blog di alessandra_ottaviani

Considerazioni sulla visita alla Villa Capo di Bove ed al cantiere del Teatro Argentina

 

La proprietà di “Capo di Bove” si trova all'interno del Parco Archeologico dell'Appia Antica; si tratta di un'area strategica, situata appunto sull'asse storico dell'Appia Antica, importante via di collegamento durante l'impero romano. Questa subì diversi cambiamenti nel dopoguerra: vi fu un primo periodo, durante gli anni '50, nel quale diviene lo scenario ideale di grandi imprenditori e personalità illustri, soprattutto produttori cinematografici, che si costruiscono la propria villa; lo stile è piuttosto sfarzoso e lussuoso, tipico di quegli anni. Nella seconda fase degli anni '70-'80 vengono acquistate, da parte di commercianti, tutte le parti edilizie, dai fienili alle case dismesse, e trasformate in proprie abitazioni. La terza fase, degli anni '90, è la fase dei grandi interventi massivi e speculativi con aumento di cubatura che avvengono ai margini del parco archeologico.

L'idea iniziale del Parco dell'Appia Antica nasce dal prefetto napoleonico, e inizialmente venne denominato “Grande Cesare”; si tratta infatti del sito archeologico più importante e più grande del mondo, soggetto a vincolo archeologico e oggetto di tutela da parte dell'Ente Parco dell'Appia Antica e della Sopraintendenza per i Beni Archeologici.

La proprietà attualmente comprende i ritrovamenti di un impianto termale risalente al II secolo d.C. e l'edificio principale, che dal 2008 ospita l'Archivio Antonio Cederna, giornalista, ambientalista, politico e intellettuale italiano difensore del patrimonio culturale e paesaggistico italiano.

L'area di questa villa nel II secolo d.C. era all'interno della vasta tenuta agricola di Erode Attico, durante il medioevo venne trasformata in fortilizio, pur mantenendo le caratteristiche agricole, e divenne in seguito un Bene dello Stato Pontificio, che finanziò infatti gli scavi archeologici.

L'area rimase in proprietà privata fino al 1870 e mantenne l'uso agricolo sino al 1945, anno in cui avvenne la trasformazione per uso residenziale. A partire dagli anni '50 la tenuta fu infatti acquistata da una famiglia di mercanti ortofrutticoli, i Romagnoli, che trasformarono la proprietà ad uso residenziale. Negli anni '60 fu comprata da Streccioni, un produttore cinematografico, il quale commissionò il progetto di recupero della villa secondo uno stile antiquario che era in voga in quegli anni.

Nel 2002 la proprietà fu acquistata dal Ministero per i Beni e le Attività culturali su proposta della Sopraintendenza speciale per i Beni Archeologici di Roma, esercitando il diritto di prelazione sul bene vincolato. Secondo delle recenti valutazioni, la villa era stata stimata 1.300.000 euro. Si è trattata di un'importante operazione di riscatto volta al recupero di un Bene da privato a pubblico, in cui si è andata consolidando l'acquisizione del patrimonio storico e l'equilibrio tra la parte naturalistica, archeologica e la parte del recupero.

Gli scavi archeologici del 2002 hanno portato alla scoperta di un impianto termale risalente al II secolo d.C., ad uso privato, una struttura sofisticata ed aristocratica probabilmente ad uso sacerdotale o di culto. I lavori dell'area, iniziati nel 2002, sono stati eseguiti dagli architetti Celia e Cacciapaglia per quanto ha riguardato la ristrutturazione degli edifici e gli spazi interni espositivi, e dal paesaggista De Vico per la sistemazione dei giardini.

Circa la sistemazione degli spazi esterni, ai fini della leggibilità dei resti archeologici dell'impianto termale, è stata utilizzata una ghiaia bicroma bianca e nera come riproposizione della pavimentazione in mosaico bicromo bianco e nero, e una ghiaia color cotto a riproporre la pavimentazione in laterizio. Trovo che sia una buona riuscita, in quanto rende più facilmente leggibile i resti al visitatore. Inoltre, per ciò che riguarda i giardini, sono stati abbattuti molti alberi piantati in precedenza senza alcun criterio perchè oscuravano gli spazi interni senza quindi permettere l'ingresso della luce e piantati quindi dei nuovi con maggior rigore. Inoltre, ai fini di non dare la sensazione di uno spazio rettangolare stretto e angusto, sono stati modificati i viali realizzando un tracciato ad andamento serpentino, così da dare l'impressione di uno spazio più vasto ed aperto.

La villa viene edificata sulla muratura di una cisterna romana a due vani, i cui resti del vano inferiore sono ben conservati e presentano parti dell'intonaco di cocciopesto, mentre di quelli del vano superiore rimangono poche tracce, visibili solo dai resti di opera cementizia in scaglie di selce. La muratura dell'edificio era stata realizzata adottando una tecnica moderna che deriva dallo “spolia” medievale, ossia attraverso lo spoglio di materiali antichi recuperati dalla distruzione di vari monumenti.

Per quanto ha riguardato gli spazi interni sono state effettuate alcune modifiche per rendere l'edificio a norma, in quanto essendo in precedenza ad uso residenziale non erano necessarie tutte le misure di sicurezza. A riguardo è stato realizzato un elevatore per permettere ai portatori di handicap di accedere al piano superiore; la ringhiera della scala è stata cambiata in quanto la precedente non risultava essere a norma.

Il risultato a mio avviso meno riuscito riguarda gli infissi, che precedentemente in legno, vennero sostituiti con dei nuovi in ferro. Per quanto riguarda i serramenti sono stati sostituiti i preesistenti in ferro battuto con altri più economici in lega. Inoltre la mal riuscita è dovuta anche al fatto che il fabbro ha realizzato gli infissi secondo una misura standard, senza prendere le misure su ogni singola finestra.

Inoltre ho notato la mancanza di pannelli esplicativi che documentino la presenza della cisterna romana su cui si imposta la villa, che , seppur all'esterno è visibile, nella parte interna non è stata lasciata a vista. Condivido l'idea messa in opera dagli architetti, in quanto ritengo che sia più corretto lasciare la testimonianza della sovrapposizione storica, di come l'edificio si sia evoluto.

In conclusione posso affermare che gli interventi realizzati sono congrui e corretti, è stata rispettata la struttura della cisterna, alta testimonianza storica, e si è agito nel rispetto della tutela e della salvaguardia. Si è quindi reso un bene pubblico fruibile dal quale si sono ottenuti benefici concreti.

 

 

 

Il Teatro Argentina, uno dei più antichi teatri di Roma, venne costruito nel 1732 su progetto di Girolamo Theodoli. La facciata, in stile neoclassico, venne realizzata un secolo dopo, nel 1836 da Pietro Holl. Divenuto proprietà comunale nel 1869, il teatro deve l'aspetto attuale al rifacimento operato da Gioacchino Ersoch nel 1887-1888, che inserì i palchi nella struttura in muratura, aprì il palco reale e ampliò l'atrio.

 

Nel corso della storia il teatro subì due interventi di restauro, uno nel 1970 e l'altro risalente al 1993.

Nel primo restauro fu eliminata la pensilina di quattro metri in quanto creava problemi alla linea del tram. Furono inoltre apportate modifiche alla copertura con eliminazione delle capriate lignee e aggiunto in sostituzione un cordolo in cemento armato lungo il perimetro dell'edificio, perchè ritenuto più idoneo per la staticità della struttura e per una maggiore resistenza sismica.

Per quanto riguarda il gruppo statuario collocato a coronamento della facciata, era stata applicata una colletta cementizia di 4/5 centimetri di spessore che aveva completamente annullato l'effetto dello stucco originale e di profondità, propria delle sculture. Inoltre questo strato cementizio, provocando la fuoriuscita dei sali, aveva gravemente danneggiato la superficie scultorea. Anche i ferri di armatura delle statue si erano interamente arrugginiti con il tempo.

Nei restauri del '93 si è intervenuti principalmente sulla facciata utilizzando una scialbatura a base di resina vinilica, che, non lasciando traspirare la muratura, aveva provocato delle lesioni e delle micro fessurazioni.

Il restauro in corso d'opera, curato dall'Architetto Celia, si prefigge come obiettivo principale quello di utilizzare materiali compatibili, come la tinta a calce, in sostituzione dei precedenti vinilici. Perciò in primo luogo è stato effettuato il descialbo degli strati precedenti in modo da poter così procedere ad un restauro di tipo filologico. Come sostiene l'Architetto, i descialbi delle coloriture non sono da considerarsi del tutto operazioni corrette perchè cancellano i segni della storia, eliminando le stratificazioni che si succedono nel corso del tempo, senza lasciare quindi una testimonianza storica. Ma in questo caso è stato necessario effettuare il descialbo per poter proseguire con un restauro di tipo corretto e compatibile dal punto di vista materico.

Sull'intonaco di tamponamento della facciata era stata applicata una tinta color ocra; attualmente sono in corso le prove di colore per restituire il colore originale, sui fondi un color cortina e sulle parti in finto bugnato un color travertino.

Per quanto riguarda il gruppo scultoreo, si è provveduto a sostituire gli elementi più pesanti, con dei nuovi più congrui e leggeri, anche ai fini della stabilità, e a rimuovere i ferri di supporto delle statue, ormai arrugginiti, e a sostituirli con dei nuovi. Inoltre sono state eliminate le aggiunte in cemento e la scialbatura precedente, al fine di ripristinare lo stucco originale e conferire al gruppo i giusti effetti di profondità.

Sono stati ripristinati anche gli infissi in legno del primo piano, sui quali è stato rimosso lo smalto color grigio precedentemente applicato e restituitogli quindi la colorazione originale.

Nel bassorilievo si sta cercando di ottenere una differenziazione cromatica del piano di fondo rispetto alle parti in rilievo, al fine di conferire maggior leggibilità.

Particolare importanza ha rivestito il contesto storico nell'organizzazione dei ponteggi. Infatti il montaggio di quest'ultimi è stato piuttosto complicato, perchè trovandosi a meno di 50 metri da un'area archeologica, ha richiesto il rispetto di vari tipi di vincoli e norme per la tutela e la salvaguardia dei beni storici. Inoltre si è sottolineata l'importanza che ricopre il ruolo di coordinatore della sicurezza e quanto sia delicato e fondamentale questo tema nell'organizzazione di un cantiere. Era infatti necessario lasciare un'uscita di sicurezza dal basso, perciò l'ingresso al cantiere si può effettuare esclusivamente dalla terrazza. Inoltre è sorta la problematica di come portare i materiali e inserire una piccola betoniera nella quale realizzare l'intonaco con tinta di calce; questo avrebbe comportato un sovraccarico del solaio, e a questo proposito è stata realizzata una terrazza al primo piano per deporre la betoniera con un tunnel verticale di carico dal quale sarebbero stati portati ai piani superiori i materiali.

Trattandosi di un teatro comunale, i lavori sono stati supervisionati dalla Sopraintendenza comunale e statale; il committente è un privato, Mecenarte, e le spese vengono sovvenzionate dalla pubblicità. I ponteggi risultano infatti attualmente coperti da un telo pubblicitario.

Riguardo l'utilizzo della pubblicità come strumento per finanziare un'opera, se usata come mezzo idoneo, senza che sia permanente ed evitando qualsiasi deturpazione del paesaggio, ritengo possa essere un mezzo utile ed efficace, che permette la manutenzione e la conservazione degli edifici storici, come in questo caso del Teatro Argentina.

 

 

 

Il valore della permanenza e il rigore di Franco Albini

 

Nel libro “L'Architettura della città”, scritto da Aldo Rossi nel 1966, la città viene intesa come un'architettura, facendo riferimento non solo all'immagine visibile della città e all'insieme delle sue architetture, ma piuttosto all'architettura come costruzione, e più esattamente come costruzione della città nel tempo. La città viene quindi intesa nella sua completa interezza, come un'unica architettura nella quale la costruzione si stratifica e articola nel tempo, e crescendo quindi acquista coscienza e memoria di se stessa.

Il senso della conoscenza del divenire storico della città, e più specificatamente della permanenza, sono fondamentali nell'approccio di qualsiasi progetto. L'architetto diventa perciò portatore di innovazioni e trasformazioni, che devono essere tali però da rispettare i caratteri e la leggibilità del manufatto e tali da non alterare il senso della memoria e della permanenza.

Attraverso il recupero dei monumenti in una forma consona e adeguata, il passato viene sperimentato nel presente e diventa un veicolo che conduce alla quotidianità e al futuro.

A riguardo cito alcuni esempi in cui non si è tenuto conto del senso della permanenza: il Pantheon, nel quale furono demoliti i campanili realizzati da Bernini per conferire l'immagine più antica del monumento e per completare quindi l'isolamento dell'edificio antico; il teatro di Arles, anfiteatro romano che fu ricostruito nel 1686 eliminando le abitazioni che si erano installate con la finalità di restituire l'antica memoria al manufatto; la collina dei Parioli, nella quale la villa suburbana romana di notevole prestigio verrà trasformata in un blocco edilizio di sei piani con venti alloggi, esempio quindi in cui è stata soppiantata la permanenza del monumento.

Invece, per quanto riguarda il mantenimento della permanenza, riporto l'esempio di Manhattan, che, sviluppatasi all'inizio dell'800 con una maglia rigida ad eccezione della strada Broadway, il percorso che facevano gli indiani per andare a cavallo, rappresenta un esempio in cui la permanenza svolge una funzione simbolica, rimasta appunto con un segno, che è quello della strada.

 

Una figura di notevole importanza che affidava alla storia tutta l'esperienza progettuale è Franco Albini. Albini tratteggia la figura dell'intellettuale e dell'architetto consapevole di tutto il processo progettuale, di ciò che avviene prima e degli effetti e dei benefici che il progetto produce dopo la sua costruzione. Condivide l'interesse per la tradizione, forma portante dell'architettura italiana nel dopoguerra, assumendola però nell'ambito di un metodo di lavoro che implica la necessità di darsi delle regole. La tradizione non diventa quindi un elemento a cui conformarsi, ma un elemento di coscienza individuale e collettiva, di interpretazione dei valori riconosciuti, un patrimonio da reinterpretare per creare una sorta di nuova tradizione; diventa quindi un filo conduttore che collega interventi in ambienti e periodi diversi; come ad esempio nella Rinascente a Roma, realizzata con Franca Helg nel 1957, dove si manifesta una dicotomia tra la scelta stilistica del linguaggio, schiettamente moderno e la citazione di elementi costruttivi classici, quali le cornici costituite dalle travi di acciaio, e tradizionalmente romani quali i solai e la texture delle superfici murarie che ripensano nella granulometria e nei colori l'ondulazione barocca. Si tratta di un'architettura di grande contemporaneità che guarda alla storia, che si innesta in un tessuto urbano che è proprio quello delle vicine mura aureliane, trovando una sorta di accordo con il volto della città.

Altro intervento sarà l'allestimento, nel 1973, della mostra su Palladio all'interno della Basilica Palladiana a Vicenza, nel quale l'architetto si cimentò non solo nell'interpretazione delle opere di Palladio, cercando di utilizzare il suo metodo, ma soprattutto nel rispettare la struttura interna della Basilica.

Notiamo come nelle architetture di Albini, improntate sul rigore e sull'importanza della storia, venga utilizzata una profondità di linguaggio nel quale è fortissimo il senso della conoscenza e della memoria.

Altro esempio interessante del mantenimento della preesistenza è il Centro Cultural Escuelas Pias de Lavapies, realizzato nel quartiere popolare di Madrid da Linazasoro nel 1996, che comprende Aule Universitarie e una Biblioteca; le prime occupano lo spazio non edificato, mentre la seconda viene realizzata sulle rovine della Escuela Pias de San Fernando, chiesa barocca distrutta durante la guerra civile. Osserviamo come l'architetto ha abilmente integrato l'antico con il nuovo; è stato infatti prescelto il mattone, materiale che meglio risponde ai requisiti di uniformità, per ottenere un'immagine di forte coesione tra il nuovo e il vecchio.

Infatti, al fine di rendere maggiormente unitario il muro della facciata principale, questo viene reintegrato con mattoni nuovi, mentre per quanto riguarda la copertura, invece di ricostruire la cupola ottagonale andata distrutta, realizza una copertura a volta in doghe di legno lamellare da cui filtra la luce. Le scale, invece, di cemento armato, a mio avviso si inseriscono adeguatamente all'interno dell'edificio, in quanto, staccandosi dalla parete laterizia non vanno ad interrompere la continuità del muro.

Si tratta perciò di un esempio di notevole importanza in cui antico e nuovo dialogano e si integrano tra loro e in cui i resti dell'antico permangono, vengono rispettati, salvaguardati e resi perciò fruibili.

Riflessioni sulle ultime due lezioni di estimo: il Foro Italico ed il Recupero architettonico

 

L'ex Foro Mussolini, oggi Foro Italico, vasto complesso di edifici e impianti sportivi, nasce nel 1928, inizialmente su idea di Enrico Del Debbio e in seguito di Luigi Moretti.

Situato sulle pendici di Monte Mario, rappresenta uno dei principali interventi a scala urbana del regime fascista, significativo per l'intento di riunire attività sportiva e formazione ideologica.

Nella realizzazione di questo grandioso complesso, lo Stato intervenì in prima persona, finanziandolo interamente.

Le diverse costruzioni testimoniano l'oscillare della cultura architettonica del periodo tra classicismo stilizzato e deciso razionalismo, volti a rappresentare il monumentalismo e la forte identità propri del regime fascista.

Il progetto di Enrico Del Debbio si caratterizzava per la particolare attenzione al rispetto ambientale, secondo il criterio ellenistico, che seguiva l'orografia del terreno, a differenza del criterio romano che privilegiava l'elevazione delle murature. Tale progetto comprende lo Stadio Dei Marmi, l'Accademia di Educazione fisica, il Monolite Mussolini e lo Stadio dei Cipressi. Quest'ultimo, seppur non realizzato, era un'opera di forte impianto naturalistico e sfruttava appunto le depressioni del terreno. Lo Stadio Olimpico, nato appunto come Stadio dei Cipressi, sarà realizzato sino al primo anello murario ed inaugurato nel 1932. Nel 1952 lo Stadio venne riprogettato sulla base già realizzata dello Stadio dei Cipressi da Annibale Vitellozzi con una capienza di 80.000 posti. Nel 1990, in occasione del campionato di mondo di calcio, venne adeguata la capienza aumentandone le gradinate e inserendone una struttura reticolare ad anello. Intervento a mio parere incongruo, che con l'inserimento di piloni alti 14 metri, ha arrecato indubbio danno all'insieme ambientale e monumentale.

Lo Stadio dei Marmi anch'esso sfrutta il dislivello per allestire il campo e la pista. Il riferimento è allo stadio greco e all'architettura classica: gradinate perimetrali in marmo assieme alla presenza di sessanta statue di marmo rappresentanti tutte le provincie di Italia. Questo impianto, che rappresentò lo scenario del regime, oggi purtroppo viene deturpato con eventi incongrui. A partire dagli anni '80, infatti, diventando un luogo di pubblicità, iniziò a subire diverse degenerazioni d'uso: inizialmente ospitava un campo di calcio, diventò successivamente una sorta di pista per le motociclette, fino a diventare una pista da sci.

E' assurdo pensare che un impianto di così notevole importanza storica e architettonica possa essere così deturpato oggigiorno.

Ma l'opera più emblematica di questo grandioso complesso è senza dubbio la Casa delle Armi, realizzata da Luigi Moretti nel 1933. Moretti è uno dei maggiori architetti che operano durante il ventennio fascista, sarà però colpito dopo la guerra da una sorta di damnatio memoriae, in seguito rimossa a partire dagli anni '80 con l'inizio di una nuova stagione di interesse.

La Casa delle Armi è composta di due volumi ortogonali, la Biblioteca e la Sala delle Armi, collegate tra di loro da un passaggio pensile. Si tratta di grandi volumi, il cui rivestimento in facciata in marmo di Carrara, attraverso gli effetti di luce radente, contribuisce ad esaltare tutte le venature del marmo e l'eleganza e la purezza dei volumi e suggerisce l'idea di un interrotto blocco monolitico di marmo.

Infatti Moretti puntava a creare grandi effetti di luce ed era convinto che anche attraverso la pietra si potessero comunicare effetti di luce radente:attraverso una grande fenditura, si illuminano di luce riflessa omogenea il grande volume della sala interna della scherma e la grande pedana, creando quindi uno spazio unitario e solido.

Questo edificio nel 1974 viene adibito ad una funzione incongrua e quindi deturpato. Infatti, sebbene l'esterno, nonostante l'aggiunta di un'alta cancellata di recinzione e nonostante il fissaggio con viti di ferro delle lastre mantenga la sua riconoscibilità, all'interno questa viene invece compromessa dalle manomissioni per l'adeguamento in parte a a Tribunale in parte a carcere; in seguito si aggiunge anche una caserma dei Carabinieri. La Biblioteca all'interno viene completamente stravolta: negli spazi prima concepiti interamente vuoti, si inseriscono strutture in cemento per ottenere nuove superfici da destinare ad uffici; inoltre, fu realizzata un'aula bunker e viene scavata una trincea e una rampa con garage per portare i detenuti, causando quindi la distruzione di elementi esterni.

Tutte queste manomissioni hanno portato ad un deturpamento di un'opera di grande valore intrinseco, e gli eventuali interventi per rimediare a questi danni sono molto complessi e richiedono costi molto elevati.

Il problema maggiore delle architetture contemporanee del cemento armato, essendo molto più fragili delle altre, portano con sé già dall'inizio la logica della distruzione, e non essendo destinate quindi a durare in eterno, necessitano continue manutenzioni, indispensabili altrimenti si rischia di perdere il manufatto.

Bisognerebbe procedere a mio avviso ad un restauro di tipo filologico, mirato al ripristino delle sue qualità al fine di restituire all'opera l'antico splendore dei volumi e il fascino dei suoi nitidi spazi interni. Anche se i costi sarebbero molto elevati è importante tenere conto del fatto che i benefici sarebbero notevoli e compenserebbero gli investimenti pubblici: si conserverebbe un edificio di valore storico e artistico inserito nell'ambiente preesistente con criteri di rispetto paesaggistico, si restituirebbe alla cittadinanza l'uso di una splendida struttura dedicata allo sport. Insomma, si manterrebbe uno dei più grandi esempi di cultura e architettura razionalista.

 

 

 

Il Restauro come forma di cultura”, così scrisse Bonelli, segretario del processo di ricostruzione post-bellico INA Casa, nel suo libro “Architettura e Restauro” del 1959.

 

Ciò induce a riflettere su quanto incida sul progetto di restauro delle opere del passato la cultura del tempo: ogni tempo ha dato importanza diversa al rispetto e alla salvaguardia di ciò che la storia ci ha consegnato, di ciò che si è salvato dell'architettura del passato nel corso dei secoli. Qualsiasi progetto, infatti, deve tenere conto della storia e più diffusamente del valore della permanenza, concetto di fondamentale importanza in quanto rappresenta le tracce di una cultura millenaria.

A riguardo citiamo un esempio in cui non è stata rispettata la permanenza della stratificazione storica nel recupero del Mausoleo di Augusto, dedicato a lui e ai suoi successori; fu iniziato nel 27 a.C., cadde in rovina nella tarda antichità quando fu sfruttato come cava di materiali; fu però poi trasformato in vigna, giardino pensile, teatro, politeama e, infine, nel 1907 venne acquistato dal Comune di Roma e adattato a sala per concerti.

Tutto ciò oggi non esiste più. Mussolini, nel 1937, in occasione del bimillenario di Augusto, secondo il quale Roma sarebbe dovuta diventare grandiosa ed ordinata come si presentava all'epoca di Augusto, iniziò la demolizione delle strutture dell'auditorium sovrastanti il Mausoleo e costruì intorno alla piazza palazzi in stile monumentale dell'epoca a evidenziarne l'importanza del luogo e a conferirgli un aspetto celebrativo e scenografico, propri del regime fascista.

Il Mausoleo, frammento della Roma Imperiale, diventa quindi il centro di un nuovo spazio vuoto, non più fruibile ai cittadini e troppo basso rispetto agli edifici circostanti per essere messo in evidenza e, a mio avviso, non dialoga minimamente con il resto della piazza.

Tutta queste serie di operazioni incongrue hanno portato ad un velleitario tentativo di recupero dell'opera iniziale, senza tener quindi conto delle stratificazioni storiche che invece sarebbe stato utile conservare.

Il restauro archeologico comincia intorno alla metà del '700 in seguito agli scavi di Pompei ed Ercolano, alla riscoperta delle antichità greche ed alla scoperta di quelle egizie avvenuta con la campagna d'Egitto di Napoleone Bonaparte. Questo passaggio fondamentale della conoscenza dell'arte antica portò ad un cambiamento nel rapporto con le opere del passato dando l'avvio al restauro modernamente inteso.

Durante questo periodo si sviluppano due filoni differenti: quello che tende a distinguere l'integrazione rispetto alla parte preesistente, ricostruendo le parti mancanti in maniera riconoscibile attraverso la distinzione del materiale o la semplificazione delle forme, come è avvenuto ad esempio per il restauro dell'Arco di Tito eseguito da Valadier e il restauro del Colosseo ad opera di Stern; il secondo filone, stilistico, secondo cui il restauratore deve immedesimarsi nel progettista originario e integrarne l'opera nelle parti mancanti. Protagonista di questa seconda tendenza sarà l'architetto francese Viollet Le Duc che ricostruì le mura di Carcassonne come dovevano apparire nel Medioevo.

Verso la fine dell'800 in Italia nascono due nuovi modi di intendere il restauro architettonico: il restauro storico, finalizzato ad un ripristino integrale attraverso i documenti storiografici; il restauro filologico che riprende il concetto di riconoscibilità dell'intervento, prevede il rispetto per le aggiunte che sono state apportate al manufatto nel corso del tempo e tutela i segni del tempo.

Al giorno d'oggi gli interventi di restauro che si possono realizzare sono i seguenti: l'intervento di conservazione è finalizzato a confermare uno stato di fatto e si prefigge quindi lo scopo di arrestare le modificazioni in atto; l'obiettivo del ripristino è quello di ricondurre un sistema ad una condizione morfologica originaria, attraverso i documenti storici; infine il concetto di restauro che corrisponde all'idea di architettura come opera aperta, cioè disponibile alle interpretazioni e al giudizio.

Un esempio interpretativo è il restauro del Partenone, nella cui restauro si riproduce fedelmente l'architettura originaria, mantenendo la possibilità di distinguere chiaramente la parte antica dalle nuove aggiunte. Questo rappresenta al meglio l'idea di restauro, in quanto l'occhio coglie al meglio l'insieme, distinguendo però il nuovo dal vecchio.

Altro aspetto interessante della conservazione e utilizzazione dei centri storici riguarda l'accostamento tra vecchio e nuovo. A riguardo cito l'esempio del Museo Kolumba di Colonia realizzato da Peter Zumthor sui resti di una chiesa tardogotica distrutta in seguito alla seconda guerra mondiale. Qui il progettista non interrompe l'opera passata; prosegue infatti le antiche mura della chiesa costruendovi sopra il nuovo e attraverso il rispetto dei resti del manufatto originario crea una continuità tra passato e presente.

In questo modo l'antico diventa protagonista, e nonostante l'inserimento del nuovo, non viene contaminato, anzi al contrario viene esaltato ed è in grado di conferire maggior valore alla rovina storica.

Antico e contemporaneo possono perciò coesistere in armonia, pur sempre agendo adeguatamente nel rispetto dei caratteri, della leggibilità e dello spirito delle opere preesistenti.

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi di Palazzo Massimo alle Terme e della palazzina di Libera ad Ostia

 

Nei due casi che ci proponiamo di analizzare, il Palazzo Massimo alle Terme e la palazzina di Libera ad Ostia, si evidenziano le differenze nell'affrontare un progetto di restauro.

 

Il primo caso riguarda il Palazzo Massimo alle Terme: si tratta di un edificio costruito tra il 1883 e il 1887 nell'area dove sorgeva la cinquecentesca Villa Montalto-Peretti. Il Palazzo divenne sede di un collegio dei Gesuiti fino al 1960 e fu successivamente acquistato dallo Stato Italiano nel 1961; in seguito ad un intervento di restauro e consolidamento ad opera dell'architetto Costantino Dardi, finalizzato ad adeguare il Palazzo a spazio espositivo, ospita dal 1992 una parte del Museo nazionale Romano.

 

Il progetto di allestimento delle sale interne è stata curato dagli architetti Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia, i quali si sono dovuti confrontare con i caratteri di un edificio ottocentesco e la necessità di non stravolgere l'impianto architettonico interno, nonostante si è dovuto eseguire un cambio di destinazione.

Particolare attenzione è stata posta nella sala dell'ex teatro della scuola, con l'intenzione di conservare i caratteri preesistenti, ovvero i ballatoi, la galleria e il proscenio; dai 9 metri precedenti si è ridotta l'altezza dell'ambiente, utilizzando un sistema di pannelli sospesi, disposti su quote sfalsate in modo da creare uno spazio espositivo più raccolto e per una miglior lettura delle opere. Questo particolare accorgimento era stato pensato inizialmente come una “macchina scenica”, che con l’abbassarsi e l’alzarsi dei pannelli aveva la funzione di rievocare proprio un teatro, che però a causa della mancanza di fondi non verrà realizzato secondo questo artificio.

 

Altro aspetto interessante è quello delle scelte cromatiche: nei restauri precedenti le pareti erano di color bianco e le basi delle statue in pietra. In un secondo momento si sono rivestite le basi di un color grigio scuro e per le pareti è stato adottato un grigio più chiaro proprio per far risaltare il marmo chiaro delle statue, e sono stati utilizzati dei grigi più scuri sul fondo ai fini di creare degli assi visivi sulle opere di maggior importanza.

Anche per quanto riguarda l'illuminazione sono stati usati particolari accorgimenti. Nella sezione dedicata alla scultura, l'utilizzo del led inserito all'interno dei pannelli sospesi è risultato ottimale, in primo luogo perché crea una luce uniforme evitando l'abbagliamento e consente quindi di apprezzare al meglio le sculture marmoree, in secondo luogo perché riduce i consumi energetici e i costi di manutenzione.

Nella sezione dedicata agli affreschi di epoca augustea ritrovati nella Villa Farnesina viene adottato un sistema di illuminazione ottenuta con l'uso di tubi al neon, ottima riuscita a mio parere in quanto creando una luce diffusa e senza ombre consente di esaltare gli affreschi e di apprezzare al meglio il colore.

 

A mio avviso le soluzioni illuminotecniche sono state studiate per ogni opera in modo da valorizzarla e apprezzare la materia e i dettagli della scultura, pensate per rispondere anche alle esigenze di flessibilità d'uso.

Alcuni accorgimenti vengono studiati in modo tale da sorprendere l’osservatore, come nel caso ad esempio del Sarcofago di Portonaccio: qui i progettisti inducono il visitatore a scoprire l'opera progressivamente, prima osservandolo attraverso una piccola fessura sulla parete e poi entrando nella sala nella quale è esposto, così da apprezzarlo maggiormente.

Trovo che i risultati ottenuti riescano ad esaltare maggiormente rispetto ai restauri precedenti le sculture antiche e a comunicare agli osservatori i contenuti che queste ci trasmettono, ma per mancanza di finanziamenti non si sono potuti completare i restauri in tutte le sale; si nota quindi una netta differenza tra l'allestimento precedente e quello attuale e ciò provoca disorientamento nell'osservatore, come ho potuto infatti constatare di persona.

Per ciò che concerne l'adozione delle misure di sicurezza, a mio giudizio meno riuscito è stato l'inserimento delle scale di emergenza sul retro dell'edificio, in quanto si inseriscono in maniera inadeguata e “danneggiano” l'estetica della facciata.

 

Il secondo caso riguarda il restauro della palazzina di Adalberto Libera ad Ostia ad opera dell'architetto Roberta Rinaldi.

La Palazzina, realizzata nel 1933, simbolo dell’architettura razionalista italiana, dopo circa sessant’anni appariva in uno stato di forte degrado, dovuto alla mancata manutenzione, alla noncuranza dei condomini, al deterioramento di alcuni elementi, causato anche dagli agenti atmosferici, e agli errori condotti dai precedenti restauri.

Era necessario perciò un intervento di restauro, il cui obiettivo è stato quello di riconferire alla palazzina il suo aspetto originario.

I lavori di restauro, che hanno riguardato gli spazi comuni (atrio di ingresso e corpi scala, giardino, facciate e balconi), sono stati sin da subito problematici; trattandosi di un edificio non sottoposto ad alcun vincolo, ad eccezione di quello paesaggistico, non potevano quindi essere sovvenzionati dallo stato, ma dovevano essere sostenuti dagli stessi inquilini; perciò si è cercato di ridurre al minimo le spese (circa 200.000 euro).

Prima dell’intervento, la palazzina mostrava evidenti segni di degrado, come ad esempio la facciata, nella quale l’intonaco precedente era stato ricoperto con il quarzo plastico che, non lasciando traspirare le murature, aveva provocato il distacco di alcune parti di intonaco; inoltre le ringhiere in ferro dei balconi si erano ossidate a causa della salsedine.

Durante i lavori si sono incontrate una serie di problematiche con l'impresa e con le maestranze; per esempio le ringhiere sono state realizzate due volte, in quanto le prime, realizzate in ferro pre-zincato, dopo solo due mesi si erano già arrugginite.

Nonostante le problematiche economiche incontrate, trattandosi di un'opera sovvenzionata esclusivamente da privati, il risultato conseguito è positivo, in quanto il valore iniziale della palazzina da 1500 euro/mq è passato a 5000 euro/mq. Questo dimostra quindi che le spese di realizzazione sono state inferiori al valore finale dell'immobile che si è triplicato; ciò ha quindi contribuito a valorizzare un edificio di valore storico e culturale che si stava deteriorando in maniera quasi irreparabile.