ardesia, conservati in quasi tutte le sale. Le opere pittoriche sono agganciate a guide metalliche verticali o a nuove pareti staccate da quelle del palazzo. Le attrezzature realizzate con nuovi materiali non disturbano la preesistenza ma anzi la valorizzano, consentendone una lettura parallela. Emblematica degli intenti di Albini è la soluzione adottata per il gruppo scultoreo di Giovanni Pisano, disposto su un piedistallo in acciaio che può essere mosso e ruotato: il visitatore può quindi scegliere personalmente come confrontarsi con l’opera.

Poco più tardi, tra il 1952 e il 1956, Albini realizza il Museo del Tesoro di San Lorenzo, che costituisce un unicum nel percorso dell’architetto. In questo caso i nuovi materiali lasciano il passo a quelli tradizionali, come la pietra di Promontorio tipica della Genova medievale, per creare uno spazio sacrale. Negli anni ’50 si matura l’idea di trovare una sistemazione museale per il ‘tesoro’ della Cattedrale di Genova, che raccoglieva pezzi datati già al XII secolo. Negli ambienti appositamente creati nell’area della Cattedrale, Albini realizza uno spazio ipogeo fortemente suggestivo, caratterizzato da una luce zenitale di gusto barocco. Lo schema planimetrico prevede tre camere circolari di differente diametro collegate da uno spazio esagonale. La rigorosa geometria è esplicitata dal disegno della pavimentazione e dai travetti della copertura, lasciati a vista. L’allestimento costituisce ancora una volta un momento di sperimentazione del materiale: vetrine essenziali, con sottilissimi profili e basi di metallo, sono modellate attorno ai pezzi da esporre.

La ricerca di un rapporto tra modernità e tradizione è visibile in ognuno di questi lavori. Una tradizione reinterpretata, rinnovata ed arricchita dalla presenza del moderno. L’edificio della Rinascente a Roma, realizzato nel 1957, per finire, ben si inserisce in questa indagine. Come affermato da P. Portoghesi, la ‘calda corporeità’ di questo edificio fa rivivere un’area di Roma in tutta la sua storicità richiamando sia i palazzi rinascimentali che le vicine mura aureliane. Tutto questo attraverso il connubio della forza strutturale della maglia in ferro con la ricchezza materica dei pannelli in graniglia di granito e marmo rosso

Albini non ha lasciato molti scritti e descrizioni delle ragioni teoriche sottostanti i suoi progetti. Un personaggio ‘silenzioso e fedele’, come lo descrive la sua collaboratrice Franca Helg, perfettamente conscio però del valore dimostrativo della sua architettura: ‘E’ più dalle nostre opere che diffondiamo delle idee che non attraverso noi stessi’.

 

Considerazioni sulle ultime lezioni: Permanenza storica e recupero

 

permanére v. intr. Rimanere durevolmente in una determinata condizione, senza variazioni o modificazioni.

permanènzas. f.  Continuità nel tempo

permanènte agg. Di cosa o situazione che si protrae nel tempo, spesso associata all’idea di stabile disponibilità o funzionalità oltre che alla pura e semplice dimensione della ‘durata’.

recuperare v. tr. Tornare in possesso di una cosa che era già propria o, in genere, che si era perduta.

G.Devoto, G. C. Oli, Dizionario della lingua italiana; Vocabolario Treccani: www.treccani.it

 

Permanenza storica e recupero. Alcuni esempi che mostrano diversi atteggiamenti possono aiutare a riflettere su questi temi.

Il progetto del Museo del Teatro Romano di Cartagena di R. Moneo ha riguardato la musealizzazione dei resti di un antico teatro romano, scoperto alla fine degli anni ’80, e dei reperti rinvenuti durante le campagne di scavo.

 “Per 1500 anni la città si era ‘dimenticata’ di questo teatro romano. Nel 1988, durante una campagna di scavi archeologici, si ritrovarono i resti dell’antico edificio pubblico: alla fine degli anni ’90 il teatro era quasi completamente liberato dalle costruzioni che nei secoli gli si erano sovrapposte. Delle successive stratificazioni si è conservata solo una parte della chiesa antica di Cartagena, duramente bombardata durante la guerra civile del 1939.” (dal sito http://fabiopravettoni.blogspot.it/2008/10/rafael-moneo-il-museo-archeologico-di.html )

L’intervento è stato quindi il recupero di un edificio antico,di un pezzo di storia perduto della città spagnola, di quella Carthago Nova fondata dai cartaginesi e poi diventata colonia romana.

Viene ora da chiedersi: che cosa è stata pronta a pagare, ovviamente non solo in termini economici, la città di Cartagena? Sicuramente nella decisione di riportare alla luce l’antico teatro è stato operato un atto critico, secondo il quale si è ritenuto più importante mostrare ciò che era in passato quel pezzo di città, musealizzandolo, piuttosto che lasciare inalterato lo sviluppo successivo, quell’architettura minore forse meno interessante ed attraente. Probabilmente una scoperta di tale portata può anche arrivare a giustificare una scelta di questo tipo, considerando anche il ritorno non solo economico ma anche culturale che essa può comportare.

Quello di Moneo è stato un intervento a scala urbana che ha messo in comunicazione parti diverse della città, inserendosi in modo esemplare nella sua orografia: il percorso museale infatti è concepito come una promenade che dal mare conduce sulla collina, dove si possono ammirare i resti romani

Il restauro del teatro aveva un fine didattico e culturale, volto alla comprensione del complesso da parte del visitatore. E’ stato necessario a questo scopo reintegrare alcune parti, senza però alterare l’aspetto d’insieme, scegliendo la strada della differenziazione eseguita con materiali compatibili per cromia e composizione.

L’inserimento delle rovine in un complesso monumentale dai tratti nuovi ma garbati fa comprendere come si possa conciliare l’antico con il contemporaneo, senza svalutare l’uno o l’altro ma al contrario dando nuova forza ad entrambi. Un atteggiamento attento come quello di R. Moneo, che in varie occasioni si è trovato ad operare su edifici del passato, è probabilmente la chiave per rispondere alla domanda di integrazione tra antico e contemporaneo, tra passato e presente. Ed in questo caso l’architetto l’ha fatto quasi in silenzio, senza disturbare, con un progetto perfettamente integrato nel contesto.

Atteggiamento diverso invece è quello seguito da P. Zumthor nel Kolumba Museum di Colonia.

Il museo sorge nel centro della città, in un luogo caratterizzato da una ricca stratificazione, con la quale era necessario confrontarsi. Il sito ospitava in origine una chiesa gotica che, distrutta durante il secondo conflitto mondiale, fu successivamente inglobata in una cappella; indagini archeologiche compiute negli anni ‘70 hanno anche messo in luce resti di precedenti edifici romani e medievali.

La continuità tra passato e presente è ciò che caratterizza il progetto di Zumthor: le architetture del passato sono inglobate nel nuovo edificio, rileggendo in chiave contemporanea quell’uso in continuità che è stato tipico dei secoli passati (basti pensare alla funzione residenziale assunta dal Teatro di Marcello o ai molteplici usi che si sono attribuiti nel tempo al Colosseo). La nuova costruzione si aggiunge all’antica, proseguendo i muri tardo gotici e seguendo il tracciato della chiesa originaria: non sono accentuate le cesure, si ricerca invece la maggiore integrazione possibile, arrivando a progettare un mattone ad hoc che si possa adattare al meglio ai resti medievali.

Il lavoro di Zumthor è attento e rispettoso, “teso a ritrovare il tempo della storia” senza però rimanere chiuso in rigide teorizzazioni che rischiano di immobilizzare la pratica.

 

I due casi finora visti dimostrano quindi che si può intervenire in modo positivo sull’antico senza rinnegarlo, al contrario si può garantire con il nuovo intervento la permanenza storica, una continuità non solo materica ma anche di memoria. Non è però solo verso l’antico che bisogna perseguire la ricerca di questa continuità. Interventi di manutenzione e recupero coscienzioso possono, o meglio, devono essere compiuti anche sull’architettura più recente, che rischia altrimenti di essere alterata in modo irrimediabile.

E’ questa infatti la situazione in cui riversava la Palazzina di Libera vista la scorsa volta e del più drammatico esempio della Casa delle Armi di Moretti, costruita tra il 1933 e il 1936 nell’area meridionale del Foro Mussolini. Un’opera raffinata, caratterizzata da una struttura ardita e da un utilizzo sapiente dei materiali. Nel corso degli anni purtroppo gli usi a cui è stato adibito questo edificio hanno sempre di più negato la sua natura. Negli anni ‘80 diventò un tribunale politico e caserma dei Carabinieri: modifiche irrimediabili furono compiute all’interno per adeguare, o forse costringere, la struttura alle nuove funzioni. Altri interventi esterni danneggiarono il rivestimento marmoreo che un tempo conferiva quella monoliticità classica al complesso. L’inserimento di una rampa esterna per raggiungere l’aula bunker sotterranea stravolse anche l’intorno, prima caratterizzato da una forte orizzontalità.

La Casa delle Armi così come concepita da Moretti non esiste più. E’ un rudere moderno, stravolto nella sua natura: la permanenza storica, la continuità di significato, del valore artistico e culturale sono ormai scomparse a causa di riusi fuori controllo. Dalle immagini successive alla costruzione si vede un edificio completamente diverso, per non parlare dell’intorno in cui è inserito.  Tutta la zona del Foro ha subito cambiamenti di funzione, a volte più compatibili, atre sicuramente meno. La Casa delle Armi è però tra i casi più eclatanti di deturpazione.

Qual è l’atteggiamento da assumere? C’è chi propone con preoccupazione la demolizione, cercando al tempo stesso di smuovere gli animi. Numerosi sono stati gli appelli di architetti e non per un intervento, per il recupero di questa architettura che ormai sta morendo.  

Di sicuro ciò che emerge da questa situazione è la necessità di adoperarsi, non solo per il patrimonio artistico antico ma anche per quello più recente, prima che troppo tardi; iniziando a chiedersi anche in questa situazione cosa siamo disposti a pagare, a sacrificare. Per quanto riguarda l’edificio della Casa delle Armi ciò che stiamo perdendo è parte della nostra storia.

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi del Palazzo Massimo alle Terme e della Palazzina di Libera ad Ostia

 

Un progetto di allestimento museale in una struttura ottocentesca al centro di Roma ed un intervento di restauro su un edificio di architettura moderna ad Ostia: seppure questi due esempi possano sembrare molto distanti ci sono alcune caratteristiche comuni che si ritrovano nel metterli a confronto.

Palazzo Massimo è un edificio ottocentesco, nato come convitto e trasformato in museo dalla Soprintendenza nella metà degli ’80 del Novecento. La nuova funzione si è ben presto rivelata incongrua per il tipo di fabbricato in cui doveva essere inserita. L’edificio ha dovuto subire una serie di trasformazioni di adeguamento che hanno alterato l’architettura originaria e gli ambienti si sono rivelati di dimensioni esigue per essere usati come spazi espositivi.Il primo allestimento è stato curato dall’architetto friulano Costantino Dardi che ha organizzato il percorso museale, studiando un sistema di illuminazione con pannelli orientabili in reticoli tridimensionali.Il risultato, ancora visibile in alcune sale, non metteva però in risalto le opere che si confondevano tra le pareti bianche e le basi in marmo chiaro. L’intervento dell’architetto Carlo Celia, che insieme a Stefano Cacciapaglia si è occupato non solo del progetto ma anche della direzione dei lavori, si inserisce in questo contesto. La prima difficoltà incontrata è stata quella di dover operare in una struttura già fortemente caratterizzata ed organizzata. Si è proceduto quindi per compromessi ma senza rinunciare ad alcuni principi fondamentali, come il rispetto per le caratteristiche architettoniche degli ambienti: i nuovi elementi sono stati progettati in modo da lasciare la visibilità della funzione originaria senza che l’allestimento risultasse per questo di minore forza espressiva.  Lo studio del colore e delle superfici per ottenere visuali preferenziali, la cura dell’illuminazione, una più coerente disposizione delle opere sono alla base del nuovo allestimento. La mancanza di finanziamenti non ha permesso purtroppo di operare in tutto il museo: l’intervento è stato quindi limitato ad una sola parte del museo e si è ottenuta una differenziazione forzata tra sale nuove e vecchie che potrebbe lasciare perplesso il visitatore.

 

Il secondo restauro riguarda una palazzina di Libera degli anni ‘30 sul lungomare di Ostia, curato dall’architetto Roberta Rinaldi che, come Celia, ha ricoperto anche il ruolo di direttore dei lavori. L’edificio versava in uno stato di fortissimo degrado, a causa della mancata manutenzione e del disinteresse degli inquilini, ed aveva perso qualsiasi tipo di attrattiva, divenendo anzi un elemento peggiorativo per l’intera zona. Alcune scelte sbagliate nel restauro precedente avevano contribuito ad alterare ulteriormente l’aspetto del complesso, che si mostrava con un intonaco color ocra ed una recinzione inadeguata. Lo studio dei disegni di progetto e della documentazione fotografica ha consentito di compiere un restauro filologico che riportasse l’edificio quanto più possibile al suo stato originario. Anche in questo caso l’esiguità dei fondi ha costituito un impedimento ed ha comportato una limitazione delle scelte nell’esecuzione. Ad Ostia, ancor più che nell’esempio precedente, è stata fondamentale la partecipazione del progettista nella direzione dei lavori. Nel cantiere si sono trovate una serie di difficoltà sia nel rapporto con l’impresa che con le maestranze (come ad esempio il fabbro), che hanno reso necessario un intervento diretto dell’architetto per risolvere gli errori che erano stati commessi. Questa molteplicità di problematiche che si possono presentare in fase di esecuzione, se non controllate, rischiano di portare ad un’alterazione del progetto.

 

Nei due esempi l’esigenza di avere un controllo completo, anche durante la fase di cantiere, appare quindi evidente. La supervisione del progettista ha infatti permesso di ottenere un risultato di qualità nonostante in entrambi i casi si sia operato con una disposizione economica ridotta che ha limitato le scelte in fase di progetto e di esecuzione. L’architettura dei due fabbricati era stata alterata e snaturata (nel caso di Ostia in modo sicuramente più drastico e preoccupante) ed il merito del restauro è stato di ridonare il valore e la qualità che nel tempo si era perduta.