ripristino

Riflessioni sulle ultime due lezioni di estimo: il Foro Italico ed il Recupero architettonico

 

L'ex Foro Mussolini, oggi Foro Italico, vasto complesso di edifici e impianti sportivi, nasce nel 1928, inizialmente su idea di Enrico Del Debbio e in seguito di Luigi Moretti.

Situato sulle pendici di Monte Mario, rappresenta uno dei principali interventi a scala urbana del regime fascista, significativo per l'intento di riunire attività sportiva e formazione ideologica.

Nella realizzazione di questo grandioso complesso, lo Stato intervenì in prima persona, finanziandolo interamente.

Le diverse costruzioni testimoniano l'oscillare della cultura architettonica del periodo tra classicismo stilizzato e deciso razionalismo, volti a rappresentare il monumentalismo e la forte identità propri del regime fascista.

Il progetto di Enrico Del Debbio si caratterizzava per la particolare attenzione al rispetto ambientale, secondo il criterio ellenistico, che seguiva l'orografia del terreno, a differenza del criterio romano che privilegiava l'elevazione delle murature. Tale progetto comprende lo Stadio Dei Marmi, l'Accademia di Educazione fisica, il Monolite Mussolini e lo Stadio dei Cipressi. Quest'ultimo, seppur non realizzato, era un'opera di forte impianto naturalistico e sfruttava appunto le depressioni del terreno. Lo Stadio Olimpico, nato appunto come Stadio dei Cipressi, sarà realizzato sino al primo anello murario ed inaugurato nel 1932. Nel 1952 lo Stadio venne riprogettato sulla base già realizzata dello Stadio dei Cipressi da Annibale Vitellozzi con una capienza di 80.000 posti. Nel 1990, in occasione del campionato di mondo di calcio, venne adeguata la capienza aumentandone le gradinate e inserendone una struttura reticolare ad anello. Intervento a mio parere incongruo, che con l'inserimento di piloni alti 14 metri, ha arrecato indubbio danno all'insieme ambientale e monumentale.

Lo Stadio dei Marmi anch'esso sfrutta il dislivello per allestire il campo e la pista. Il riferimento è allo stadio greco e all'architettura classica: gradinate perimetrali in marmo assieme alla presenza di sessanta statue di marmo rappresentanti tutte le provincie di Italia. Questo impianto, che rappresentò lo scenario del regime, oggi purtroppo viene deturpato con eventi incongrui. A partire dagli anni '80, infatti, diventando un luogo di pubblicità, iniziò a subire diverse degenerazioni d'uso: inizialmente ospitava un campo di calcio, diventò successivamente una sorta di pista per le motociclette, fino a diventare una pista da sci.

E' assurdo pensare che un impianto di così notevole importanza storica e architettonica possa essere così deturpato oggigiorno.

Ma l'opera più emblematica di questo grandioso complesso è senza dubbio la Casa delle Armi, realizzata da Luigi Moretti nel 1933. Moretti è uno dei maggiori architetti che operano durante il ventennio fascista, sarà però colpito dopo la guerra da una sorta di damnatio memoriae, in seguito rimossa a partire dagli anni '80 con l'inizio di una nuova stagione di interesse.

La Casa delle Armi è composta di due volumi ortogonali, la Biblioteca e la Sala delle Armi, collegate tra di loro da un passaggio pensile. Si tratta di grandi volumi, il cui rivestimento in facciata in marmo di Carrara, attraverso gli effetti di luce radente, contribuisce ad esaltare tutte le venature del marmo e l'eleganza e la purezza dei volumi e suggerisce l'idea di un interrotto blocco monolitico di marmo.

Infatti Moretti puntava a creare grandi effetti di luce ed era convinto che anche attraverso la pietra si potessero comunicare effetti di luce radente:attraverso una grande fenditura, si illuminano di luce riflessa omogenea il grande volume della sala interna della scherma e la grande pedana, creando quindi uno spazio unitario e solido.

Questo edificio nel 1974 viene adibito ad una funzione incongrua e quindi deturpato. Infatti, sebbene l'esterno, nonostante l'aggiunta di un'alta cancellata di recinzione e nonostante il fissaggio con viti di ferro delle lastre mantenga la sua riconoscibilità, all'interno questa viene invece compromessa dalle manomissioni per l'adeguamento in parte a a Tribunale in parte a carcere; in seguito si aggiunge anche una caserma dei Carabinieri. La Biblioteca all'interno viene completamente stravolta: negli spazi prima concepiti interamente vuoti, si inseriscono strutture in cemento per ottenere nuove superfici da destinare ad uffici; inoltre, fu realizzata un'aula bunker e viene scavata una trincea e una rampa con garage per portare i detenuti, causando quindi la distruzione di elementi esterni.

Tutte queste manomissioni hanno portato ad un deturpamento di un'opera di grande valore intrinseco, e gli eventuali interventi per rimediare a questi danni sono molto complessi e richiedono costi molto elevati.

Il problema maggiore delle architetture contemporanee del cemento armato, essendo molto più fragili delle altre, portano con sé già dall'inizio la logica della distruzione, e non essendo destinate quindi a durare in eterno, necessitano continue manutenzioni, indispensabili altrimenti si rischia di perdere il manufatto.

Bisognerebbe procedere a mio avviso ad un restauro di tipo filologico, mirato al ripristino delle sue qualità al fine di restituire all'opera l'antico splendore dei volumi e il fascino dei suoi nitidi spazi interni. Anche se i costi sarebbero molto elevati è importante tenere conto del fatto che i benefici sarebbero notevoli e compenserebbero gli investimenti pubblici: si conserverebbe un edificio di valore storico e artistico inserito nell'ambiente preesistente con criteri di rispetto paesaggistico, si restituirebbe alla cittadinanza l'uso di una splendida struttura dedicata allo sport. Insomma, si manterrebbe uno dei più grandi esempi di cultura e architettura razionalista.

 

 

 

Il Restauro come forma di cultura”, così scrisse Bonelli, segretario del processo di ricostruzione post-bellico INA Casa, nel suo libro “Architettura e Restauro” del 1959.

 

Ciò induce a riflettere su quanto incida sul progetto di restauro delle opere del passato la cultura del tempo: ogni tempo ha dato importanza diversa al rispetto e alla salvaguardia di ciò che la storia ci ha consegnato, di ciò che si è salvato dell'architettura del passato nel corso dei secoli. Qualsiasi progetto, infatti, deve tenere conto della storia e più diffusamente del valore della permanenza, concetto di fondamentale importanza in quanto rappresenta le tracce di una cultura millenaria.

A riguardo citiamo un esempio in cui non è stata rispettata la permanenza della stratificazione storica nel recupero del Mausoleo di Augusto, dedicato a lui e ai suoi successori; fu iniziato nel 27 a.C., cadde in rovina nella tarda antichità quando fu sfruttato come cava di materiali; fu però poi trasformato in vigna, giardino pensile, teatro, politeama e, infine, nel 1907 venne acquistato dal Comune di Roma e adattato a sala per concerti.

Tutto ciò oggi non esiste più. Mussolini, nel 1937, in occasione del bimillenario di Augusto, secondo il quale Roma sarebbe dovuta diventare grandiosa ed ordinata come si presentava all'epoca di Augusto, iniziò la demolizione delle strutture dell'auditorium sovrastanti il Mausoleo e costruì intorno alla piazza palazzi in stile monumentale dell'epoca a evidenziarne l'importanza del luogo e a conferirgli un aspetto celebrativo e scenografico, propri del regime fascista.

Il Mausoleo, frammento della Roma Imperiale, diventa quindi il centro di un nuovo spazio vuoto, non più fruibile ai cittadini e troppo basso rispetto agli edifici circostanti per essere messo in evidenza e, a mio avviso, non dialoga minimamente con il resto della piazza.

Tutta queste serie di operazioni incongrue hanno portato ad un velleitario tentativo di recupero dell'opera iniziale, senza tener quindi conto delle stratificazioni storiche che invece sarebbe stato utile conservare.

Il restauro archeologico comincia intorno alla metà del '700 in seguito agli scavi di Pompei ed Ercolano, alla riscoperta delle antichità greche ed alla scoperta di quelle egizie avvenuta con la campagna d'Egitto di Napoleone Bonaparte. Questo passaggio fondamentale della conoscenza dell'arte antica portò ad un cambiamento nel rapporto con le opere del passato dando l'avvio al restauro modernamente inteso.

Durante questo periodo si sviluppano due filoni differenti: quello che tende a distinguere l'integrazione rispetto alla parte preesistente, ricostruendo le parti mancanti in maniera riconoscibile attraverso la distinzione del materiale o la semplificazione delle forme, come è avvenuto ad esempio per il restauro dell'Arco di Tito eseguito da Valadier e il restauro del Colosseo ad opera di Stern; il secondo filone, stilistico, secondo cui il restauratore deve immedesimarsi nel progettista originario e integrarne l'opera nelle parti mancanti. Protagonista di questa seconda tendenza sarà l'architetto francese Viollet Le Duc che ricostruì le mura di Carcassonne come dovevano apparire nel Medioevo.

Verso la fine dell'800 in Italia nascono due nuovi modi di intendere il restauro architettonico: il restauro storico, finalizzato ad un ripristino integrale attraverso i documenti storiografici; il restauro filologico che riprende il concetto di riconoscibilità dell'intervento, prevede il rispetto per le aggiunte che sono state apportate al manufatto nel corso del tempo e tutela i segni del tempo.

Al giorno d'oggi gli interventi di restauro che si possono realizzare sono i seguenti: l'intervento di conservazione è finalizzato a confermare uno stato di fatto e si prefigge quindi lo scopo di arrestare le modificazioni in atto; l'obiettivo del ripristino è quello di ricondurre un sistema ad una condizione morfologica originaria, attraverso i documenti storici; infine il concetto di restauro che corrisponde all'idea di architettura come opera aperta, cioè disponibile alle interpretazioni e al giudizio.

Un esempio interpretativo è il restauro del Partenone, nella cui restauro si riproduce fedelmente l'architettura originaria, mantenendo la possibilità di distinguere chiaramente la parte antica dalle nuove aggiunte. Questo rappresenta al meglio l'idea di restauro, in quanto l'occhio coglie al meglio l'insieme, distinguendo però il nuovo dal vecchio.

Altro aspetto interessante della conservazione e utilizzazione dei centri storici riguarda l'accostamento tra vecchio e nuovo. A riguardo cito l'esempio del Museo Kolumba di Colonia realizzato da Peter Zumthor sui resti di una chiesa tardogotica distrutta in seguito alla seconda guerra mondiale. Qui il progettista non interrompe l'opera passata; prosegue infatti le antiche mura della chiesa costruendovi sopra il nuovo e attraverso il rispetto dei resti del manufatto originario crea una continuità tra passato e presente.

In questo modo l'antico diventa protagonista, e nonostante l'inserimento del nuovo, non viene contaminato, anzi al contrario viene esaltato ed è in grado di conferire maggior valore alla rovina storica.

Antico e contemporaneo possono perciò coesistere in armonia, pur sempre agendo adeguatamente nel rispetto dei caratteri, della leggibilità e dello spirito delle opere preesistenti.

Il recupero in architettura

“Passato e presente nella buona arte si incontrano”. Così Peter Zumpthor si esprime in merito al progetto per il Kolumba Museum ideato a Colonia sui resti di una chiesa cattolica andata distrutta nel corso dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Con questo progetto, in cui moderno e antico si fondono, assistiamo ad un recupero di un’architettura di grande valore artistico, storico (al di sotto della chiesa sono state ritrovati negli anni ’70 resti di rovine romane, gotiche e medievali), ma soprattutto simbolico (la Madonna delle Rovine è stato considerata da molti un simbolo di speranza durante i dolorosi anni della ricostruzione post-bellica). Un progetto che dunque ha consentito di preservare le rovine di un’architettura  che rappresentano segni di una memoria sia del passato che della storia moderna.
Un’idea di recupero molto lontana da quella che possiamo ritrovare nel nostro paese, in cui spesso l’enorme patrimonio architettonico che ci circonda e che  necessiterebbe quanto meno di una continua manutenzione, è stato, e viene tuttora, “violentato” con interventi e/o eventi non congrui.
E’ il caso del Foro Italico, detto anche Foro Mussolini, un complesso sportivo che fungeva anche da scenario per le manifestazioni celebrative del regime, ideato nel ventennio fascista e realizzato da Enrico Del Debbio e Luigi Moretti. Finanziato interamente dallo Stato, il complesso di edifici rappresenta un bene pubblico che dunque deve essere valorizzato e reso fruibile alla collettività.
Gli edifici del Foro Italico, in particolare lo Stadio Olimpico e la Casa delle Armi, sono stati negli anni talmente manomessi e modificati da non permettere più di individuare il progetto originale.
Lo Stadio, realizzato negli anni ‘50 da Annibale Vitellozzi, raggiunse il momento di massimo fulgore in occasione delle Olimpiadi del 1960 durante le quali subì una serie di trasformazioni, tra cui l’eliminazione dei posti in piedi che ridusse la capienza effettiva a 65.000 spettatori. Ma gli interventi che ne alterarono drasticamente l’aspetto furono realizzati in vista dei Mondiali di calcio degli anni ’90: l'impianto fu quasi interamente demolito e ricostruito in cemento armato, ad eccezione della Tribuna Tevere ampliata con l'aggiunta di ulteriori gradinate. Un’inadeguata copertura, imposta dal CIO per coprire le tribune, stravolse completamente quella che era l’immagine originale del dopoguerra e ovviamente i costi degli interventi furono talmente cospicui che sarebbe stato più economico costruire un nuovo stadio.
Per quanto riguarda la Caserma della Armi il commento contenuto all’interno del libro “La forma violata” di Alessandra Nizzi e Marco Giunta, è quello che a mio parere sintetizza più adeguatamente gli effetti delle numerose devastazioni che hanno “aggredito” e completamente modificato architettonicamente e formalmente il progetto di Moretti del 1933: “La più clamorosa deturpazione di un bene pubblico, colpevole la superficialità della cultura architettonica, i cui riflessi negativi sono stati ampiamente sottovalutati”. Abbandonato per diversi anni a seguito della "damnatio memoriae" che ha accomunato molti architetti che hanno operato durante il fascismo, di cui Moretti era uno degli esponenti più illustri, l’edificio negli anni ’80 è stato trasformato in un bunker divenendo la sede per i processi al terrorismo di quegli anni e subendo delle radicali e probabilmente irreversibili modifiche che hanno snaturato completamente il progetto originale.
Di certo non possiamo parlare in questo caso di recupero di un’opera architettonica, intendendo per recupero un insieme di interventi e di trasformazioni che si integrano il più possibile nel rispetto dell'esistente (sia degli aspetti materiali e fisici che di quelli immateriali come il significato e la storia).
Cosa ne sarà di questo edificio tra qualche anno? Purtroppo temo che con moltissima difficoltà si potranno trovare i finanziamenti per ripristinare l’edificio così come era stato pensato da Moretti pur essendoci documenti di archivio che lo permetterebbero. Dovrebbe essere per questo demolito? Oppure bisognerebbe conservare lo stato di fatto in modo che diventi monito e testimonianza di come interventi superficiali, che trascurano il significato storico e architettonico di un edificio, possano trasformare irreversibilmente un’architettura?
Per cui la alla domanda su quando intervenire con una manutenzione, piuttosto che con un intervento di conservazione o di ripristino o di restauro, la risposta dipende da una serie complessa e lunga di fattori, tra i quali il contesto nel quale ci si trova, l’opera architettonica con la quale abbiamo a che fare, ma anche le risorse economiche a disposizione. Purtroppo la mancanza di risorse non consente, sempre e ovunque, di conservare il nostro patrimonio e di restaurare o ripristinare edifici che hanno subito delle trasformazioni che ne hanno alterato il significato architettonico.
Molti danni, ad esempio, sono stati prodotti dall’uso incosciente del calcestruzzo che comporta una continua e periodica manutenzione, oltre ovviamente a non rispettare i concetti di compatibilità con i materiali originali e di reversibilità che si sono affermati solamente negli ultimi anni.
La presenza della storia non sempre però preclude l’inserimento del “nuovo”, anzi, a volte, l’”antico” può essere esaltato e valorizzato dal “moderno”. Qui torniamo al progetto di Zumpthor del Kolumba Museum di cui ho parlato in precedenza: in un contesto del genere, in cui il ripristino sarebbe stato eccessivo e la conservazione non avrebbe fino in fondo esaltato le rovine in una città moderna, quasi completamente ricostruita dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, il progetto di Zumpthor dà valore ai resti della rovine, pur rispettando il progetto originario.
E in una città diversa come Roma, fortemente stratificata, sarebbe giusto e possibile un progetto del genere? Il nostro patrimonio è talmente vasto e versa a volte in tali condizioni di degrado per cui, in presenza di risorse, in primo luogo è doveroso procedere a lavori di conservazione e manutenzione, e poi forse, non ovunque, ma soprattutto con molta cautela e consapevolezza, si potrebbe combinare l’”antico” con il “moderno”.
 

 

Riflessione sulle diverse metodologie di intervento

Abbiamo visto durante i nostri studi e durante la scorsa lezione del prof. Passeri, come si sia intervenuto nel sito archeologico di Cnosso (il più importante sito archeologico dell’età del bronzo di Creta). Gli interventi condotti dall’archeologo Sir Arthur Evans agli inizi del 1900 furono interventi di tipo non conservativo e non scientifico, ma piuttosto di tipo “romantico”: ricostruire l’immagine del palazzo, secondo una visione del tutto personale e con materiali estranei alla tradizione minoica, per rendere il sito leggibile ai visitatori.

Materiale principe di questi interventi fu il cemento armato. Se pur oggi ciò ci appare un intervento del tutto errato, inconcepibile ed incondivisibile, non ci possiamo stupire in fondo della scelta fatta da Evans in quanto fino a pochi anni fa il cemento veniva considerato il nuovo materiale da costruzione per eccellenza. Sulla scia di queste considerazioni possiamo inoltre citare le innumerevoli Carte del Restauro, o simili, che a partire proprio dal Novecento furono redatte per dare un codice di comportamento a coloro i quali dovevano operare sul contesto storico da restaurare. Una delle prime carte in cui erano trascritte le “regole del comportamento” fu la Carta di Atene (1931), all’interno della quale ritroviamo questa disposizione: “approvato l’impiego giudizioso di tutte le risorse della tecnica moderna, e più specialmente del cemento armato”. Proseguendo all’interno della Carta italiana del restauro (1932) si incoraggia l’uso delle nuove tecnologie come quella basata sull’uso del cemento armato. Con tali premesse non possiamo stupirci del fatto che Evans abbia scelto questo materiale per i suoi interventi, come non possiamo stupirci del fatto che il “nuovo” campanile in piazza San Marco, ricostruito dopo il crollo (1912), abbia una struttura interamente in cemento armato, o di come Balanos nei suoi interventi al Partenone abbia reintegrato pesantemente colonne e trabeazioni con il cemento armato (1920), o ancora di come Muñoz abbia utilizzato questo nuovo materiale per il restauro di un monumento molto vicino alla nostra facoltà come è il Portico degli Dei Consenti al Foro Romano.

D’ altra parte è da relativamente poco tempo che i restauratori, gli architetti, gli archeologi, nonostante le differenze di pensiero sulle modalità di operare sul campo (restauro filologico – restauro critico), siano più attenti alle operazioni da eseguire in un caso di restauro di un bene archeologico o monumentale. Di questo si ebbero i primi sentori già nel 1972 quando, all’interno della Carta del restauro, si iniziò a parlare di “reversibilità” nell’intervento di restauro, così da salvaguardare e rendere possibile qualsiasi intervento successivo. Nella Carta della Conservazione e del restauro degli oggetti d’arte e cultura (1987) redatta con la coordinazione di P. Marconi, si evidenzia come l’esperienza abbia reso noto quanto invasivi, poco duraturi e irreversibili siano gli interventi con materiali moderni quali cemento armato , acciaio, resine.

Prova di questo cambio di pensiero sono tutti gli interventi successivi a questa “moda” che vedono l’uso di materiali congrui con l’edificio storico e con la tradizione cui esso appartiene. Per riprendere un caso in precedenza citato per interventi incongrui ed invasivi, quale il Partenone, negli ultimi interventi di restauro notiamo un forte cambio di rotta, dovuto all’adesione delle nuove idee di rispetto e conservazione della forma e del materiale dell’oggetto storico da parte degli operatori. Nonostante le polemiche e i dibattiti, sostenuti anche in aula, rispetto a questi interventi, mi vedo favorevole rispetto questo modo di operare; ritengo che il ripristino del monumento con l’uso del materiale originale distinto solo nelle forme (mancanza di scanalature nelle colonne o di decorazioni nelle trabeazioni ecc.) sia il risultato più giusto in questo contesto tra tutte le possibili soluzioni adottabili. Guardando al passato inoltre, seppur non come risultato di una scelta critica, questo tipo di intervento era stato già realizzato proprio nel Foro Romano, sull'Arco di Tito. Mi sento di sottolineare che attualmente, almeno per quanto mi riguarda, andando a visitare questo monumento non mi sento affatto disturbata dall'intervento di restauro condotto da Valadier, ma anzi mi rendo conto che senza quell'intervento io oggi non potrei fruire di tale opera. Penso quindi che ciò può considerarsi valido anche per il sito archeologico dell'Acropoli di Atene; unica nota che penso si possa obiettare per il momento sta nel fatto dell'attuale impatto visivo degli elementi di anastilosi; certo è che così come è accaduto al Foro anche ad Atene il loro impatto andrà via via a diminuire fino a scomparire.

Diversa è la sorte di molte altre opere di restauro che purtroppo lasceranno per sempre il loro segno sull'oggetto di intervento. Uno tra questi è la Casa delle Armi di Moretti presentataci nella lezione dello scorso venerdì. Come detto dal prof. Passeri questa architettura realizzata tra le due guerre è stata totalmente negata con i successivi interventi di trasformazione che ne hanno cancellato ogni tratto originario. Con questo esempio, oltre a ribadire l'uso errato dei nuovi materiali nelle operazioni di trasformazione negli edifici storici, si ripercorre il problema centrale della scorsa consegna, ossia l'importanza delle scelte effettuate dalle Soprintendenze per quanto riguarda le trasformazioni da attuare in questi edifici. Ritengo che non si posso parlare di restauro di un edificio storico nel momento in cui questo venga privato delle sue caratteristiche spaziali e formali principali, piuttosto si tratta di una profonda ristrutturazione che dell'edificio storico lascia solo l'involucro, l'immagine esterna. Purtroppo oggi nulla possiamo fare per rimediare a questo tipo di interventi.

Demolire? Non so rispondere a questa domanda; nonostante tutto anche se profondamente trasformate qualcosa di queste architetture è ancora lì, visibile.

Ripristinare? Anche se queste architetture fossero riportate al loro stato originario certo è che non sarebbero le architetture originali e si potrebbe parlare di un falso storico.

E chi investirebbe per tali opere? Quanto sarebbe disposto a pagare? Difficile dirlo. Sicuramente tutti siamo d'accordo sul fatto di proteggere, conservare e rendere fruibili i monumenti del nostro patrimonio ma, seppur essi siano beni inestimabili e tale dovrebbe essere il valore della loro conservazione, a che prezzo? Credo che nessuno abbia una risposta univoca ma che questa cambi a seconda del caso che ci si trovi davanti.