Considerazioni sulla visita alla Villa Capo di Bove ed al cantiere del Teatro Argentina

 

VILLA CAPO DI BOVE, Appia Antica

L’esempio della Villa di Capo di Bove è un perfetta testimonianza del susseguirsi di vicende che ha riguardato molte delle proprietà che affacciano sull’asse storico dell’Appia Antica. A differenza di altre, la villa è stata interessata da un’ultima fase di ‘riscatto’, grazie all’acquisizione da parte dello Stato che l’ha resa un bene pubblico fruibile.

La via Appia, iniziata dal console Appio Claudio nel IV secolo a.C., era uno dei maggiori assi di ingresso a Roma da sud e principale via di comunicazione verso l’Oriente: il diretto collegamento con il porto di Brindisi garantiva infatti l’apertura verso la Grecia ed il Mediterraneo. Il tratto della via consolare più vicino a Roma era caratterizzato dall’alternanza di vaste tenute agricole o residenziali e numerosi monumenti funerari, che per legge dovevano essere edificati oltre il limite sacro del Pomerio. La tenuta di Capo di Bove, così chiamata nel Medioevo in rimando ai bucrani del fregio del Mausoleo di Cecilia Metella, a partire dal II secolo d.C. rientrò nel Triopo di Erode Attico, un vasto latifondo di cui faceva parte anche un pagus, ossia un villaggio. Un casale era già presente all’inizio del ‘300, quando il cardinale Caetani acquistò il terreno con il rispettivo edificio. L’area, che nel corso dei secoli ha conosciuto numerosi passaggi di proprietà e conseguenti trasformazioni, ha avuto destinazione agricola fino alla metà del ‘900.

Negli anni ’50 del Novecento la proprietà venne acquistata da una famiglia di grossisti ortofrutticoli, i Romagnoli, che trasformarono il casale ad uso residenziale. Iniziò così una nuova fase per la tenuta, che rientrò nelle logiche di occupazione dei suoli tipiche di quegli anni, capeggiate da una committenza con elevata disponibilità economica. Un abusivismo che può essere definito consolidato, o addirittura illuminato, se contrapposto a quello speculativo; ma pur sempre abusivismo. L’immenso sviluppo dell’industria cinematografica, soprattutto a Roma, intensificò questo fenomeno. La via Appia vide una proliferazione di ville costruite da imprenditori e attori, desiderosi di avere la loro residenza privata in questa parte di città immersa nel verde. E fu così che nel ’62 un produttore cinematografico, Sauro Streccioni, comprò la villa di Capo di Bove: il progetto di recupero, probabilmente compiuto da un esponente della scuola di Busiri Vici, rientrava in quello stile antiquario a quei tempi così in voga nelle case dell’Appia.

Negli anni ’80 iniziò una nuova trasformazione della zona. Ai precedenti proprietari subentrarono i ‘nuovi ricchi’, che acquistarono le ville non più per amore del luogo ma per avere evidenza sociale. Con lo stesso spirito, alcuni anni più tardi, Streccioni tentò di vendere la sua residenza ad un nuovo acquirente, dichiarando un prezzo evidentemente troppo basso per essere un accordo esercitato nei termini della legalità. Un funzionario statale, venuto a conoscenza del prezzo stranamente esiguo, esercitò il diritto di prelazione sul bene vincolato, rendendo pubblica la villa e bloccando la frode in corso.

Dal 2002 sono iniziati i lavori tesi a valorizzare l’edificio e l’intera area da parte di un team della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, con a capo Rita Paris: un’operazione che è riuscita a trovare un equilibrio efficace tra la parte archeologica, naturalistica e di recupero architettonico.

A pochi metri dall’ingresso è stato parzialmente riportato alla luce un complesso termale, in origine più vasto, che si pensa sia stato costruito nel II secolo d.C. seguendo l’impianto di due precedenti edifici sepolcrali. Data la vicinanza con Roma, le terme non avevano funzione pubblica ma erano forse destinate ad una corporazione che frequentava la zona e, probabilmente, a coloro che si occupavano della gestione del territorio del Triopio di Erode Attico e degli edifici di culto in esso compresi. L’approvvigionamento idrico dell’impianto termale avveniva grazie a due cisterne, una delle quali è stata utilizzata per costruire il casale in epoca medievale.

Il giardino è stato ridisegnato da Massimo De Vico, che ha sostituito la simmetria che caratterizzava l’assetto precedente con un tracciato curvilineo, più adatto al gusto eclettico e pittoresco del luogo.

L’intervento sul casale è stato curato da Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia. I due architetti hanno cercato di mantenere quanto più possibile l’impianto della villa, operando gli adeguamenti necessari per rendere a norma l’edificio. All’esterno è stata rispettata l’apparecchiatura muraria: un caprice architettonico, in cui i resti in selce dell’antica cisterna sono stati reintegrati dalla muratura degli anni ’60, che rivisitava in termini moderni il concetto medievale dello ‘spolia’, unendo reperti antichi ad elementi costruttivi nuovi. L’interno è stato volutamente intonacato, previa documentazione dell’apparecchiatura romana ritrovata, per favorire al visitatore una corretta lettura dell’insieme.

L’edificio ospita dal 2008, oltre agli edifici della Soprintendenza, l’archivio di Antonio Cederna. Il noto archeologo e giornalista ha lottato durante la sua vita in difesa dei patrimoni artistici e paesaggistici, dedicando particolare attenzione alla tutela dell’Appia Antica e al progetto del Parco regionale. La scelta di collocare il suo archivio in un edificio rappresentativo di quei principi contro cui ha duramente combattuto in vita può sembrare a prima vista poco adeguata. Letta in una luce diversa, l’intera vicenda è però l’emblema della vittoria schiacciante dell’opera di risanamento morale da lui intrapresa contro una mentalità volta alla commercializzazione della storia e dei beni culturali: il riscatto di quei valori trova piena concretizzazione nel Parco dell’Appia e nella villa Capo di Bove, che da proprietà privata simbolo dell’abusivismo anni ’60 è diventata un contenitore di cultura illuminata.

 

TEATRO ARGENTINA, Restauro della facciata

Il Teatro Argentina è stato sottoposto nel tempo a molteplici trasformazioni: inaugurato nel 1732, rimase per quasi un secolo privo di facciata, costruita solo nel 1826 ad opera di P. Holl. Nel 1887 il teatro divenne comunale e l’anno successivo, grazie all’intervento di G. Ersoch, assunse l’aspetto attuale. Inizialmente il prospetto dell’edificio si caratterizzava per un’ampia pensilina, ormai demolita. I due ultimi interventi di restauro sono stati effettuati nel 1970 e nel 1993. In entrambi i casi sono state apportate modifiche incongrue alle quali si sta cercando di porre rimedio nei lavori in corso di esecuzione. 

Negli anni Settanta sono state effettuate operazioni di  adeguamento sismico, rimuovendo le capriate lignee per sostituirle con una struttura in cemento armato, ritenuta più resistente. Sul gruppo scultoreo di facciata si applicò una colletta cementizia, di spessore variabile dai 4 mm ai 5 cm, che modificò completamente il modellato originario. Negli anni Novanta la facciata era stata tinteggiata con coloriture a base di resina vinilica, che si è presto rivelata di scarsa durabilità. Il restauro attuale, curato dall’architetto Carlo Celia, si basa su uno studio filologico più attento ed è volto a ridonare alla facciata un aspetto corretto, dal punto di vista storico e materiale. Per questo motivo si è scelto di utilizzare intonaci a tinta di calce, in sostituzione dei precedenti sintetici. Si è quindi deciso di descialbare la superficie, per eliminare la coloritura del ’93 che non avrebbe favorito l’aderenza della nuova tinteggiatura. Descialbare una coloritura, come sostenuto dall’architetto, non è in generale un’operazione rispettosa della storia dell’edificio, in quanto cancella la stratificazione degli strati nel tempo. In questo caso però un tale intervento era necessario per non compromettere la buona riuscita del restauro. Sono ora in corso le prove di colore sia per i fondi color cortina che per le parti in finto bugnato, che verranno trattate con un tono travertino. Per quanto riguarda il gruppo scultoreo si sta intervenendo eliminando la colletta cementizia; nelle zone in cui l’asportazione potrebbe compromettere l’opera, è stato lasciato in opera il materiale a base di cemento e si sono attuate delle semplici integrazioni. La superficie in grassello e polvere di marmo sarà poi rifinita con una coloritura, che verrà decisa in relazione alle altre in un piano unitario di colore. L’applicazione del cemento è stata deleteria su più fronti: ha causato la formazione di sali all’interno dello stucco e fatto arrugginire le barre metalliche ottocentesche, di supporto al modellato.  Il ferro è stato quindi passivato, quando possibile, e negli altri casi rimosso e sostituito. Altri interventi riguardano gli infissi in legno del primo piano, gli unici ad essere rimasti originali. Gli elementi sono stati accuratamente liberati da uno smalto colorato, erroneamente applicato in passato, e rifiniti con una cera trasparente.

La conclusione dei lavori, iniziati a dicembre, è prevista a fine luglio.

Vista la particolare collocazione in pieno centro storico, grande importanza è stata posta al rispetto del contesto. Le scelte dell’ingegner Vicari, responsabile della sicurezza, sono state fondamentali. Uno dei primi problemi da affrontare è stata l’organizzazione dei ponteggi.  Si è scelto di rendere il cantiere accessibile solo dalla terrazza del teatro, garantendo per sicurezza una via di fuga dal basso. Altra difficoltà riguardava il deposito dei molti materiali e di una piccola betoniera, necessaria per ottenere l’intonaco con tinta a calce. E’ stata costruita una piccola terrazza per depositare la betoniera ed un cavedio di lavoro per trasportare volta per volta il materiale preparato.

Il restauro, supervisionato dalla Soprintendenza statale e comunale, è finanziato attraverso la pubblicità da un committente privato, Mecenarte. L’azienda, che coincide con l’impresa esecutrice dei lavori, si è proposta di sostenere completamente i costi, ricavando i proventi dalle inserzioni pubblicitarie poste sui teli a copertura dei ponteggi. Eventuali aumenti di costo, come quelli già causati dagli interventi relativi al gruppo statuario non prevedibili da una perizia da terra, saranno coperti dalla ditta, in virtù dell’impegno contrattuale. Questa scelta, che nel caso del Colosseo è stata ampiamente criticata, consentirà di eseguire i lavori in questo periodo di difficoltà economica del paese.