Villa Capo di Bove

Visita a Villa Capo di Bove sull'Appia Antica

Camminando attraverso l’Appia antica, via voluta dal censore Appio Claudio Cieco, che anticamente collegava Roma a Brindisi, il visitatore può scorgere una serie di monumenti e reperti archeologici molto interessanti. Per la sua importanza strategica, la ricchezza dei traffici commerciali e la sua continua frequentazione, fu spontanea la nascita dei nuclei produttivi e dei servizi più diversi ad essa connessi, come ad esempio l’impianto termale di Capo di Bove e ville suburbane a carattere agricolo-produttivo con annesso nucleo residenziale come la Villa dei Quintili. Il recupero di queste aree, violate dall’abusivismo che ancora oggi non si è arrestato, è stata una operazione importante e doverosa da parte dello Stato. La tenuta di Capo di Bove, fondata su una cisterna preesistente, è stata realizzata nel periodo medievale ed ha sempre avuto una funzione agricola, fino al ‘900, quando ha subito, prima dell’intervento dello Stato, molteplici cambiamenti: da casale di proprietà della ricca famiglia Romagnoli, venditori ortofrutticoli, immerso nella campagna negli anni ’50 a residenza del produttore cinematografico Sauro Streccioni che l’acquistò nel ’62, quando tutte le star del cinema desideravano avere una casa in questa zona così verde di Roma, e la fece restaurare secondo un progetto (non ritrovato) che ne esaltasse il carattere antiquario, in voga all’epoca, per esempio enfatizzando la forma della cisterna su cui si fonda parte dell’edificio. Negli anni ’80 si assiste ad un nuovo cambiamento per cui i ‘nuovi ricchi’ ambiscono abitare in queste ville sull’Appia antica per acquisire un prestigio sociale, più che per un reale interesse verso questi luoghi. Nel 2002 la Villa Capo di Bove stava per essere venduta da un privato ad un altro con un prezzo molto basso rispetto al valore effettivo, per cui lo Stato decise di esercitare il proprio diritto di prelazione, di acquistare la Villa e di renderla pubblica. Al fine di renderla fruibile all’intera collettività ci sono state due fasi di recupero: per prima cosa è stata bonificata l’area archeologica con la rimozione della piscina e di un asse stradale che la attraversava e poi è stato ristrutturato il caseggiato che attualmente ospita gli uffici della Soprintendenza, una sala per conferenze e l’archivio di Antonio Cederna. Negli anni successivi all’acquisizione a patrimonio pubblico, sono stati svolti lavori per la riqualificazione e la valorizzazione dell’edificio e di tutta l’area circostante. Innanzitutto è stata effettuata una campagna di scavo, durante la quale è stato rinvenuto un complesso termale, probabilmente privato, datato al II sec a.C., molto ampio, più grande della parte attualmente visitabile, con ingresso sull’Appia antica. Parallelamente a questi lavori, la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, ha anche stabilito le linee guida ed approvato i progetti, poi effettivamente realizzati, dell’Arch. Massimo De Vico, per quanto riguarda la parte del giardino e degli architetti Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia per quanto riguarda la ristrutturazione e l’allestimento del casale. In primo luogo, i due architetti hanno dovuto fare i conti con l’adeguamento dell’edificio alle attuali norme che regolano gli spazi pubblici, cercato di mantenere quanto più possibile l’impianto della villa. All’esterno sono visibili i resti in selce dell’antica cisterna che sono stati reintegrati nelle operazioni di restauro degli anni ’60, purtroppo però non è facile per il semplice visitatore poter apprezzare queste ricercatezze, poiché non è presente sul posto un’adeguata cartellonistica, che è stata posta invece, all’interno della ex dependance, oggi usata come punto di ristoro. Purtroppo gli abusi edilizi in questa zona meravigliosa non si sono ancora fermati e numerose sarebbero le opere da compiere al fine della riqualificazione. Ci auguriamo che il comune e gli Enti predisposti alla tutela di quest’area trovino le risorse necessarie ed una convergenza di intenti affinché che anche questo territorio possa essere reso fruibile alla collettività.

Considerazioni sulla visita alla Villa Capo di Bove ed al cantiere del Teatro Argentina

 

Villa Capo di Bove

Il Parco dell‘Appia Antica è un’area protetta di interesse regionale ed è stato istituito nel 1988 a seguito di una lunga battaglia condotta da Antonio Cederna insieme ad un gruppo di architetti, urbanisti, giornalisti ed intellettuali con la finalità di salvaguardare la zona dai continui tentativi di cementificazione selvaggia e di conservare e valorizzare il territorio in essa compreso. La superficie del parco di circa 3.400 ettari comprende la via Appia Antica e le sue adiacenze per un tratto di 16 chilometri, la valle della Caffarella, l’area archeologica della via Latina, l’area archeologica degli Acquedotti, la Tenuta di Tormarancia e quella della Farnesiana.

La villa visitata si colloca proprio in questa zona, specificatamente lungo la via Appia antica, strada realizzata nel 312 a.C. per volere del console Appio Claudio Cieco Il cui percorso originale collegava l'Urbe (partendo da Porta Capena, vicino alle Terme di Caracalla) con Ariccia, il Foro Appio, Terracina, Fondi, Itri, Formia, Minturno, Mondragone ed infine Capua e successivamente ampliata (268 a.C.) fino a Benevento e Venosa. Nel 191 a.C , la strada venne prolungata fino a Taranto e Brindisi il principale porto per la Grecia e per l’Oriente.

La proprietà è collocata a 450 m dal Mausoleo di Cecilia Metella ed a 250 dal limite delle mura del Castrum Caetani. In età medievale la zona era denominata “Casale di Capo di Bove e di Capo di Vacca”, toponimo originato dai bucrani che ancora oggi ornano il fregio posto alla sommità del sepolcro di Cecilia Metella, ed essa mantenne caratteristiche agricole fino a tempi recenti. L’edificio principale presente nell’area, censito nel catasto Pio Gregoriano (1812-1835), di proprietà privata dal 1870 mantenne come detto in precedenza l’uso agricolo fino al 1945 anno in cui acquistato da una famiglia di grossisti ortofrutticoli, i Romagnoli, fu trasformato ad uso residenziale dando inizio ad un nuovo periodo per la tenuta e per l’intera area. Periodo caratterizzato dalle logiche imprenditoriali ed occupazionali di questa fase storica italiana in cui l’abusivismo, se paragonato a quello speculativo degli anni successivi, poteva essere considerato per così dire “illuminato” ma pur sempre pericoloso e dannoso per le zone in cui si andava ad edificare.

Nel 1962 la villa passò nelle mani di Sauro Streccioni, un produttore cinematografico, il quale sulla scia della moda del momento della costruzione da parte di imprenditori ed attori della propria residenza privata  nella zona, fece “recuperare” l’edificio probabilmente da un architetto della scuola di Busiri Vici, basando il progetto su quello stile antiquario caratteristico del linguaggio del noto architetto.

Agli inizi del 2000 Streccioni tentò la vendita della residenza, commettendo però l’errore che riuscì a portare alla “salvezza” di quest’aera. Dichiarando infatti un prezzo troppo basso per essere un accordo del tutto legale, scoperto da un  funzionario statale, fu costretto a vendere la villa al Ministero dei beni culturali, il quale esercitando il diritto di prelazione sul bene vincolato rese pubblica la villa riuscendo a bloccare i possibili abusi futuri.

Dal 2002 si è quindi iniziato il recupero dell’intera area, la quale oltre alla villa comprende anche i resti di un importante impianto termale databile a circa la metà del II sec. d.C. ed una grande superficie di parco.

L’impianto termale, posto all’ingresso della villa di rilevanza archeologica già evidente dai resti di alcune strutture murarie antiche ed un mosaico bianco e nero è stato quindi riportato alla luce e reso visitabile, mentre il giardino è stato ridisegnato da Massimo De Vico, il quale eliminando la simmetria che caratterizzava l’assetto precedente e realizzando un tracciato curvilineo si è adattato in maniera più idonea  al luogo.

Per quanto riguarda invece l’edificio principale, destinato ad ospitare il centro di documentazione dedicato ad Antonio Cederna, è stato sottoposto a restauro sotto la guida degli architetti Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia, i quali dovendo  rendere l’edificio a norma hanno però cercato di mantenere il più possibile l’impianto originario della villa, rispettando ad esempio l’apparecchiatura muraria esterna realizzata con elementi costruttivi nuovi uniti a reperti antichi, ma intonacando l’interno per protezione della muratura ma anche per non confondere il visitatore nella lettura dell’ambiente.

Ciò che a prima vista è sicuramente evidente è la capacità con cui tutti i responsabili del progetto sono riusciti a rendere quest’area fruibile al pubblico e ad evidenziare attraverso il percorso le diverse peculiarità che il sito di circa 8500 mq è in grado di offrire al visitatore, ma anche la vittoria, per una volta, della sovrintendenza dei beni culturali sullo scempio che invece continua spesso a consumarsi all’interno di queste ville poste in un paesaggio cosi rilevante dal punto di vista storico-naturalistico.

 

 

Teatro Argentina

Nel 1730 la famiglia Cesarini avviò il progetto di costruzione del teatro Argentina all’interno di un palazzetto ed una torre di loro proprietà (Casa del Burcardo): una parte dell’edificio secondario venne demolita per fare spazio al palcoscenicom, mentre la torre ed altri ambienti del palazzetto furono adibiti a servizi e camerini per artisti. Il Teatro venne inaugurato il 31 gennaio del 1732.

Originariamente fu realizzato completamente in legno ad eccezione delle mura e delle scale in muratura.

La platea, pavimentata con tavole di legno, era completata da quaranta file di banchi mentre i 186 palchi erano disposti in sei ordini. Normali lavori, necessari per l'agibilità del teatro venivano effettuati annualmente; notevoli furono quelli eseguiti nel 1742.

 L'edificio rimase a lungo senza facciata, costruita soltanto nel 1826 dall'architetto P. Holl dopo la concessione del teatro fatta dal duca Salvatore Sforza Cesarini, proprietario, a Pietro Cartoni, il quale eseguì "vari restauri e lo corredò ben anche di un prospetto, formandone un vestibolo e un sovrapposto Salone".

Fu solo nel 1887 che il teatro divenne comunale e l’anno successivo ad opera di G. Ersoch, assunse l’aspetto attuale.

Gli ultimi interventi di restauro, precedenti a quello attuale, sono stati effettuati nel 1970 e nel 1993 apportando in alcuni casi modifiche non congrue con l’architettura originaria dell’edificio che oggi si stanno cercando di correggere.

I restauri degli anni ’70 si interessarono di effettuate operazioni di  adeguamento sismico, sostituendo le  capriate lignee con una struttura in cemento armato al tempo ritenuta più resistente, mentre nei restauri del ’93 la facciata fu tinteggiata con resine viniliche di scarsissima durabilità.

Nella fase preliminare di pianificazione dei restauri attuali ci si è trovati subito a dover risolvere una serie di problemi soprattutto relativi all’organizzazione dei ponteggi e della loro sicurezza. Il cantiere infatti trovandosi in una delle piazze più trafficate del centro storico di Roma, non doveva rendere difficile la fruizione dei marciapiedi posti di fronte alla facciata del teatro, e per questo motivo che l’ingegner Vicari ha scelto di collocare l’accesso ai ponteggi esclusivamente sulla  terrazza del teatro garantendo però una via di uscita dal basso. Questa posizione dell’edificio creava però un ulteriore problema cioè quello della realizzazione di uno spazio dove poter collocare una piccola betoniera necessaria per la produzione dell’intonaco che non poteva essere posizionata sulla terrazza utilizzata per l’ingresso al cantiere per motivi di sicurezza. L’ingegnere ha quindi deciso di realizzare all’interno del cantiere una piccola terrazza dotata di un cavedio necessario per trasportare il materiale preparato sui vari piani del ponteggio.

Nel restauro condotto dall’architetto Carlo Celia, sono stati utilizzati a differenza del restauro precedente intonaci a tinta di calce, descialbando la superficie,(decisione presa con molte difficoltà) per eliminare la coloritura del restauro del ‘93. La scelta non è stata quella di eliminare la stratificazione formatasi nel tempo ma piuttosto quella di eliminarne una erronea ed artificiale a favore della nuova di tipo tradizionale. A tal proposito l’architetto con i suoi collaboratori, nell’attuale fase dei lavori, sta effettuando le prove di colore scegliendo, per i fondi il color cortina, mentre per le parti in finto bugnato un trattamento con un tono travertino.

Inoltre sono stati recuperati anche gli infissi in legno originali, che liberati da uno smalto colorato applicato nei restauri precedenti, sono stati rifiniti con una cera trasparente.

La particolarità di questo restauro supervisionato dalla Soprintendenza, è quella di rappresentare un unicum nel suo genere, riuscendo probabilmente anche a risolvere molti dei problemi economici legati alla realizzazione dei restauri all’interno della nostra nazione, poiché esso è finanziato ed eseguito dalla stessa azienda ovvero Mecenarte. Tale azienda si è proposta di sostenere completamente i costi, ricavando i proventi dalle inserzioni pubblicitarie poste sui teli a copertura dei ponteggi. Purtroppo, vista la forte crisi che in questo momento sta colpendo la nostra nazione e non solo,  l’azienda si è trovata di fronte a molte difficoltà riuscendo a vendere la pubblicità solo in quest’ultima fase dei lavori, iniziati a dicembre 2011 il cui termine è previsto per fine luglio.

Allego inoltre una relazione che le avevo consegnato solo a mano

 

 

 

L’architettura Razionalista e la Damnatio Memoriae

damnatio memoriae: Condanna, che si decretava in Roma antica in casi gravissimi, per effetto della quale veniva cancellato ogni ricordo (ritratti, iscrizioni) dei personaggi colpiti da un tale decreto.

Treccani.it

È interessante iniziare con la definizione del concetto di damnatio memoriae intesa letteralmente come condanna della memoria adoperata nel nostro caso nei confronti di un’ideologia ,quella legata al fascismo, nel contesto specifico riguardo alla sua architettura.

È proprio nel ventennio fascista  che si scrive una pagina importante dell’architettura Italiana grazie anche all’iniziativa del “gruppo 7” di cui facevano parte grandi nomi come: Giuseppe Terragni, Gino Pollini, Luigi Figini, Sebastiano Larco, Carlo Enrico Rava ed Adalberto Libera.

Purtroppo l’architettura durante il fascismo divenne una forma di propaganda ed ebbe l'effetto di rafforzare il prestigio internazionale del regime motivo per cui successivamente venne “condannata” ed in molti casi abbandonata a se stessa.

Esempio lampante di questa situazione è la figura dell’architetto Luigi Moretti che sebbene sia stato uno dei maggiori architetti a operare sulla scena romana dal tempo del fascismo a quello del dopoguerra e capace di proiettarsi da quella sulla scena milanese e internazionale, è rimasto a lungo ignorato.

Una delle opere significative della produzione dell’architetto è rappresentata dalla Casa delle Armi al Foro Italico progettata nel 1934 e costruita nel 1935, caratterizzata da un rivestimento in marmo statuario di Carrara, scelto da Moretti in una particolare venatura “lunense” che contribuisce ad esaltarne l’eleganza e la purezza dei volumi.

Nonostante sia tra migliori esempi di architettura razionalista questo edificio durante tutto il corso del secolo scorso ha dovuto attraversare una serie di vicissitudini nonché uno stato di abbandono che lo collocano proprio tra quegli edifici vittima della precedentemente descritta damnatio memoriae.

Nel 1981-82 viene addirittura adibita prima  ad  aula-bunker  (per l’occasione  recintata  di  ferro  e  cemento  armato),  poi a caserma  dei  Carabinieri completamente snaturata dai magnifici interni pensati dall’architetto. Fu rivalutata del suo valore architettonico da una direttiva della Presidenza del Consiglio di circa 15 anni fa che ne prevedeva il restauro e la restituzione al fine di adibirla a Museo dello  Sport cosa ad oggi ancora non attuata.

La domanda che ad una studentessa come me sorge spontanea è: nella nazione in cui la conservazione ed il restauro sono considerati come qualcosa di necessario per preservare i tesori che ci sono stati tramandati dai grandi maestri, è possibile che per il legame di uno dei gioielli dell’architettura razionalista italiana con l’ideologia fascista (sicuramente da condannare), sia possibile pensare di farla cadere in rovina, snaturarla della sua forma originaria ed addirittura pensare di arrivare a demolirla? La speranza è che il rinnovato interesse e quindi la nuova capacità di cogliere l’essenza della bellezza di queste architetture, riuscendo ad estrapolarle soprattutto dal contesto politico in cui sono sorte, gli permetta di riuscire ad arrivare avanti nel tempo e di trovare qualcuno con la voglia e la conoscenza tale da portarle a rivivere del loro splendore originario o comunque affidandogli quel valore intrinseco che negli anni non gli è stato concesso.

 

Permanenza storica e recupero

recuperare: v. tr. Tornare in possesso di una cosa che era già propria o, in genere, che si era perduta.

recupero :L’azione, l’operazione di recuperare, il fatto di venire recuperato, soprattutto con riferimento a cose disperse, rubate, o di cui si temeva la scomparsa, la perdita, la distruzione: r. di un’automobile caduta in un canale; r. marittimi, e r. dei relitti di navi o di aeromobili; r. di una salma di un alpinista precipitato; film di r., prodotto utilizzando le scenografie e i costumi di un altro film; r. della refurtiva, del bottino, r. di un... Leggi

 

Secondo Moneo c’è un rapporto diretto tra le architetture, anche le più moderne e apparentemente distratte o non curanti della storia, e il passato, c’è un legame «tra gli edifici e il passato che i luoghi nascondono; quel passato nel quale inevitabilmente ci imbattiamo quando inizia il primo lavoro richiesto dalla costruzione, cioè lo scavo che precede il processo di fondazione» Lo scavo è il primo gesto della costruzione e attraverso lo scavo l’architetto si mette in collegamento diretto con il passato di un luogo, «lo scavo diventa lo strumento lo strumento per cercare nelle sue viscere la diretta testimonianza di un passato sepolto» .

Con il ritrovamento dei resti archeologici del Teatro Romano di Cartagena (I siglo A.C.), l'architetto Rafael Moneo riceve l'incarico di intervenire nel contesto urbano del Teatro e di creare un nuovo Museo in grado di accogliere i pezzi raccolti durante le varie campagne di scavo.

L’intervento  ha recuperato l'edificio antico permettendone la lettura anche a fini didattici e culturali in modo da renderlo comprensibile al visitatore.

L’architetto ha pensato ad un sistema di percorsi che connette la cavea del teatro con la maglia delle strade della città antica, con il giardino e la Chiesa di Santa Maria la Vieja realizzata a partire dal XIII secolo in parte sul Teatro, recuperando le antiche pietre del sito.

La nuova architettura ha quindi lo scopo di porre in risalto il monumento coinvolgendo attraverso il suo sistema di percorsi  sia i visitatori occasionali che i cittadini di Tarragona attraverso un percorso urbano, paesaggistico e archeologico il quale accostando architetture romane, medievali e moderne permette di leggere il passaggio della città attraverso il tempo e quindi la sua storia. 

Visita alla Villa di Capo di Bove

 

La villa si trova lungo il percorso dell’appia Antica, poco lontano dal Mausoleo di Cecilia Metella ed occupa, compreso il giardino, una superficie di circa 8.500 mq. Dal catasto pio-gregoriano (1812-1835) l’area risultava proprietà del Monastero di San Paolo Fuori le Mura e l’edificio era la  “casa ad uso della vigna”. L’area divenne proprietà privata nel 1870, ma solo nel 1945 iniziò la sua trasformazione per uso residenziale ad opera di una famiglia di commercianti ortofrutticoli: i Romagnoli.

Tuttavia, a partire dagli anni ’60 l’area dell’Appia Antica divenne la residenza favorita da una committenza con elevata disponibilità economica che considerava la proprietà come un vero e proprio status symbol. In quest’ottica la villa venne acquistata nel ’62 dal produttore cinematografico Sauro Streccioni che affidò l’intervento sull’edificio principale a un architetto, probabilmente della scuola di Busiri Vici, che volle ricreare un casale all’antica utilizzando materiale di spoglio, ritrovato probabilmente lungo l’Appia Antica, sul paramento murario dell’edificio principale. Inoltre  si costruirono la dependance la piscina e si risistemò il giardino.

Nel gennaio del 2002 il Ministero dei Beni Culturali, su proposta della Soprintendenza Archeologica di Roma, ha acquistato la villa per 1.549.370,70 €,  esercitando il diritto di prelazione sul bene vincolato con lo scopo di “programmare un sistematica ricerca archeologica, nonché al fine di assicurare alla pubblica fruizione il complesso”. La Villa doveva infatti essere venduta da Sauro Streccioni a Valerio Morabito il quale, nota la volontà dello Stato di acquisire la proprietà, manifestò la sua disponibilità a cedere gratuitamente al Ministero per i beni e le attività culturali l’intera area su cui insistevano i resti antichi in considerazione del fatto che la stessa è strutturalmente scorporata dal resto della villa e munita di un secondo ingresso carrabile.  Tuttavia il Ministero non accettò la proposta e procedette all’acquisto della villa.

Il recupero, iniziato nel 2002, avvenne in due fasi: una volta alla riqualificazione del fabbricato principale e della dependance per i quali si stimò la spesa di 516.000 €, e una invece al recupero dello scavo archeologico che avvenne invece in un secondo momento. Il risultato è stato un grande equilibrio fra le parti naturalistica, archeologica e architettonica.

Per quanto riguarda l’edificio l’intervento è stato curaro dagli architetti Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia. Essi hanno scelto di mantenere molti elementi che caratterizzavano l’intervento degli anni ’60: alcune porte interne, il paramento esterno, la scala principale; mentre sono stati eliminati quegli elementi che non si prestavano alla pubblica fruizione come ad esempio la piscina. Si è dunque provveduto alla messa a norma di tutto l’edificio, all’installazione di un ascensore, e alla sostituzione degli infissi (operazione mal riuscita forse a causa di maestranze abituate a produrre elementi in serie, o forse anche a causa di un supervisione poco attenta?).

Lo scavo archeologico a rilevato l’esistenza di un complesso termale le cui strutture più antiche risalgono al II sec. d.C. facente capo probabilmente a un collegio sacerdotale o a un culto. L’approvvigionamento idrico di tale impianto avveniva probabilmente dalla cisterna che si trova al di sotto dell’edificio principale. A proposito di tale cisterna: mentre all’esterno è possibile distinguere la muratura antica, all’interno questa è stata intonacata per mantenere l’uniformità dell’ambiente. Il pannello che spiega la presenza del muro della cisterna si trova in realtà nella dependance, ma forse, per maggior chiarezza, sarebbe meglio collocarlo nell’ambiente in cui si trova la cisterna.

Il progetto degli spazio esterni è stato curato dall’architetto De Vico  tenendo conto delle emergenze archeologiche. Egli ha infatti sostituito il precedente percorso rettilineo che attraversava i resti archeologici, con un percorso curvilineo più adatto al contesto. Si è inoltre intervenuto secondo tre linee guida: il rispetto delle alberature esistenti, l’eliminazione della vegetazione infestante e l’arricchimento cromatico attraverso la piantumazione di cespugli fioriferi.

Dal 2008 la villa ospita oltre alla sala conferenze, lo spazio espositivo e gli uffici della Soprintendenza, anche l’archivio Cederna che ospita foto, appunti manoscritti e documenti inediti. E’ curioso come proprio l’archivio di Antonio Cederna, che si batteva tanto contro la speculazione lungo l’Appia Antica sia finito proprio lì, tuttavia la lettura che si può dare è questa: l’acquisizione da parte dello Stato della villa e l’operazione di riscatto totale che l’ha resa fruibile al pubblico 7 giorni su 7 gratuitamente è da considerarsi una piccola vittoria contro la speculazione e l’abusivismo e va considerata un esempio per noi architetti del futuro. Non perdiamo la speranza.  

visita a villa capo di bove

Villa Capo di Bove è una villa situata lungo la via Appia antica divenuta proprietà del Ministero per i Beni e le Attività Culturali nel 2002, su proposta della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma.

All'interno dello spazio espositivo abbiamo potuto vedere, dati alla mano, le grandi trasformazioni, urbane e paesistiche, che si sono susseguite negli anni sul territorio limitrofo alla via Appia; questo infatti pur essendo un parco controllato da un ente apposito, data la sua grande estensione rimane molto spesso vittima di abusi. In assenza di un costante controllo infatti si sono susseguite sempre più edificazione abusive anche al bordo del grande parco dell'Appia Antica deturpando per sempre il paesaggio godibile, ad esempio, dalla stessa villa Capo di Bove.

 

La proprietà della Villa Capo di Bove fu acquisita dalla Stato che, esercitando il diritto di prelazione, la tolse dalla mano di privati che volevano lucrare su una sua finta compra-vendita, altro abuso che sarebbe stato commesso su questa parte di territorio romano.

Della villa si hanno anche notizie precedenti rispetto all'acquisizione del 2002:

negli anni '60 del novecento la villa apparteneva a dei rivenditori ortofrutticoli, la famiglia dei Romagnoli; successivamente fu comprata da un cinematografaro romano, Streccioni, che finanziò un progetto di recupero “antiquario” della villa secondo la tecnina dello “spolia” per cui furono utilizzati dei reperti archeologici provenienti dagli scavi; ultimo proprietario fu un certo Mora.

 

Dopo l'acquisizione dell'area da parte della Soprintendenza si intervenì sulla proprietà con interventi che mirassero ad esaltare e valorizzare gli aspetti storici, mentre furono eliminati quelli appartenenti alle più povera fase residenziale. A questo proposito fu eliminata la piscina che si trovava nel giardino retrostante e fu creato un impianto di fitodepurazione. Negli interni si lasciarono tutti quegli elementi dati dalle stratificazioni dovute al tempo come la colonna in marmo antico sotto la scala, la scala stessa, le porte.

Nell'area esterna si portarono alla luce i resti archeologici di un piccolo complesso di terme romane private risalenti al II secolo d.C. Questo fu possibile con la rimozione del viale alberato che inquadrava la villa posta nella parte retrostante del lotto rettangolare. Le terme, poste nella parte del lotto più prossima alla via Appia, erano forse ad uso di una corporazione o di un collegio che frequentava l'area. Il complesso termale si pensa fosse rimasto in uso fino al IV sec. secondo le tipologie murarie e i bolli rinvenuti durante la fase di scavo.

Oggi, dopo la sistemazione dell'area in maniera didattica, è possibile comprendere chiaramente come erano organizzati e realizzati i complessi termali romani. Si può vedere come gli ospiti del complesso si trovavano all'interno di un cammino che prevedeva il passaggio da ambienti freddi, frigidarium, ad ambienti più caldi, tepidarium, sudatio, caldarium. Gli ambienti freddi erano ambienti molto ampi e caratterizzati dalla presenza di vasche di acqua fredda in cui gli ospiti si immergevano completamente; gli ambienti caldi erano invece di minori dimensioni perché più numerosi; erano delle vere e proprie saune caratterizzate dalla loro essenza architettonica: infatti questi ambienti erano dotati di un pavimento sostenuto da suspensure sotto alle quali passava costantemente l'aria calda proveniente dai forni; sulle pareti erano poi incastonati i tubuli, terracotte cave entro cui avveniva il passaggio di aria calda; queste tecnologie garantivano il calore costante all'interno di questi ambienti. Tutti gli ambienti interni erano arricchiti da pavimentazioni musive. In questo sito se ne conservano alcune con dei pregiati disegni geometrici; negli ambienti in cui non sono state ritrovate le pavimentazioni originali la loro presenza è stata suggerita dall'immissione di tessere bianche e nere nell'area di ingombro della pavimentazione interna. In una porzione dello scavo è possibile ammirare anche l'impianto idraulico di cui i romani si servivano composto da tubuli circolari di raccordo, utilizzati entro le murature, e cappuccine che costituivano il vero e proprio impianto fognario.

Considerazioni sulla visita alla Villa Capo di Bove ed al cantiere del Teatro Argentina

 

La proprietà di “Capo di Bove” si trova all'interno del Parco Archeologico dell'Appia Antica; si tratta di un'area strategica, situata appunto sull'asse storico dell'Appia Antica, importante via di collegamento durante l'impero romano. Questa subì diversi cambiamenti nel dopoguerra: vi fu un primo periodo, durante gli anni '50, nel quale diviene lo scenario ideale di grandi imprenditori e personalità illustri, soprattutto produttori cinematografici, che si costruiscono la propria villa; lo stile è piuttosto sfarzoso e lussuoso, tipico di quegli anni. Nella seconda fase degli anni '70-'80 vengono acquistate, da parte di commercianti, tutte le parti edilizie, dai fienili alle case dismesse, e trasformate in proprie abitazioni. La terza fase, degli anni '90, è la fase dei grandi interventi massivi e speculativi con aumento di cubatura che avvengono ai margini del parco archeologico.

L'idea iniziale del Parco dell'Appia Antica nasce dal prefetto napoleonico, e inizialmente venne denominato “Grande Cesare”; si tratta infatti del sito archeologico più importante e più grande del mondo, soggetto a vincolo archeologico e oggetto di tutela da parte dell'Ente Parco dell'Appia Antica e della Sopraintendenza per i Beni Archeologici.

La proprietà attualmente comprende i ritrovamenti di un impianto termale risalente al II secolo d.C. e l'edificio principale, che dal 2008 ospita l'Archivio Antonio Cederna, giornalista, ambientalista, politico e intellettuale italiano difensore del patrimonio culturale e paesaggistico italiano.

L'area di questa villa nel II secolo d.C. era all'interno della vasta tenuta agricola di Erode Attico, durante il medioevo venne trasformata in fortilizio, pur mantenendo le caratteristiche agricole, e divenne in seguito un Bene dello Stato Pontificio, che finanziò infatti gli scavi archeologici.

L'area rimase in proprietà privata fino al 1870 e mantenne l'uso agricolo sino al 1945, anno in cui avvenne la trasformazione per uso residenziale. A partire dagli anni '50 la tenuta fu infatti acquistata da una famiglia di mercanti ortofrutticoli, i Romagnoli, che trasformarono la proprietà ad uso residenziale. Negli anni '60 fu comprata da Streccioni, un produttore cinematografico, il quale commissionò il progetto di recupero della villa secondo uno stile antiquario che era in voga in quegli anni.

Nel 2002 la proprietà fu acquistata dal Ministero per i Beni e le Attività culturali su proposta della Sopraintendenza speciale per i Beni Archeologici di Roma, esercitando il diritto di prelazione sul bene vincolato. Secondo delle recenti valutazioni, la villa era stata stimata 1.300.000 euro. Si è trattata di un'importante operazione di riscatto volta al recupero di un Bene da privato a pubblico, in cui si è andata consolidando l'acquisizione del patrimonio storico e l'equilibrio tra la parte naturalistica, archeologica e la parte del recupero.

Gli scavi archeologici del 2002 hanno portato alla scoperta di un impianto termale risalente al II secolo d.C., ad uso privato, una struttura sofisticata ed aristocratica probabilmente ad uso sacerdotale o di culto. I lavori dell'area, iniziati nel 2002, sono stati eseguiti dagli architetti Celia e Cacciapaglia per quanto ha riguardato la ristrutturazione degli edifici e gli spazi interni espositivi, e dal paesaggista De Vico per la sistemazione dei giardini.

Circa la sistemazione degli spazi esterni, ai fini della leggibilità dei resti archeologici dell'impianto termale, è stata utilizzata una ghiaia bicroma bianca e nera come riproposizione della pavimentazione in mosaico bicromo bianco e nero, e una ghiaia color cotto a riproporre la pavimentazione in laterizio. Trovo che sia una buona riuscita, in quanto rende più facilmente leggibile i resti al visitatore. Inoltre, per ciò che riguarda i giardini, sono stati abbattuti molti alberi piantati in precedenza senza alcun criterio perchè oscuravano gli spazi interni senza quindi permettere l'ingresso della luce e piantati quindi dei nuovi con maggior rigore. Inoltre, ai fini di non dare la sensazione di uno spazio rettangolare stretto e angusto, sono stati modificati i viali realizzando un tracciato ad andamento serpentino, così da dare l'impressione di uno spazio più vasto ed aperto.

La villa viene edificata sulla muratura di una cisterna romana a due vani, i cui resti del vano inferiore sono ben conservati e presentano parti dell'intonaco di cocciopesto, mentre di quelli del vano superiore rimangono poche tracce, visibili solo dai resti di opera cementizia in scaglie di selce. La muratura dell'edificio era stata realizzata adottando una tecnica moderna che deriva dallo “spolia” medievale, ossia attraverso lo spoglio di materiali antichi recuperati dalla distruzione di vari monumenti.

Per quanto ha riguardato gli spazi interni sono state effettuate alcune modifiche per rendere l'edificio a norma, in quanto essendo in precedenza ad uso residenziale non erano necessarie tutte le misure di sicurezza. A riguardo è stato realizzato un elevatore per permettere ai portatori di handicap di accedere al piano superiore; la ringhiera della scala è stata cambiata in quanto la precedente non risultava essere a norma.

Il risultato a mio avviso meno riuscito riguarda gli infissi, che precedentemente in legno, vennero sostituiti con dei nuovi in ferro. Per quanto riguarda i serramenti sono stati sostituiti i preesistenti in ferro battuto con altri più economici in lega. Inoltre la mal riuscita è dovuta anche al fatto che il fabbro ha realizzato gli infissi secondo una misura standard, senza prendere le misure su ogni singola finestra.

Inoltre ho notato la mancanza di pannelli esplicativi che documentino la presenza della cisterna romana su cui si imposta la villa, che , seppur all'esterno è visibile, nella parte interna non è stata lasciata a vista. Condivido l'idea messa in opera dagli architetti, in quanto ritengo che sia più corretto lasciare la testimonianza della sovrapposizione storica, di come l'edificio si sia evoluto.

In conclusione posso affermare che gli interventi realizzati sono congrui e corretti, è stata rispettata la struttura della cisterna, alta testimonianza storica, e si è agito nel rispetto della tutela e della salvaguardia. Si è quindi reso un bene pubblico fruibile dal quale si sono ottenuti benefici concreti.

 

 

 

Il Teatro Argentina, uno dei più antichi teatri di Roma, venne costruito nel 1732 su progetto di Girolamo Theodoli. La facciata, in stile neoclassico, venne realizzata un secolo dopo, nel 1836 da Pietro Holl. Divenuto proprietà comunale nel 1869, il teatro deve l'aspetto attuale al rifacimento operato da Gioacchino Ersoch nel 1887-1888, che inserì i palchi nella struttura in muratura, aprì il palco reale e ampliò l'atrio.

 

Nel corso della storia il teatro subì due interventi di restauro, uno nel 1970 e l'altro risalente al 1993.

Nel primo restauro fu eliminata la pensilina di quattro metri in quanto creava problemi alla linea del tram. Furono inoltre apportate modifiche alla copertura con eliminazione delle capriate lignee e aggiunto in sostituzione un cordolo in cemento armato lungo il perimetro dell'edificio, perchè ritenuto più idoneo per la staticità della struttura e per una maggiore resistenza sismica.

Per quanto riguarda il gruppo statuario collocato a coronamento della facciata, era stata applicata una colletta cementizia di 4/5 centimetri di spessore che aveva completamente annullato l'effetto dello stucco originale e di profondità, propria delle sculture. Inoltre questo strato cementizio, provocando la fuoriuscita dei sali, aveva gravemente danneggiato la superficie scultorea. Anche i ferri di armatura delle statue si erano interamente arrugginiti con il tempo.

Nei restauri del '93 si è intervenuti principalmente sulla facciata utilizzando una scialbatura a base di resina vinilica, che, non lasciando traspirare la muratura, aveva provocato delle lesioni e delle micro fessurazioni.

Il restauro in corso d'opera, curato dall'Architetto Celia, si prefigge come obiettivo principale quello di utilizzare materiali compatibili, come la tinta a calce, in sostituzione dei precedenti vinilici. Perciò in primo luogo è stato effettuato il descialbo degli strati precedenti in modo da poter così procedere ad un restauro di tipo filologico. Come sostiene l'Architetto, i descialbi delle coloriture non sono da considerarsi del tutto operazioni corrette perchè cancellano i segni della storia, eliminando le stratificazioni che si succedono nel corso del tempo, senza lasciare quindi una testimonianza storica. Ma in questo caso è stato necessario effettuare il descialbo per poter proseguire con un restauro di tipo corretto e compatibile dal punto di vista materico.

Sull'intonaco di tamponamento della facciata era stata applicata una tinta color ocra; attualmente sono in corso le prove di colore per restituire il colore originale, sui fondi un color cortina e sulle parti in finto bugnato un color travertino.

Per quanto riguarda il gruppo scultoreo, si è provveduto a sostituire gli elementi più pesanti, con dei nuovi più congrui e leggeri, anche ai fini della stabilità, e a rimuovere i ferri di supporto delle statue, ormai arrugginiti, e a sostituirli con dei nuovi. Inoltre sono state eliminate le aggiunte in cemento e la scialbatura precedente, al fine di ripristinare lo stucco originale e conferire al gruppo i giusti effetti di profondità.

Sono stati ripristinati anche gli infissi in legno del primo piano, sui quali è stato rimosso lo smalto color grigio precedentemente applicato e restituitogli quindi la colorazione originale.

Nel bassorilievo si sta cercando di ottenere una differenziazione cromatica del piano di fondo rispetto alle parti in rilievo, al fine di conferire maggior leggibilità.

Particolare importanza ha rivestito il contesto storico nell'organizzazione dei ponteggi. Infatti il montaggio di quest'ultimi è stato piuttosto complicato, perchè trovandosi a meno di 50 metri da un'area archeologica, ha richiesto il rispetto di vari tipi di vincoli e norme per la tutela e la salvaguardia dei beni storici. Inoltre si è sottolineata l'importanza che ricopre il ruolo di coordinatore della sicurezza e quanto sia delicato e fondamentale questo tema nell'organizzazione di un cantiere. Era infatti necessario lasciare un'uscita di sicurezza dal basso, perciò l'ingresso al cantiere si può effettuare esclusivamente dalla terrazza. Inoltre è sorta la problematica di come portare i materiali e inserire una piccola betoniera nella quale realizzare l'intonaco con tinta di calce; questo avrebbe comportato un sovraccarico del solaio, e a questo proposito è stata realizzata una terrazza al primo piano per deporre la betoniera con un tunnel verticale di carico dal quale sarebbero stati portati ai piani superiori i materiali.

Trattandosi di un teatro comunale, i lavori sono stati supervisionati dalla Sopraintendenza comunale e statale; il committente è un privato, Mecenarte, e le spese vengono sovvenzionate dalla pubblicità. I ponteggi risultano infatti attualmente coperti da un telo pubblicitario.

Riguardo l'utilizzo della pubblicità come strumento per finanziare un'opera, se usata come mezzo idoneo, senza che sia permanente ed evitando qualsiasi deturpazione del paesaggio, ritengo possa essere un mezzo utile ed efficace, che permette la manutenzione e la conservazione degli edifici storici, come in questo caso del Teatro Argentina.

 

 

 

Considerazioni sulla visita alla Villa Capo di Bove

 

Nel gennaio 2002 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, su proposta della Soprintendenza Archeologica di Roma, ha acquistato, con diritto di prelazione, la proprietà della Villa Capo di Bove di via Appia antica.

La rilevanza archeologica del sito, un’area verde di circa 8500 mq, era già nota per la presenza di resti di un antico impianto termale. Tra il 2003 e il 2005 diverse campagne di scavo archeologico hanno portato alla luce un complesso termale la cui prima fase costruttiva è attestata alla metà del II secolo d.C.
Non si sa con certezza chi fossero i proprietari e per quale funzione l'impianto fu realzzato. Vi sono per lo più due ipotesi: la prima sostiene che fosse il bagno di un collegium o di una qualche corporazione associativa con finalità cultuali o funerarie; la seconda invece ritiene che l’impianto possa aver fatto parte dei vasti possedimenti che Erode Attico e la moglie Annia Regilla avevano nella zona proprio nella metà del II secolo d.C. 

A partire dal dopoguerra numerose acquisizioni hanno portato al recupero della villa non senza trasformazioni radicali. Negli anni '50 del Novecento una famiglia di mercanti ortofrutticoli, i Romagnoli, acquistarono e trasformarono ad uso residenziale l'impianto. Da quel momento la villa entrò in una dinamica di acquisizioni da parte di una committenza, con ingenti capacità economiche, bramosa di avere la propria residenza in uno dei più prestigiosi cuori verdi della città. Nel '62 il produttore cinematografico Sauro Streccioni acquistò la villa e ne promosse il recupero: un'opera incentrata sulla tecnica dello spolia dal tipico gusto antiquario caratteristico dell'epoca probabilmente realizzata da un appartenente alla scuola di Busiri Vici. Dagli anni '80 i cosiddetti nuovi ricchi continueranno ad acquistare queste ville antiche non più spinti da un amore verso il luogo ma da una più materiale volontà di affermazione sociale.

Importanti lavori di ristrutturazione, ad opera degli architetti Stefano Cacciapaglia e Carlo Celia, hanno completamente ridisegnato il giardino della villa dove sono state piantumate nuove essenze arboree, hanno trasformato la dépendance in punto di accoglienza per i visitatori e, infine, hanno messo a norma l’edificio principale conducendo una vera e propria operazione di riscatto totale. Nel complesso la struttura è stata toccata il meno possibile, infatti all'esterno è ancora possibile apprezzare la facciata realizzata con reperti archeologici, gli spolia, e i resti dell'antica cisterna romana su cui sorge la villa. L'interno è stato invece oggetto di una maggiore ristrutturazione. Le pareti sono state volutamente intonacate di bianco per permettere una più facile lettura dell'architettura stessa, e le stanze riadattate per ospitare gli uffici della Soprintendenza, una sala conferenze e l'archivio in onore di Antonio Cederna, giornalista del Novecento italiano che si è battuto per la difesa dalla speculazione edilizia e si è impegnato a favore della costituzione del Parco dell'Appia Antica.

Considerazioni sulla visita alla Villa Capo di Bove ed al cantiere del Teatro Argentina

 

VILLA CAPO DI BOVE, Appia Antica

L’esempio della Villa di Capo di Bove è un perfetta testimonianza del susseguirsi di vicende che ha riguardato molte delle proprietà che affacciano sull’asse storico dell’Appia Antica. A differenza di altre, la villa è stata interessata da un’ultima fase di ‘riscatto’, grazie all’acquisizione da parte dello Stato che l’ha resa un bene pubblico fruibile.

La via Appia, iniziata dal console Appio Claudio nel IV secolo a.C., era uno dei maggiori assi di ingresso a Roma da sud e principale via di comunicazione verso l’Oriente: il diretto collegamento con il porto di Brindisi garantiva infatti l’apertura verso la Grecia ed il Mediterraneo. Il tratto della via consolare più vicino a Roma era caratterizzato dall’alternanza di vaste tenute agricole o residenziali e numerosi monumenti funerari, che per legge dovevano essere edificati oltre il limite sacro del Pomerio. La tenuta di Capo di Bove, così chiamata nel Medioevo in rimando ai bucrani del fregio del Mausoleo di Cecilia Metella, a partire dal II secolo d.C. rientrò nel Triopo di Erode Attico, un vasto latifondo di cui faceva parte anche un pagus, ossia un villaggio. Un casale era già presente all’inizio del ‘300, quando il cardinale Caetani acquistò il terreno con il rispettivo edificio. L’area, che nel corso dei secoli ha conosciuto numerosi passaggi di proprietà e conseguenti trasformazioni, ha avuto destinazione agricola fino alla metà del ‘900.

Negli anni ’50 del Novecento la proprietà venne acquistata da una famiglia di grossisti ortofrutticoli, i Romagnoli, che trasformarono il casale ad uso residenziale. Iniziò così una nuova fase per la tenuta, che rientrò nelle logiche di occupazione dei suoli tipiche di quegli anni, capeggiate da una committenza con elevata disponibilità economica. Un abusivismo che può essere definito consolidato, o addirittura illuminato, se contrapposto a quello speculativo; ma pur sempre abusivismo. L’immenso sviluppo dell’industria cinematografica, soprattutto a Roma, intensificò questo fenomeno. La via Appia vide una proliferazione di ville costruite da imprenditori e attori, desiderosi di avere la loro residenza privata in questa parte di città immersa nel verde. E fu così che nel ’62 un produttore cinematografico, Sauro Streccioni, comprò la villa di Capo di Bove: il progetto di recupero, probabilmente compiuto da un esponente della scuola di Busiri Vici, rientrava in quello stile antiquario a quei tempi così in voga nelle case dell’Appia.

Negli anni ’80 iniziò una nuova trasformazione della zona. Ai precedenti proprietari subentrarono i ‘nuovi ricchi’, che acquistarono le ville non più per amore del luogo ma per avere evidenza sociale. Con lo stesso spirito, alcuni anni più tardi, Streccioni tentò di vendere la sua residenza ad un nuovo acquirente, dichiarando un prezzo evidentemente troppo basso per essere un accordo esercitato nei termini della legalità. Un funzionario statale, venuto a conoscenza del prezzo stranamente esiguo, esercitò il diritto di prelazione sul bene vincolato, rendendo pubblica la villa e bloccando la frode in corso.

Dal 2002 sono iniziati i lavori tesi a valorizzare l’edificio e l’intera area da parte di un team della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, con a capo Rita Paris: un’operazione che è riuscita a trovare un equilibrio efficace tra la parte archeologica, naturalistica e di recupero architettonico.

A pochi metri dall’ingresso è stato parzialmente riportato alla luce un complesso termale, in origine più vasto, che si pensa sia stato costruito nel II secolo d.C. seguendo l’impianto di due precedenti edifici sepolcrali. Data la vicinanza con Roma, le terme non avevano funzione pubblica ma erano forse destinate ad una corporazione che frequentava la zona e, probabilmente, a coloro che si occupavano della gestione del territorio del Triopio di Erode Attico e degli edifici di culto in esso compresi. L’approvvigionamento idrico dell’impianto termale avveniva grazie a due cisterne, una delle quali è stata utilizzata per costruire il casale in epoca medievale.

Il giardino è stato ridisegnato da Massimo De Vico, che ha sostituito la simmetria che caratterizzava l’assetto precedente con un tracciato curvilineo, più adatto al gusto eclettico e pittoresco del luogo.

L’intervento sul casale è stato curato da Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia. I due architetti hanno cercato di mantenere quanto più possibile l’impianto della villa, operando gli adeguamenti necessari per rendere a norma l’edificio. All’esterno è stata rispettata l’apparecchiatura muraria: un caprice architettonico, in cui i resti in selce dell’antica cisterna sono stati reintegrati dalla muratura degli anni ’60, che rivisitava in termini moderni il concetto medievale dello ‘spolia’, unendo reperti antichi ad elementi costruttivi nuovi. L’interno è stato volutamente intonacato, previa documentazione dell’apparecchiatura romana ritrovata, per favorire al visitatore una corretta lettura dell’insieme.

L’edificio ospita dal 2008, oltre agli edifici della Soprintendenza, l’archivio di Antonio Cederna. Il noto archeologo e giornalista ha lottato durante la sua vita in difesa dei patrimoni artistici e paesaggistici, dedicando particolare attenzione alla tutela dell’Appia Antica e al progetto del Parco regionale. La scelta di collocare il suo archivio in un edificio rappresentativo di quei principi contro cui ha duramente combattuto in vita può sembrare a prima vista poco adeguata. Letta in una luce diversa, l’intera vicenda è però l’emblema della vittoria schiacciante dell’opera di risanamento morale da lui intrapresa contro una mentalità volta alla commercializzazione della storia e dei beni culturali: il riscatto di quei valori trova piena concretizzazione nel Parco dell’Appia e nella villa Capo di Bove, che da proprietà privata simbolo dell’abusivismo anni ’60 è diventata un contenitore di cultura illuminata.

 

TEATRO ARGENTINA, Restauro della facciata

Il Teatro Argentina è stato sottoposto nel tempo a molteplici trasformazioni: inaugurato nel 1732, rimase per quasi un secolo privo di facciata, costruita solo nel 1826 ad opera di P. Holl. Nel 1887 il teatro divenne comunale e l’anno successivo, grazie all’intervento di G. Ersoch, assunse l’aspetto attuale. Inizialmente il prospetto dell’edificio si caratterizzava per un’ampia pensilina, ormai demolita. I due ultimi interventi di restauro sono stati effettuati nel 1970 e nel 1993. In entrambi i casi sono state apportate modifiche incongrue alle quali si sta cercando di porre rimedio nei lavori in corso di esecuzione. 

Negli anni Settanta sono state effettuate operazioni di  adeguamento sismico, rimuovendo le capriate lignee per sostituirle con una struttura in cemento armato, ritenuta più resistente. Sul gruppo scultoreo di facciata si applicò una colletta cementizia, di spessore variabile dai 4 mm ai 5 cm, che modificò completamente il modellato originario. Negli anni Novanta la facciata era stata tinteggiata con coloriture a base di resina vinilica, che si è presto rivelata di scarsa durabilità. Il restauro attuale, curato dall’architetto Carlo Celia, si basa su uno studio filologico più attento ed è volto a ridonare alla facciata un aspetto corretto, dal punto di vista storico e materiale. Per questo motivo si è scelto di utilizzare intonaci a tinta di calce, in sostituzione dei precedenti sintetici. Si è quindi deciso di descialbare la superficie, per eliminare la coloritura del ’93 che non avrebbe favorito l’aderenza della nuova tinteggiatura. Descialbare una coloritura, come sostenuto dall’architetto, non è in generale un’operazione rispettosa della storia dell’edificio, in quanto cancella la stratificazione degli strati nel tempo. In questo caso però un tale intervento era necessario per non compromettere la buona riuscita del restauro. Sono ora in corso le prove di colore sia per i fondi color cortina che per le parti in finto bugnato, che verranno trattate con un tono travertino. Per quanto riguarda il gruppo scultoreo si sta intervenendo eliminando la colletta cementizia; nelle zone in cui l’asportazione potrebbe compromettere l’opera, è stato lasciato in opera il materiale a base di cemento e si sono attuate delle semplici integrazioni. La superficie in grassello e polvere di marmo sarà poi rifinita con una coloritura, che verrà decisa in relazione alle altre in un piano unitario di colore. L’applicazione del cemento è stata deleteria su più fronti: ha causato la formazione di sali all’interno dello stucco e fatto arrugginire le barre metalliche ottocentesche, di supporto al modellato.  Il ferro è stato quindi passivato, quando possibile, e negli altri casi rimosso e sostituito. Altri interventi riguardano gli infissi in legno del primo piano, gli unici ad essere rimasti originali. Gli elementi sono stati accuratamente liberati da uno smalto colorato, erroneamente applicato in passato, e rifiniti con una cera trasparente.

La conclusione dei lavori, iniziati a dicembre, è prevista a fine luglio.

Vista la particolare collocazione in pieno centro storico, grande importanza è stata posta al rispetto del contesto. Le scelte dell’ingegner Vicari, responsabile della sicurezza, sono state fondamentali. Uno dei primi problemi da affrontare è stata l’organizzazione dei ponteggi.  Si è scelto di rendere il cantiere accessibile solo dalla terrazza del teatro, garantendo per sicurezza una via di fuga dal basso. Altra difficoltà riguardava il deposito dei molti materiali e di una piccola betoniera, necessaria per ottenere l’intonaco con tinta a calce. E’ stata costruita una piccola terrazza per depositare la betoniera ed un cavedio di lavoro per trasportare volta per volta il materiale preparato.

Il restauro, supervisionato dalla Soprintendenza statale e comunale, è finanziato attraverso la pubblicità da un committente privato, Mecenarte. L’azienda, che coincide con l’impresa esecutrice dei lavori, si è proposta di sostenere completamente i costi, ricavando i proventi dalle inserzioni pubblicitarie poste sui teli a copertura dei ponteggi. Eventuali aumenti di costo, come quelli già causati dagli interventi relativi al gruppo statuario non prevedibili da una perizia da terra, saranno coperti dalla ditta, in virtù dell’impegno contrattuale. Questa scelta, che nel caso del Colosseo è stata ampiamente criticata, consentirà di eseguire i lavori in questo periodo di difficoltà economica del paese.

 

CONSIDERAZIONI SULLA VISITA ALLA VILLA CAPO DI BOVE SULL’APPIA ANTICA E AL CANTIERE DEL TEATRO ARGENTINA

 

Nelle ultime due settimane abbiamo visitato due edifici molto diversi per posizione, storia e funzione, che , però, rappresentano dei luoghi di grande interesse storico e culturale a Roma.

La villa Capo di Bove sull’Appia Antica è immersa nel parco archeologico più grande del mondo, attualmente comprende gli scavi di un impianto termale risalente al II secolo d.C. e la villa, che dal 2008, ospita l’archivio Antonio Cederna. Antonio Cederna è stato un giornalista, ambientalista, politico e intellettuale italiano, venuto a mancare nel 1996.Cederna si è dedicato alla denuncia sistematica dell'attività di rovina dei beni culturali e del territorio italiani, in un periodo di ripresa economica e di ricostruzione in cui erano sempre più grandi le minacce al patrimonio artistico, storico e paesaggistico italiano. Tra le sue battaglie, quella per la tutela dell'Appia Antica è stata presente durante tutta la sua esistenza: ad essa ha dedicato più di 140 articoli. Nel 1993 è stato nominato Presidente dell’Azienda Consortile per il Parco dell'Appia Antica, e si batte duramente perché il progetto del Parco possa decollare. La presenza dell’archivio Cederna nella Villa Capo di Bove potrebbe inizialmente risultare poco adeguata, ma se si analizza la storia e l’evoluzione di questo luogo, si comprende come, questa scelta, sia stata intelligente e rispecchi pienamente gli intenti che la lunga lotta di Cederna si era prefissata.

La proprietà del lotto della villa nel II secolo d.C., risale alla vasta tenuta agricola di Erode Attico, nel Medioevo diventa un fortilizio mantenendo le caratteristiche agricole, divenendo poi un bene Pontificio. Nel 1945 avviene il cambiamento della tenuta da uso agricolo ad uso residenziale. Streccioni, un famoso produttore cinematografico, compra la tenuta, commissionando un progetto di recupero, realizzando un casale con aspetto antico con il corpo scala impostato sulla cisterna dell’antico impianto termale e giardino con piscina. Negli anni 50 l’Appia Antica si presenta come uno scenario perfetto dove grandi imprenditori e personalità famose si costruiscono la propria villa, andando ad alterare quei luoghi e ad utilizzare i vari resti antichi come collezioni private o rivendendoli. La villa costruita in questi anni si presenta come un collage antico, la facciata presenta un ampio campionario di spolia provenienti, per la gran parte, dalle zone circostanti. Il gusto è molto sfarzoso e pacchiano, tipico di quegli anni e di quella specifica classe sociale, di cui possiamo, ancora oggi, avere qualche esempio in qualche elemento di arredo ancora presente, come le porte dei piani superiori.

Nel 2002 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, su proposta della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, ha acquistato la proprietà esercitando il diritto di prelazione sul bene vincolato. La villa era stata valutata 1 milione e 300 mila euro. Questa operazione è stata uno dei pochi casi in cui lo Stato si riappropria di un bene privato, avvia un progetto di recupero  e rende l’area aperta al pubblico. Nel 2002 si sono avviati i lavori di scavo sull’area archeologica che ha portato alla scoperta di un’impianto termale inedito, di proprietà privata ad uso, probabilmente, di un collegio sacerdotale. Attualmente, ci si è dedicati alla sistemazione dell’area archeologica, per rendere visitabili i resti ancora leggibili, interessante l’idea di riproporre l’idea di una pavimentazione in mosaico bicromo utilizzando sassolini bianchi e grigi e una pavimentazione in laterizio con sassolini color cotto. L’area archeologica era anche occultata dalla strada che dall’ingresso sulla Via Appia, proseguiva dritta fino all’ingresso della villa, è stato, di conseguenza, scelto di modificare il percorso verso la villa rendendolo serpeggiante, adattandolo alla struttura termale e agli alberi presenti nell’area e cambiando la percezione del lotto, che non risulta più stretto e lungo, ma molto più vasto e arioso.

Per quanto riguarda la villa stessa, il progetto è andato a ripristinare i vari ambienti e a modificare l’impianto esistente inserendo un elevatore per il collegamento con i piani superiori. Una scelta poco riuscita è stata la modifica degli infissi delle finestre. Gli infissi che originariamente erano in legno, oggi si presentano in un acciaio molto scuro che lega poco con lo stile della villa, evidenziato da un imprevisto in corso d’opera che ha portato alla realizzazione di cornici di infisso molto spesse ed esteticamente poco apprezzabili. Un appunto al progetto che è uscito fuori durante la nostra visita è stata l’assenza di pannelli esplicativi che spiegassero che sotto la villa fosse presente una cisterna romana, visibile nel prospetto esterno, poichè la muratura si appoggia sui resti dell’opera cementizia in scaglie di selce. Questo particolare non è, però, evidente per chi viene a visitare la villa e non ha le conoscenze adatte per motivare questa disomogeneità nella muratura. Ci è stato spiegato che questi pannelli esplicativi sono stati collocati nella ex depandance che oggi viene usata come punto ristoro, non sono quindi assenti, ma probabilmente mal collocati, poichè per chi entra direttamente nella villa non c’è la possibilità di leggere queste informazioni utili ad una visita corretta dell’edificio.

Per quanto riguarda la visita al cantiere del Teatro Argentina, essendo un cantiere ancora operativo ci è stato molto utile per poter comprendere e vedere di persona come è organizzato un lavoro di restauro per una facciata di un edificio del centro storico di Roma. Il teatro risale al 1732, ma la facciata viene realizzata quasi un secolo dopo. Il teatro era costruito originariamente tutto in legno, ad esclusione, solo delle mura e delle scale in muratura; la sala fu progettata con la forma a ferro di cavallo per soddisfare al meglio le necessità acustiche e visive.

Nella sua storia recente, il teatro ha subito due interventi di restauro, uno negli anni 70 e uno nel 1993. Con gli interventi portati avanti negli anni 70, invece di portare delle migliorie, si sono andate a peggiorare soprattutto le capacità di resistenza della struttura, sono, infatti, state rimosse le capriate in legno della copertura per motivi sismici, e si è aggiunto lungo il perimetro dell’edificio un cordolo in cemento armato. Questo tipo di interventi, molto in voga in quegli anni, avevano l’intento di portare le strutture a capacità resistenti maggiori, soprattutto per eventi sismici, la storia ci ha però dimostrato come molto spesso questi interventi abbiano creato grossi problemi a livello strutturale, peggiorando le capacità di resistenza della struttura. Nei restauri del 1993 si è intervenuto sulla facciata principale, andando a stendere un intonaco realizzato con resine acriliche, che hanno creato come una pellicola che non permetteva la traspirazione dell’intonaco e del muro, comportando problemi di lesioni e microfessurazioni. Per quanto riguarda il gruppo scultoreo posizionato a coronamento della facciata nella parte centrale, si erano realizzati delle reintegrazioni in cemento di alcuni elementi rovinati o mancanti e si è applicato un manto di calce cementizia su tutte le statue contenente una parte di polvere di marmo eccessiva, andando a omogeneizzare gli elementi e perdendo gli effetti di profondità tipici delle sculture. I restauri, che sono attualmente in corso d’opera, hanno come committenza l’impresa stessa che si occupa della realizzazione dei lavori e quindi da un privato, e sono comunque finanziati dalla pubblicità, i ponteggi sono, infatti, coperti da un telo con una stampa pubblicitaria. Un sacrificio che si può sopportare in vista di un lavoro che riporti questo teatro allo splendore che merita.Il fatto di trovarci nel centro storico presenta vari tipi di vincoli nell’affrontare un progetto di restauro di una facciata, si deve aggiungere, inoltre, che ci troviamo a meno di 50 m da un’area archeologica, e quindi si è ulteriormente soggetti a limitazioni normative per la tutela dei beni storici e culturali. L’attuale progetto, in linea con i principi di restauro compatibile e filologico, si è occupato di descialbare le integrazioni realizzate con resine acriliche e andare a rimuovere le aggiunte in cemento, alleggerendo il gruppo scultureo e ristendendo uno strato di intonaco a calce con una colorazione che non tendesse ad appiattire le figure scultoree. Per quanto riguarda, invece, il resto della facciata, si sono portate avanti varie indagini stratigrafiche per poter rintracciare la facies originaria del teatro. Nel tempo, infatti, la facciata era divenuta color ocra, con tonalità, mano a mano, sempre più scure. Attualmente si è cercato di ridare alle parti trattate a finto bugnato un color travertino, e si stanno cercando di fare varie prove di colore per le parti fondali. Un altro intervento interessante è stato il ripristino del color legno per gli infissi che nel tempo erano stati ricoperti di uno smalto color grigio.

Il poter toccare con mano un cantiere di questa importanza ci ha permesso di capire come si svolga il lavoro effettivo in un progetto di restauro, di poter colloquiare con i responsabili del progetto e anche con chi realizza ciò che il progetto prevede. Ci siamo inoltre resi conto, anche in questo caso, dell’importanza che riveste il responsabile della sicurezza del cantiere, che permette di svolgere il lavoro in situazioni e tempi migliori. Per ultimo, ma non meno importante, quanto sia essenziale che le varie figure professionali che lavorano allo stesso progetto, collaborino, coscienti delle proprie competenze, per ottenere un lavoro eccellente sotto tutti i punti di vista.

Visita Villa Capo di Bove e Visita al cantiere del Teatro Argentina

La proprietà "villa Capo di Bove", fu acquistata nel 2002 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, su proposta della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Roma. Essa si trova immersa nel Parco Archeologico dell' Appia Antica e nasce come abitazione privata negli anni 50 del Novecento: anni in cui Roma era investita dal fervore per l'intensa attività dell'industria cinematografica. Ed era proprio in questa parte della città che trovavano la loro residenza i più grandi esponenti del cinema internazionale.

Negli anni 80' il riflesso di quegli anni dorati, spinse alcuni commercianti, che arricchitesi, acquistarono ogni tipo di proprietà della zona, come fienili e rimesse, e le trasformarono in proprie abitazioni, affinchè queste potessero dimostrare la loro emancipazione sui gradini della scala sociale. Ancora oggi la Soprintendenza vigila su questo tipo di trasformazioni architettoniche.

Più grave è invece la situazione negli anni 90' in cui la zona venne minacciata da progetti di costruzione massiva di palazzine da parte di imprenditori edili, che riducevano il ruolo del Parco a semplice pertinenza per le abitazioni stesse: la cosiddetta "casa con parco".

Oggi il sito archeologico dell'Appia Antica è il più grande del mondo, tutelato da diversi organi competenti, tra cui l'Ente Parco dell'Appia Antica e la Soprintendenza per i Beni Archeologici.

E' proprio grazie all'intervento di questi Enti e alla vigilanza dello Stato su un atto di vendita non proprio a regola d'arte, se oggi la villa Capo di Bove è un bene pubblico tutelato e restituito alla cittadinanza.

Il sito ha un'area complessiva di 8500 mq. Subito dopo l'ingresso dalla strada principale, troviamo un impianto termale del II secolo d.C. di cui ancora non si è riusciti a stabilire l'appartenenza. Forse era legato a funzioni sacerdotali di tipo funerario relative alla vicina proprietà di Erode Attico: secondo alcune fonti, dopo aver ucciso sua moglie, Annia Regilla, con lo scopo di fugare i sospetti sulla sua colpevolezza, egli dedicò l'intera area alla defunta e alle funzioni funebri ad essa dedicate.

La sistemazione attuale dell'area e del giardino, si devono all'architetto De Vico, che arricchì lo spazio di una maggiore qualità visiva e spaziale.

Abbandonato l'impianto termale e attraversato un primo tratto di giardino, si giunge al casale degli anni 50' . Interessante è la caratteristica cortina muraria esterna costruita secondo la tecnica dello spolia che fa uso di materiali antichi, molti dei quali probabilmente recuperati dai monumenti romani che fiancheggiavano l’Appia.

La struttura ospita gli uffici della Soprintendenza, una sala conferenze e l'archivio Antonio Cederna, giornalista ed intellettuale che si battè strenuamente per la conservazione del sito dell'Appia Antica e paradossalmente contro la stessa tecnica dello spolia. Egli riteneva che questa rappresentasse, da parte del proprietario dell'abitazione, un' autocelebrazione del prestigio economico-sociale, utilizzando frammenti che devono invece ritenersi patrimonio della comunità, proclamando in tal modo la convinzione che la cultura è un bene pubblico di cui tutti devono poter avere diritto.

<<La lotta per la salvaguardia dei valori storico-naturali del nostro paese è la lotta stessa per l'affermazione della nostra dignità di cittadini, la lotta per il progresso e la coscienza civica contro la provocazione permanente di pochi privilegiati onnipotenti.>> Antonio Cederna

 

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Il teatro Argentina venne edificato nel 1732 dall'architetto Theodoli e inaugurato nello stesso anno, mentre la facciata, di cui si occupa il cantiere di restaro da noi visitato, è stata costruita in un momento successivo dall'architetto Ollo, nel 1832, coronata da un gruppo scultoreo che è da attribuirsi all'architetto Gioacchino Ersoch.

Essendo uno dei più importanti teatri presenti a Roma, ha subito molti interventi di restauro, che ne hanno mutato progressivamente la percezione cromatica e, in taluni episodi, anche plastica.

La facciata, infatti, aveva assunto nel tempo coloriture via via sempre più scure, assecondando l'usanza ottocentesca di rivestire gli edifici romani di un caratteristico "color del vecchio". Ma è con i restauri più recenti che la situazione va peggiorando: l'utilizzo del quarzo al posto dei materiali tradizionali a base di calce, e del cemento come rivestimento del gruppo scultoreo, hanno reso necessario l'intervento attuale ad opera dell'architetto Celia.

In primo luogo si è proceduto con il lavaggio della facciata e lo studio delle variazioni cromatiche possibili per il ripristino delle coloriture originali pur cercando di mantenere, ove queste si sono conservate in seguito alla descialbatura, piccole parti di colorazioni precedenti. Anche quando queste contrastano con la nuova colorazione adottata: a testimonianza della filosofia dell'architetto secondo cui si deve conservare in una certa misura anche il passaggio nel tempo di ciò che si intende restaurare.

E' la sensibilità e la cultura dell'architetto che opera a stabilire il limite entro cui ciò deve avvenire.

Di contro, infatti, il riempimento delle fessure tra una bugna e l'altra che caratterizzano le due ali laterali, è stato classificato dall'architetto come una superfetazione che mortifica le potenzialità espressive della facciata. Per cui non si è esitato a rimuovere lo strato di stucco, affinchè torni ad essere chiara la leggibilità del bugnato e la gerarchia delle superfici dalla strada.

Per quanto riguarda il gruppo scultoreo invece, allo stesso modo, si è proceduto ove possibile, con la rimozione dello strato cementizio e si è cercato di armonizzare le figure rimodellandole e scialbandole con acqua e calce del color del marmo.

Infine, è interessante notare la concertazione tra il responsabile alla sicurezza e il responsabile dei lavori di restauro, essenziale per un corretto svolgimento dei lavori, sia per ragioni di tipo economico che in termini di protezione della salute dei lavoratori.