blog di Martina Esposito

visita a villa capo di bove

Villa Capo di Bove è una villa situata lungo la via Appia antica divenuta proprietà del Ministero per i Beni e le Attività Culturali nel 2002, su proposta della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma.

All'interno dello spazio espositivo abbiamo potuto vedere, dati alla mano, le grandi trasformazioni, urbane e paesistiche, che si sono susseguite negli anni sul territorio limitrofo alla via Appia; questo infatti pur essendo un parco controllato da un ente apposito, data la sua grande estensione rimane molto spesso vittima di abusi. In assenza di un costante controllo infatti si sono susseguite sempre più edificazione abusive anche al bordo del grande parco dell'Appia Antica deturpando per sempre il paesaggio godibile, ad esempio, dalla stessa villa Capo di Bove.

 

La proprietà della Villa Capo di Bove fu acquisita dalla Stato che, esercitando il diritto di prelazione, la tolse dalla mano di privati che volevano lucrare su una sua finta compra-vendita, altro abuso che sarebbe stato commesso su questa parte di territorio romano.

Della villa si hanno anche notizie precedenti rispetto all'acquisizione del 2002:

negli anni '60 del novecento la villa apparteneva a dei rivenditori ortofrutticoli, la famiglia dei Romagnoli; successivamente fu comprata da un cinematografaro romano, Streccioni, che finanziò un progetto di recupero “antiquario” della villa secondo la tecnina dello “spolia” per cui furono utilizzati dei reperti archeologici provenienti dagli scavi; ultimo proprietario fu un certo Mora.

 

Dopo l'acquisizione dell'area da parte della Soprintendenza si intervenì sulla proprietà con interventi che mirassero ad esaltare e valorizzare gli aspetti storici, mentre furono eliminati quelli appartenenti alle più povera fase residenziale. A questo proposito fu eliminata la piscina che si trovava nel giardino retrostante e fu creato un impianto di fitodepurazione. Negli interni si lasciarono tutti quegli elementi dati dalle stratificazioni dovute al tempo come la colonna in marmo antico sotto la scala, la scala stessa, le porte.

Nell'area esterna si portarono alla luce i resti archeologici di un piccolo complesso di terme romane private risalenti al II secolo d.C. Questo fu possibile con la rimozione del viale alberato che inquadrava la villa posta nella parte retrostante del lotto rettangolare. Le terme, poste nella parte del lotto più prossima alla via Appia, erano forse ad uso di una corporazione o di un collegio che frequentava l'area. Il complesso termale si pensa fosse rimasto in uso fino al IV sec. secondo le tipologie murarie e i bolli rinvenuti durante la fase di scavo.

Oggi, dopo la sistemazione dell'area in maniera didattica, è possibile comprendere chiaramente come erano organizzati e realizzati i complessi termali romani. Si può vedere come gli ospiti del complesso si trovavano all'interno di un cammino che prevedeva il passaggio da ambienti freddi, frigidarium, ad ambienti più caldi, tepidarium, sudatio, caldarium. Gli ambienti freddi erano ambienti molto ampi e caratterizzati dalla presenza di vasche di acqua fredda in cui gli ospiti si immergevano completamente; gli ambienti caldi erano invece di minori dimensioni perché più numerosi; erano delle vere e proprie saune caratterizzate dalla loro essenza architettonica: infatti questi ambienti erano dotati di un pavimento sostenuto da suspensure sotto alle quali passava costantemente l'aria calda proveniente dai forni; sulle pareti erano poi incastonati i tubuli, terracotte cave entro cui avveniva il passaggio di aria calda; queste tecnologie garantivano il calore costante all'interno di questi ambienti. Tutti gli ambienti interni erano arricchiti da pavimentazioni musive. In questo sito se ne conservano alcune con dei pregiati disegni geometrici; negli ambienti in cui non sono state ritrovate le pavimentazioni originali la loro presenza è stata suggerita dall'immissione di tessere bianche e nere nell'area di ingombro della pavimentazione interna. In una porzione dello scavo è possibile ammirare anche l'impianto idraulico di cui i romani si servivano composto da tubuli circolari di raccordo, utilizzati entro le murature, e cappuccine che costituivano il vero e proprio impianto fognario.

VISITA AL CANTIERE DEL TEATRO DI LARGO ARGENTINA

La costruzione del teatro di Torre Argentina fu avviata nel 1730 dalla famiglia dei Cesarini, proprietari di molti altri edifici nella zona come ad esempio la torre del Bucardo, in origine Torre Argentina che diede il nome alla piazza, e il palazzo Cesarini, successivamente demolito per portare alla luce l'area sacra di largo Argentina. Il teatro fu costruito modificando edifici preesistenti, e questo comportò la demolizione di una torre e di parte degli edifici retrostanti la piazza; gli fu data una forma a ferro di cavallo per necessità acustiche ed in un primo momento la costruzione era in legno. La facciata fu realizzata solo un secolo dopo dall'architetto Ollo (1832). Il prospetto è composto da una parte centrale e da due ali. La parte basamentale presenta la stessa lavorazione a bugnato piatto per tutti e tre i corpi, mentre la parte superiore è liscia nel corpo centrale e lavorata a finte bugne nei corpi laterali. Il corpo centrale è impreziosito da un fregio finemente lavorato a bassorilievo posto sotto la cornice. Sopra la cornice si trova il testo “ALLE ARTI DI MELPOMENE, D'EUTERPE E DI TERSICORE”; infine il prospetto termina con il grande gruppo statuario.

L'inaugurazione del teatro si ebbe nel 1732 con la presentazione dell'opera della Berenice. Il teatro di Torre Argentina era il più importante teatro romano.

Come ci è stato descritto dall'Architetto Capo dei Lavori Celia, prima del loro intervento, diversi altri interventi si erano susseguiti sul prospetto del Teatro. Salendo sui ponteggi abbiamo potuto vedere, attraverso le stratigrafie, le varie tinte che nei secoli si erano appunto stratificate sulla base del prospetto composta di calce e pozzolana: la tinta originale era color del travertino; gli interventi del 1970 avevano ricoperto l'intonaco originale con una tinta color ocra; questa tinta la vediamo anche oggi utilizzata in molti altri edifici romani anch'essi “succubi” della moda che si diffuse a Roma tra Settecento ed Ottocento che vide l'affermarsi delle tinte scure, cosidette “color di patina”, a sfavore delle tinte color travertino o color cortina chiaro che avevano caratterizzato la Roma Cinque-seicentesca; negli interventi successivi del 1990, stando alle stratigrafie, almeno due, questa tinta venne man mano scurita, alterando quindi sempre più l'originale aspetto del teatro; intervento che non abbiamo potuto visionare dall'osservazione delle stratigrafie è stato quello del 1993 in cui si era applicata sull'intero prospetto una resina vinilica; per sua composizione questa aveva creato una pellicola sulla facciata che aveva reso impossibile la traspirazione dell'intonaco e del muro; ecco perché gli strati sottostanti di intonaco presentano microfessurazioni e lesioni superficiali. Con le operazioni suggerite dall'architetto Celia, ma anche grazie ad una ditta per così dire “illuminata”, è stato possibile eliminare completamente questo strato nocivo, anche se incontrando la resistenza delle istituzioni.

Ci è stato possibile toccare con mano i precedenti e gli attuali interventi anche sul gruppo statuario e sul ricchissimo fregio che corre nella parte centrale del prospetto. In queste parti ci è stato spiegato come interventi precedenti siano andati a sovrapporre a materiali naturali, come gli stucchi in polvere di marmo, materiali artificiali, collette cementizie, che oltre a modificare l'aspetto dell'opera, hanno comportato danni sia strutturali che di conservazione al materiale originale.

Dopo queste prime spiegazioni circa i precedenti interventi nonché le cause nocive che questi avevano provocato, ci sono state illustrate le operazioni previste per riportare il prospetto del teatro Argentina “all'antico splendore”. Per quanto riguarda gli intonaci l'architetto Celia ci ha mostrato vari campioni di tinte a calce che sono stati fatti sul prospetto in modo da poter vedere preventivamente l'aspetto finale che l'intonaco asciutto assumerà. Semplificando l'intonaco sarà composto da una base di tinta a calce a cui verranno sovrapposte una o più mani di velature. La tinta a calce, composta da grassello di calce e terre, oltre che fare da base per le tinte successive, ha il compito di andare a riempire tutte le fessurazioni presenti sulla base d'intonaco; questa infatti per sua natura, essendo a base di calce, ha buone proprietà riempitive e ottime proprietà aggreganti: tende cioè, con l'avanzare dell'asciugatura, a diventare un tutt'uno con la base. Abbiamo visto come siano state utilizzate due tonalità: una grigio-violacea, l'altra più chiara; questa differente colorazione provocherà un risultato diverso con la sovrapposizione delle velature composte da acqua e terre.

Il gruppo statuario è stato invece oggetto di interventi di asportazione di materiale incongruo, quale colle cementizie, che ha alterato per sempre le forme dell'oggetto. Purtroppo non è stato possibile eliminare completamente queste colle in quanto a contatto diretto con il materiale originale, ma si è operato in modo da prevenire ulteriore danni al materiale originale. Anche in questo caso i successivi interventi prevedono una scialbatura a base di calce e polvere di marmo botticino, marmo bianco simile al travertino, che riporti il gruppo all'immagine originale. Stesso intervento è previsto per il fregio che, in parte occultato da uno strato di colla cementizia, è stato liberato e verrà scialbato in base a piccoli lacerti di intonaco originale rinvenuti con la pulitura.

Per quanto mi riguarda condivido quanto previsto e quanto è già stato fatto in questi interventi, sperando che altri verranno guidati ed eseguiti dalla stessa consapevolezza e capacità.

 

 

BOZZA TESINA PALAZZO ALTEMPS - ANGELONE, ESPOSITO modulo di estimo-lab. 3M restauro

LE CONSITENZE (interventi con colla alla genovese)

 

PROSPETTO VIA DI SANT'APOLLINARE / FRONTE DI PIAZZA SANT'APOLLINARE

superficie totale= 1085,7 mq

 

infissi: 1° p.= 2,4x6= 14,4 mq

+ 0.75x3= 2,25 mq

+ 2,27 + 2 + 2 = 6,27 mq

+ 2,36 + 7,37 + 7,14 + 7,35 = 24,22 mq

2° p.= 5x10 = 50 mq

3° p.= 1,74x10 = 17,4 mq

portale = 15 mq

altana = 9,2 mq

SUPERFICIE TOT. INFISSI = 138,74 mq

 

cornici in travertino infissi: 1° p.= 2x6 = 12 mq

1,58x3 = 4,74 mq

1,44x3 = 4,32 mq

+ 1,43x3 = 4,29 + 2 + 1,9 + 1,95 = 10,14 mq

2° p.= 2,3x10 = 23 mq

3° p.= 2,63x10 = 26,3 mq

 

portale = 20,06 mq

SUPERFICIE TOT. CORNICI = 100,56 mq

 

marcapiani e cornici in travertino 45,6 + 17,6 + 25 = 88,2 mq

cantonali in travertino 22,1x3 = 66,3 mq

basamento in travertino 15,18 mq

altana in stucco 68,7 mq

SUP. TOT. = 238,38 mq

 

SUPERFICI TOT. INTONACATE = 1085,7- (138,74+100,56+238,38) = 608,02 mq

SUPERFICIE TOT. IN TRAVERTINO = 100,56 + 88,2 + 66,3 + 15,18 = 270,24 mq

SUPERFICIE TOT. IN STUCCO = 68,7 mq

PROSPETTO PIAZZA SANT'APOLLINARE / VIA DEI GIGLI D'ORO

superficie totale = 630,77 mq

 

infissi: 1° p.= 2,06x2= 4,12 mq + 2,48 = 6,6 mq

+ 1,36x3= 4,08 mq

+ 8 + 8 + 7,60 + 7,70 = 31,3 mq

+0,72 + 1,8 = 2,52 mq

2° p.= 5x6 = 30 mq

3° p.= 1,74x6= 10,44 mq

sopraelevazioni = 1,97*2 = 3,94 mq + 1,4*3 = 4,2 mq = 8,14 mq

altana = 18,4 mq

SUPERFICIE TOT. INFISSI = 111,48 mq

 

cornici in travertino infissi: 1° p.= 2,98 + 1,2 + 3,36 = 7,78 mq

+ 2,02*2 + 1,84 + 1,96 = 7,84

+ 2,15*2 = 4,3 mq

 

2° p.= 2,3x6 = 13,8 mq

3° p.= 2,63x6= 15,78 mq

SUPERFICIE TOT. CORNICI = 49,5 mq

 

marcapiani e cornici in travertino 19,72 + 10,5 + 12,5 = 42,72 mq

cantonali in travertino 22,1x2 = 44,2mq

basamento in travertino 5,81 mq

altana in stucco 75,42 mq

SUP. TOT. = 168,15 mq

 

SUPERFICI TOT. INTONACATE = 630,77- (111,48+49,5+168,15) = 301,64 mq

SUPERFICIE TOT. IN TRAVERTINO = 49,5 + 42,72 + 44,2 +5,81 = 142,23 mq

SUPERFICIE TOT. IN STUCCO = 75,42 mq

 

 

 

 

PROSPETTO VIA DEI SOLDATI

superficie totale= 207,12 mq

 

infissi: 1° p.= 0,7+ 10,3= 11 mq

2° p.= 5 mq

3° p.= 1,74 mq

altana = 7,13*2= 14,26 mq

SUP. TOT. = 32 mq

 

cornici in travertino infissi: 1° p.= 0 mq

2° p.= 2,3 mq

3° p.= 2,63 mq

SUP TOT = 4,93 mq

 

marcapiani e cornici in travertino 6,58 + 2,34 + 3,14 = 12,06 mq

cantonali in travertino 22,1 mq

altana in stucco 61,69 mq

SUP. TOT. = 95,85 mq

 

SUPERFICI TOT. INTONACATE = 207,12- (32+4,93+95,85) = 74,34 mq

SUPERFICIE TOT. IN TRAVERTINO = 4,93 + 12,06 + 22,1 = 39,9mq

SUPERFICIE TOT. IN STUCCO = 61,69 mq

 

 

 

ANALISI QUALITATIVA

 

Per l'intervento è previsto l'uso di materiali compatibili con quelli in opera, proseguendo quello che già è stato fatto con il precedente restauro. I tre prospetti principali saranno ricoperti con un impasto di calce e sabbia bianca, noto con il nome di “colla”, la cui superficie verrà poi lavorata alla maniera genovese, ossia “infrascata”. Verrà utilizzata questa tecnica così come descritto all'interno dei documenti di cantiere per mettere in accordo, storico e filologico, gli interventi all'interno del cortile maggiore, portati a termine dal precedente restauro, e l'aspetto esterno del palazzo.

Per la messa in opera di tale finitura si utilizzerà una manodopera esperta e specializzata. Importante sarà la presenza di un tecnico-restauratore dei beni culturali per la supervisione di ogni intervento proposto.

 

RELAZIONE TECNICA

 

Palazzo Altemps è stato recentemente oggetto di un grande cantiere di restauro durato circa diciotto anni, dal 1982 al 2000. L'aspetto derivante da tali interventi è nettamente diverso tra i prospetti esterni ed i prospetti del cortile interno. Mentre per il cortile è chiara la volontà di restituire il rivestimento del periodo “monumentale” del palazzo, per gli esterni non è stata seguita questa strada. All'esterno infatti il grande nucleo del palazzo appare frammentato a causa delle molteplici tinte adottate per i rivestimenti. Analizzando le fonti storiche ed iconografiche inoltre risulta evidente come non si sia perseguito un obiettivo.

Il progetto di restauro intende restituire unitarietà storica e filologica a palazzo Altemps esaltandone così la valenza architettonica ed artistica. A seguito di ricerche archivistiche ed analisi delle fonti iconografiche si è deciso di intervenire quindi con il rifacimento degli intonaci esterni riproponendo il rivestimento del palazzo in “colla rasciata alla genovese” sui fronti edificati al tempo della proprietà Altemps, così come se ne parla all'interno dei conti di cantiere; sui restanti prospetti, in mancanza di una documentazione di cantiere specifica, si propone un rivestimento in colla brodata di color travertino così come si utilizzava all'epoca in molti altri casi romani. In questo modo, oltre a restituire un'immagine storicamente corretta dell'edificio, gli si ridonerebbe l'unitarietà che gli è stata negata con gli ultimi interventi di restauro.

 

ANALISI DEL DEGRADO

 

Visti i recenti interventi di restauro l'edificio si presenta in buono stato di conservazione. Si propongono operazioni di pulitura superficiale del travertino e degli stucchi così da preservare l'efficacia dei recenti interventi.

 

CONSISTENZE (interventi in colla alla genovese)

 

Prospetto via di S.Apollinare e P.zza S.Apollinare

SUPERFICIE TOT. INTONACO = 608,02 mq

SUPERFICIE TOT. IN TRAVERTINO = 270,24 mq

SUPERFICIE TOT. IN STUCCO = 68,7 mq

Prospetto P.zza S.Apollinare e via dei Gigli d'Oro

SUPERFICIE TOT. INTONACO = 301,64 mq

SUPERFICIE TOT. IN TRAVERTINO = 142,23 mq

SUPERFICIE TOT. IN STUCCO = 75,42 mq

Prospetto via dei Soldati

SUPERFICIE TOT. INTONACO = 74,34 mq

SUPERFICIE TOT. IN TRAVERTINO = 39,9mq

SUPERFICIE TOT. IN STUCCO = 61,69 mq

 

SUPERFICI INTONACO = 984

SUPERFICI TRAVERTINO = 452,37

SUPERFICI STUCCO = 205, 81

 

OPERAZIONI

 

Visti i recenti interventi di restauro si prevedono semplici operazioni di pulitura non invasiva per le parti in pietra e per le parti in stucco.

 

Per le parti intonacate:

  • operazioni di asportazione dei rivestimenti ritenuti incongrui

  • operazioni di pulitura di tutte le superfici

  • messa in opera dello strato di arriccio

  • messa in opera della finitura in colla rasciata alla genovese

    Per le parti in pietra:

  • rimozione croste nere

  • impacchi desalinizzanti

  • operazioni di pulitura superficiale

  • operazioni di protezione

    Per le parti in stucco:

  • operazioni di parziali asportazioni dei rivestimenti ritenuti incongrui (altana)

  • rifacimento dei rivestimenti in stucco

  • operazioni di pulitura superficiale a secco

  • operazioni di stuccature se necessarie

  • operazioni di protezione

Considerazioni sulla lezione odierna

Riflettendo sul concetto di permanenza all'interno della città di Roma mi sono resa conto di quanti siano i segni lasciati dal passato sul contesto urbano romano, ma di come nei secoli si siano perse le ragioni, le cause che li hanno determinati; per citarne uno per tutti, del quale io stessa ero all'oscuro pur avendo studiato più e più volte palazzo Massimo alle Colonne, la curvatura del prospetto di questo edificio dovuta all'Odeon romano. Numerosi sono questi casi a Roma, città nata dalla e sulle rovine. E' forse per questa forte presenza e questo inevitabile attaccamento all'antico che nella città eterna è ancora difficile pensare, o meglio accettare, la commistione tra antico e moderno.

 

Guardando alcune opere di Linazasoro e Zumpthor ho potuto vedere come la presenza dell'antichità, della storia, di un monumento non precluda affatto la presenza della modernità. Anzi, a mio avviso, con i dovuti limiti, come si dice che il vuoto fa leggere meglio il pieno, così la “nuda” modernità fa risaltare l'antico.

Esempio che più di tutti ha provocato in me una forte reazione è l'intervento di Zumthor al Museo Diocesano di Kolumba. Zumthor sembra incastonare le poche rovine dell'antica cattedrale all'interno della sua opera così da evitarne il decadimento e garantirne quindi la sopravvivenza. Inevitabile, e sicuramente voluto, è il forte contrasto tra le membrature e i grandi conci dell'apparato murario dell'architettura gotica e la geometria pura di colore chiaro della nuova architettura. Questo contrasto viene poi esaltato all'interno del museo dove sono contenuti dei reperti archeologici romani.

Ma questa operazione di protezione e conservazione di reperti archeologici non può essere direttamente essere relazionata con l'intervento di Meyer a Roma per l'Ara Pacis? Anche questo intervento, che tanto ha fatto parlare, ha come fine quello di garantire la sopravvivenza dell'opera e la sua fruizione da parte dei visitatori, contrapponendo volumi puri e monocromatici a superfici più elaborate come sono quelle marmoree dell'altare augusteo.

 

Altro progetto che ritengo interessante è il Centro Culturale degli Scolopi realizzato da Linazosoro a Madrid. Come accaduto a Zumpthor, anche Linazosoro si è dovuto confrontare con una permanenza storica, ossia le rovine della vecchia scuola dell'ordine degli Scolopi distrutta durante la guerra civile. Per fare un confronto tra i due interventi ritengo che nel secondo caso ci sia stato maggiore rispetto per l'edificio antico che si è visto “solo” affiancare o reintegrare da nuovi corpi, e non sovrastare da essi. (bisogna dire per onestà che comunque la consistenza delle rovine “a disposizione” di Linazosoro era maggiore rispetto al caso di Zumthor, più adatta quindi ad una integrazione piuttosto che ad una ricostruzione). Negli spazi che ora accolgono la nuova biblioteca infatti gli interventi si sono limitati agli arredamenti e alla nuova copertura; interessante è la soluzione adottata: non sono state ricostruite le vere coperture o i veri ambienti, ma attraverso un materiale diverso, quale il legno, sono state riproposte le forme spaziali così da poter suggerire al fruitore l'architettura antica.

 

Di forte impatto visivo ma sopratutto concettuale è il suo intervento alla Chiesa di San Lorenzo a Madrid. Unica testimonianza della chiesa rinascimentale distrutta nel 1940 è il portale d'ingresso rimasto illeso dopo il crollo. Nel progetto di ricostruzione redatto da Linazasoro il portale assolve ancora alla sua funzione d'ingresso principale alla chiesa di S. Lorenzo, ma rimane come unica presenza dell'antichità. La nuova costruzione infatti si distacca sia fisicamente (il portale è solo anteposto al nuovo corpo) sia concettualmente dall'antica chiesa: il nuovo edificio è un volume chiaramente moderno, che modifica profondamente i concetti di fruizione spaziale tipici del rinascimento; l'ingresso all'edificio sacro avviene fuori asse e lo spazio interno è suddiviso in volumi di dimensioni diverse, che susseguendosi, portano all'altare. Nel complesso appare come un'architettura austera che a mio avviso poco ha in comune con l'architettura rinascimentale.

 

Questi interventi mi fanno riflettere su quanto si possa fare nel nostro paese, primo per patrimonio artistico, storico e culturale, ma ultimo o quasi rispetto gli interventi effettuati in favore della conservazione, della valorizzazione e del restauro.

Riflessione sulle diverse metodologie di intervento

Abbiamo visto durante i nostri studi e durante la scorsa lezione del prof. Passeri, come si sia intervenuto nel sito archeologico di Cnosso (il più importante sito archeologico dell’età del bronzo di Creta). Gli interventi condotti dall’archeologo Sir Arthur Evans agli inizi del 1900 furono interventi di tipo non conservativo e non scientifico, ma piuttosto di tipo “romantico”: ricostruire l’immagine del palazzo, secondo una visione del tutto personale e con materiali estranei alla tradizione minoica, per rendere il sito leggibile ai visitatori.

Materiale principe di questi interventi fu il cemento armato. Se pur oggi ciò ci appare un intervento del tutto errato, inconcepibile ed incondivisibile, non ci possiamo stupire in fondo della scelta fatta da Evans in quanto fino a pochi anni fa il cemento veniva considerato il nuovo materiale da costruzione per eccellenza. Sulla scia di queste considerazioni possiamo inoltre citare le innumerevoli Carte del Restauro, o simili, che a partire proprio dal Novecento furono redatte per dare un codice di comportamento a coloro i quali dovevano operare sul contesto storico da restaurare. Una delle prime carte in cui erano trascritte le “regole del comportamento” fu la Carta di Atene (1931), all’interno della quale ritroviamo questa disposizione: “approvato l’impiego giudizioso di tutte le risorse della tecnica moderna, e più specialmente del cemento armato”. Proseguendo all’interno della Carta italiana del restauro (1932) si incoraggia l’uso delle nuove tecnologie come quella basata sull’uso del cemento armato. Con tali premesse non possiamo stupirci del fatto che Evans abbia scelto questo materiale per i suoi interventi, come non possiamo stupirci del fatto che il “nuovo” campanile in piazza San Marco, ricostruito dopo il crollo (1912), abbia una struttura interamente in cemento armato, o di come Balanos nei suoi interventi al Partenone abbia reintegrato pesantemente colonne e trabeazioni con il cemento armato (1920), o ancora di come Muñoz abbia utilizzato questo nuovo materiale per il restauro di un monumento molto vicino alla nostra facoltà come è il Portico degli Dei Consenti al Foro Romano.

D’ altra parte è da relativamente poco tempo che i restauratori, gli architetti, gli archeologi, nonostante le differenze di pensiero sulle modalità di operare sul campo (restauro filologico – restauro critico), siano più attenti alle operazioni da eseguire in un caso di restauro di un bene archeologico o monumentale. Di questo si ebbero i primi sentori già nel 1972 quando, all’interno della Carta del restauro, si iniziò a parlare di “reversibilità” nell’intervento di restauro, così da salvaguardare e rendere possibile qualsiasi intervento successivo. Nella Carta della Conservazione e del restauro degli oggetti d’arte e cultura (1987) redatta con la coordinazione di P. Marconi, si evidenzia come l’esperienza abbia reso noto quanto invasivi, poco duraturi e irreversibili siano gli interventi con materiali moderni quali cemento armato , acciaio, resine.

Prova di questo cambio di pensiero sono tutti gli interventi successivi a questa “moda” che vedono l’uso di materiali congrui con l’edificio storico e con la tradizione cui esso appartiene. Per riprendere un caso in precedenza citato per interventi incongrui ed invasivi, quale il Partenone, negli ultimi interventi di restauro notiamo un forte cambio di rotta, dovuto all’adesione delle nuove idee di rispetto e conservazione della forma e del materiale dell’oggetto storico da parte degli operatori. Nonostante le polemiche e i dibattiti, sostenuti anche in aula, rispetto a questi interventi, mi vedo favorevole rispetto questo modo di operare; ritengo che il ripristino del monumento con l’uso del materiale originale distinto solo nelle forme (mancanza di scanalature nelle colonne o di decorazioni nelle trabeazioni ecc.) sia il risultato più giusto in questo contesto tra tutte le possibili soluzioni adottabili. Guardando al passato inoltre, seppur non come risultato di una scelta critica, questo tipo di intervento era stato già realizzato proprio nel Foro Romano, sull'Arco di Tito. Mi sento di sottolineare che attualmente, almeno per quanto mi riguarda, andando a visitare questo monumento non mi sento affatto disturbata dall'intervento di restauro condotto da Valadier, ma anzi mi rendo conto che senza quell'intervento io oggi non potrei fruire di tale opera. Penso quindi che ciò può considerarsi valido anche per il sito archeologico dell'Acropoli di Atene; unica nota che penso si possa obiettare per il momento sta nel fatto dell'attuale impatto visivo degli elementi di anastilosi; certo è che così come è accaduto al Foro anche ad Atene il loro impatto andrà via via a diminuire fino a scomparire.

Diversa è la sorte di molte altre opere di restauro che purtroppo lasceranno per sempre il loro segno sull'oggetto di intervento. Uno tra questi è la Casa delle Armi di Moretti presentataci nella lezione dello scorso venerdì. Come detto dal prof. Passeri questa architettura realizzata tra le due guerre è stata totalmente negata con i successivi interventi di trasformazione che ne hanno cancellato ogni tratto originario. Con questo esempio, oltre a ribadire l'uso errato dei nuovi materiali nelle operazioni di trasformazione negli edifici storici, si ripercorre il problema centrale della scorsa consegna, ossia l'importanza delle scelte effettuate dalle Soprintendenze per quanto riguarda le trasformazioni da attuare in questi edifici. Ritengo che non si posso parlare di restauro di un edificio storico nel momento in cui questo venga privato delle sue caratteristiche spaziali e formali principali, piuttosto si tratta di una profonda ristrutturazione che dell'edificio storico lascia solo l'involucro, l'immagine esterna. Purtroppo oggi nulla possiamo fare per rimediare a questo tipo di interventi.

Demolire? Non so rispondere a questa domanda; nonostante tutto anche se profondamente trasformate qualcosa di queste architetture è ancora lì, visibile.

Ripristinare? Anche se queste architetture fossero riportate al loro stato originario certo è che non sarebbero le architetture originali e si potrebbe parlare di un falso storico.

E chi investirebbe per tali opere? Quanto sarebbe disposto a pagare? Difficile dirlo. Sicuramente tutti siamo d'accordo sul fatto di proteggere, conservare e rendere fruibili i monumenti del nostro patrimonio ma, seppur essi siano beni inestimabili e tale dovrebbe essere il valore della loro conservazione, a che prezzo? Credo che nessuno abbia una risposta univoca ma che questa cambi a seconda del caso che ci si trovi davanti.

Prime impressioni di fattibilità: i casi di palazzo Massimo alle Terme e della palazzina di Libera a Ostia

I due progetti analizzati fino a questo momento prendono in esame due realtà tra loro molto diverse ma che progettualmente e dal punto di vista della realizzazione, affrontano le stesse problematiche dal punto di vista tecnico e dal punto di vista economico.

Si può dire che dal punto di vista strettamente progettuale il caso della rifunzionalizzazione del Palazzo Massimo alle Terme ha comportato molte modifiche alla struttura originale: costruito come sede di un collegio, fu adibito a sede del Museo Nazionale Romano, come accadde per palazzo Altemps, le Terme di Diocleziano o la Crypta Balbi. Questo cambio d'uso ha provocato irrimediabilmente degli adattamenti necessari per adempire alle richieste delle normative vigenti per gli edifici di uso pubblico.

Oggi questo palazzo appare nelle sue fattezze originali nella facciata principale neo-rinascimentale, totalmente intatta, ma mostra i segni degli interventi nel prospetto posteriore su cui si è malamente “attaccata” una scala antincendio in acciaio.

I segni delle trasformazioni avvenute sono visibili anche all'interno sopratutto nella scansione verticale dei piani. Come ci è stato descritto dallo stesso architetto incaricato dei lavori infatti, negli interni si è molto lavorato per curare un allestimento congruo per le opere esposte ma che al contempo garantisse la sicurezza all'interno del museo. Per fare questo si è inevitabilmente mascherata parzialmente la vera natura delle sale interne che in parte appaiono ridotte e ribassate. Certo è che in alcune sale, come ad esempio la sala del teatro, si è cercato di far rimanere intatta e visibile la funzione originaria dello spazio.

Seppure l'esito risulta molto gradevole e ben fatto dal punto di vista espositivo e dal punto di vista della fruizione delle opere esposte, mi sento di dire che affrontando una rifunzionalizzazione di un edificio storico di tale pregio e importanza (edificio ottocentesco costruito sui terreni dapprima di Sisto IV, poi del Card. Montaldo-Peretti), si dovrebbe rispettare maggiormente l'immagine e la struttura, anche intesa come successione spaziale, dell'opera su cui si va ad operare.

Naturalmente essendo un progetto temporalmente posteriore ad un altro, mi rendo conto che intervenendo su un opera già rimaneggiata i progettisti abbiano dovuto confrontarsi con modifiche e stravolgimenti planimetrici e spaziali attuati dai precedenti interventi.

Detto questo vorrei risalire per così dire “a monte del problema”: vorrei sottolineare il fatto che tali interventi dovrebbe essere curati con maggior diligenza dalla stessa Soprintendenza, ossia dovrebbe essere messa maggior cura o maggiori vincoli sugli edifici destinati a tali funzioni per evitare che si attuino trasformazioni irreversibili su edifici storici o di particolare pregio. Si dovrebbero destinare quindi funzioni congrue a congrui edifici o viceversa.

Ritengo che parte di questo stesso problema sia alla base delle difficoltà riscontrate agli inizi del progetto di restauro per la palazzina di Libera: ritenuto edificio di pregio storico e artistico, universalmente noto e visitato da turisti, presente su molti se non tutti i libri di architettura moderna, non può essere finanziato dalla Sovrintendenza nel suo necessario, se non vitale, intervento di restauro perché non sottoposto a nessun vincolo di tutela.

Come ci ha ampiamente spiegato l'architetto Rinaldi quello attuato sulla palazzina di Libera è un progetto di restauro che mira alla conservazione della memoria di un “pezzo” di architettura storica, per molto tempo dimenticata e resa, al momento degli interventi, irriconoscibile. Prima degli interventi sono stati condotti saggi e ricerche al fine di trovare risposte circa l'aspetto originario di questa architettura e le successive modifiche che questa aveva subito.

Ritengo questo punto notevolmente importante in quanto se problema principale era quello di diminuire e contenere il più possibile i costi, indagini conoscitive attente rendono meno probabili errori deleteri in tempi successivi ai costi complessivi.

Il progetto di restauro penso sia totalmente rispettoso del progetto di Libera in quanto, come ci è stato illustrato a lezione, nonostante le difficoltà si è cercato di riproporre dettagli e caratteristiche perché figlie di un determinato modo di pensare all'architettura.