Prime impressioni sulla fattibilità: i casi di Palazzo Massimo alle Terme e della palazzina di Libera ad Ostia

 

Nei due casi che ci proponiamo di analizzare, il Palazzo Massimo alle Terme e la palazzina di Libera ad Ostia, si evidenziano le differenze nell'affrontare un progetto di restauro.

 

Il primo caso riguarda il Palazzo Massimo alle Terme: si tratta di un edificio costruito tra il 1883 e il 1887 nell'area dove sorgeva la cinquecentesca Villa Montalto-Peretti. Il Palazzo divenne sede di un collegio dei Gesuiti fino al 1960 e fu successivamente acquistato dallo Stato Italiano nel 1961; in seguito ad un intervento di restauro e consolidamento ad opera dell'architetto Costantino Dardi, finalizzato ad adeguare il Palazzo a spazio espositivo, ospita dal 1992 una parte del Museo nazionale Romano.

 

Il progetto di allestimento delle sale interne è stata curato dagli architetti Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia, i quali si sono dovuti confrontare con i caratteri di un edificio ottocentesco e la necessità di non stravolgere l'impianto architettonico interno, nonostante si è dovuto eseguire un cambio di destinazione.

Particolare attenzione è stata posta nella sala dell'ex teatro della scuola, con l'intenzione di conservare i caratteri preesistenti, ovvero i ballatoi, la galleria e il proscenio; dai 9 metri precedenti si è ridotta l'altezza dell'ambiente, utilizzando un sistema di pannelli sospesi, disposti su quote sfalsate in modo da creare uno spazio espositivo più raccolto e per una miglior lettura delle opere. Questo particolare accorgimento era stato pensato inizialmente come una “macchina scenica”, che con l’abbassarsi e l’alzarsi dei pannelli aveva la funzione di rievocare proprio un teatro, che però a causa della mancanza di fondi non verrà realizzato secondo questo artificio.

 

Altro aspetto interessante è quello delle scelte cromatiche: nei restauri precedenti le pareti erano di color bianco e le basi delle statue in pietra. In un secondo momento si sono rivestite le basi di un color grigio scuro e per le pareti è stato adottato un grigio più chiaro proprio per far risaltare il marmo chiaro delle statue, e sono stati utilizzati dei grigi più scuri sul fondo ai fini di creare degli assi visivi sulle opere di maggior importanza.

Anche per quanto riguarda l'illuminazione sono stati usati particolari accorgimenti. Nella sezione dedicata alla scultura, l'utilizzo del led inserito all'interno dei pannelli sospesi è risultato ottimale, in primo luogo perché crea una luce uniforme evitando l'abbagliamento e consente quindi di apprezzare al meglio le sculture marmoree, in secondo luogo perché riduce i consumi energetici e i costi di manutenzione.

Nella sezione dedicata agli affreschi di epoca augustea ritrovati nella Villa Farnesina viene adottato un sistema di illuminazione ottenuta con l'uso di tubi al neon, ottima riuscita a mio parere in quanto creando una luce diffusa e senza ombre consente di esaltare gli affreschi e di apprezzare al meglio il colore.

 

A mio avviso le soluzioni illuminotecniche sono state studiate per ogni opera in modo da valorizzarla e apprezzare la materia e i dettagli della scultura, pensate per rispondere anche alle esigenze di flessibilità d'uso.

Alcuni accorgimenti vengono studiati in modo tale da sorprendere l’osservatore, come nel caso ad esempio del Sarcofago di Portonaccio: qui i progettisti inducono il visitatore a scoprire l'opera progressivamente, prima osservandolo attraverso una piccola fessura sulla parete e poi entrando nella sala nella quale è esposto, così da apprezzarlo maggiormente.

Trovo che i risultati ottenuti riescano ad esaltare maggiormente rispetto ai restauri precedenti le sculture antiche e a comunicare agli osservatori i contenuti che queste ci trasmettono, ma per mancanza di finanziamenti non si sono potuti completare i restauri in tutte le sale; si nota quindi una netta differenza tra l'allestimento precedente e quello attuale e ciò provoca disorientamento nell'osservatore, come ho potuto infatti constatare di persona.

Per ciò che concerne l'adozione delle misure di sicurezza, a mio giudizio meno riuscito è stato l'inserimento delle scale di emergenza sul retro dell'edificio, in quanto si inseriscono in maniera inadeguata e “danneggiano” l'estetica della facciata.

 

Il secondo caso riguarda il restauro della palazzina di Adalberto Libera ad Ostia ad opera dell'architetto Roberta Rinaldi.

La Palazzina, realizzata nel 1933, simbolo dell’architettura razionalista italiana, dopo circa sessant’anni appariva in uno stato di forte degrado, dovuto alla mancata manutenzione, alla noncuranza dei condomini, al deterioramento di alcuni elementi, causato anche dagli agenti atmosferici, e agli errori condotti dai precedenti restauri.

Era necessario perciò un intervento di restauro, il cui obiettivo è stato quello di riconferire alla palazzina il suo aspetto originario.

I lavori di restauro, che hanno riguardato gli spazi comuni (atrio di ingresso e corpi scala, giardino, facciate e balconi), sono stati sin da subito problematici; trattandosi di un edificio non sottoposto ad alcun vincolo, ad eccezione di quello paesaggistico, non potevano quindi essere sovvenzionati dallo stato, ma dovevano essere sostenuti dagli stessi inquilini; perciò si è cercato di ridurre al minimo le spese (circa 200.000 euro).

Prima dell’intervento, la palazzina mostrava evidenti segni di degrado, come ad esempio la facciata, nella quale l’intonaco precedente era stato ricoperto con il quarzo plastico che, non lasciando traspirare le murature, aveva provocato il distacco di alcune parti di intonaco; inoltre le ringhiere in ferro dei balconi si erano ossidate a causa della salsedine.

Durante i lavori si sono incontrate una serie di problematiche con l'impresa e con le maestranze; per esempio le ringhiere sono state realizzate due volte, in quanto le prime, realizzate in ferro pre-zincato, dopo solo due mesi si erano già arrugginite.

Nonostante le problematiche economiche incontrate, trattandosi di un'opera sovvenzionata esclusivamente da privati, il risultato conseguito è positivo, in quanto il valore iniziale della palazzina da 1500 euro/mq è passato a 5000 euro/mq. Questo dimostra quindi che le spese di realizzazione sono state inferiori al valore finale dell'immobile che si è triplicato; ciò ha quindi contribuito a valorizzare un edificio di valore storico e culturale che si stava deteriorando in maniera quasi irreparabile.