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CONSIDERAZIONI SULLA VISITA ALLA VILLA CAPO DI BOVE SULL’APPIA ANTICA E AL CANTIERE DEL TEATRO ARGENTINA

 

Nelle ultime due settimane abbiamo visitato due edifici molto diversi per posizione, storia e funzione, che , però, rappresentano dei luoghi di grande interesse storico e culturale a Roma.

La villa Capo di Bove sull’Appia Antica è immersa nel parco archeologico più grande del mondo, attualmente comprende gli scavi di un impianto termale risalente al II secolo d.C. e la villa, che dal 2008, ospita l’archivio Antonio Cederna. Antonio Cederna è stato un giornalista, ambientalista, politico e intellettuale italiano, venuto a mancare nel 1996.Cederna si è dedicato alla denuncia sistematica dell'attività di rovina dei beni culturali e del territorio italiani, in un periodo di ripresa economica e di ricostruzione in cui erano sempre più grandi le minacce al patrimonio artistico, storico e paesaggistico italiano. Tra le sue battaglie, quella per la tutela dell'Appia Antica è stata presente durante tutta la sua esistenza: ad essa ha dedicato più di 140 articoli. Nel 1993 è stato nominato Presidente dell’Azienda Consortile per il Parco dell'Appia Antica, e si batte duramente perché il progetto del Parco possa decollare. La presenza dell’archivio Cederna nella Villa Capo di Bove potrebbe inizialmente risultare poco adeguata, ma se si analizza la storia e l’evoluzione di questo luogo, si comprende come, questa scelta, sia stata intelligente e rispecchi pienamente gli intenti che la lunga lotta di Cederna si era prefissata.

La proprietà del lotto della villa nel II secolo d.C., risale alla vasta tenuta agricola di Erode Attico, nel Medioevo diventa un fortilizio mantenendo le caratteristiche agricole, divenendo poi un bene Pontificio. Nel 1945 avviene il cambiamento della tenuta da uso agricolo ad uso residenziale. Streccioni, un famoso produttore cinematografico, compra la tenuta, commissionando un progetto di recupero, realizzando un casale con aspetto antico con il corpo scala impostato sulla cisterna dell’antico impianto termale e giardino con piscina. Negli anni 50 l’Appia Antica si presenta come uno scenario perfetto dove grandi imprenditori e personalità famose si costruiscono la propria villa, andando ad alterare quei luoghi e ad utilizzare i vari resti antichi come collezioni private o rivendendoli. La villa costruita in questi anni si presenta come un collage antico, la facciata presenta un ampio campionario di spolia provenienti, per la gran parte, dalle zone circostanti. Il gusto è molto sfarzoso e pacchiano, tipico di quegli anni e di quella specifica classe sociale, di cui possiamo, ancora oggi, avere qualche esempio in qualche elemento di arredo ancora presente, come le porte dei piani superiori.

Nel 2002 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, su proposta della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, ha acquistato la proprietà esercitando il diritto di prelazione sul bene vincolato. La villa era stata valutata 1 milione e 300 mila euro. Questa operazione è stata uno dei pochi casi in cui lo Stato si riappropria di un bene privato, avvia un progetto di recupero  e rende l’area aperta al pubblico. Nel 2002 si sono avviati i lavori di scavo sull’area archeologica che ha portato alla scoperta di un’impianto termale inedito, di proprietà privata ad uso, probabilmente, di un collegio sacerdotale. Attualmente, ci si è dedicati alla sistemazione dell’area archeologica, per rendere visitabili i resti ancora leggibili, interessante l’idea di riproporre l’idea di una pavimentazione in mosaico bicromo utilizzando sassolini bianchi e grigi e una pavimentazione in laterizio con sassolini color cotto. L’area archeologica era anche occultata dalla strada che dall’ingresso sulla Via Appia, proseguiva dritta fino all’ingresso della villa, è stato, di conseguenza, scelto di modificare il percorso verso la villa rendendolo serpeggiante, adattandolo alla struttura termale e agli alberi presenti nell’area e cambiando la percezione del lotto, che non risulta più stretto e lungo, ma molto più vasto e arioso.

Per quanto riguarda la villa stessa, il progetto è andato a ripristinare i vari ambienti e a modificare l’impianto esistente inserendo un elevatore per il collegamento con i piani superiori. Una scelta poco riuscita è stata la modifica degli infissi delle finestre. Gli infissi che originariamente erano in legno, oggi si presentano in un acciaio molto scuro che lega poco con lo stile della villa, evidenziato da un imprevisto in corso d’opera che ha portato alla realizzazione di cornici di infisso molto spesse ed esteticamente poco apprezzabili. Un appunto al progetto che è uscito fuori durante la nostra visita è stata l’assenza di pannelli esplicativi che spiegassero che sotto la villa fosse presente una cisterna romana, visibile nel prospetto esterno, poichè la muratura si appoggia sui resti dell’opera cementizia in scaglie di selce. Questo particolare non è, però, evidente per chi viene a visitare la villa e non ha le conoscenze adatte per motivare questa disomogeneità nella muratura. Ci è stato spiegato che questi pannelli esplicativi sono stati collocati nella ex depandance che oggi viene usata come punto ristoro, non sono quindi assenti, ma probabilmente mal collocati, poichè per chi entra direttamente nella villa non c’è la possibilità di leggere queste informazioni utili ad una visita corretta dell’edificio.

Per quanto riguarda la visita al cantiere del Teatro Argentina, essendo un cantiere ancora operativo ci è stato molto utile per poter comprendere e vedere di persona come è organizzato un lavoro di restauro per una facciata di un edificio del centro storico di Roma. Il teatro risale al 1732, ma la facciata viene realizzata quasi un secolo dopo. Il teatro era costruito originariamente tutto in legno, ad esclusione, solo delle mura e delle scale in muratura; la sala fu progettata con la forma a ferro di cavallo per soddisfare al meglio le necessità acustiche e visive.

Nella sua storia recente, il teatro ha subito due interventi di restauro, uno negli anni 70 e uno nel 1993. Con gli interventi portati avanti negli anni 70, invece di portare delle migliorie, si sono andate a peggiorare soprattutto le capacità di resistenza della struttura, sono, infatti, state rimosse le capriate in legno della copertura per motivi sismici, e si è aggiunto lungo il perimetro dell’edificio un cordolo in cemento armato. Questo tipo di interventi, molto in voga in quegli anni, avevano l’intento di portare le strutture a capacità resistenti maggiori, soprattutto per eventi sismici, la storia ci ha però dimostrato come molto spesso questi interventi abbiano creato grossi problemi a livello strutturale, peggiorando le capacità di resistenza della struttura. Nei restauri del 1993 si è intervenuto sulla facciata principale, andando a stendere un intonaco realizzato con resine acriliche, che hanno creato come una pellicola che non permetteva la traspirazione dell’intonaco e del muro, comportando problemi di lesioni e microfessurazioni. Per quanto riguarda il gruppo scultoreo posizionato a coronamento della facciata nella parte centrale, si erano realizzati delle reintegrazioni in cemento di alcuni elementi rovinati o mancanti e si è applicato un manto di calce cementizia su tutte le statue contenente una parte di polvere di marmo eccessiva, andando a omogeneizzare gli elementi e perdendo gli effetti di profondità tipici delle sculture. I restauri, che sono attualmente in corso d’opera, hanno come committenza l’impresa stessa che si occupa della realizzazione dei lavori e quindi da un privato, e sono comunque finanziati dalla pubblicità, i ponteggi sono, infatti, coperti da un telo con una stampa pubblicitaria. Un sacrificio che si può sopportare in vista di un lavoro che riporti questo teatro allo splendore che merita.Il fatto di trovarci nel centro storico presenta vari tipi di vincoli nell’affrontare un progetto di restauro di una facciata, si deve aggiungere, inoltre, che ci troviamo a meno di 50 m da un’area archeologica, e quindi si è ulteriormente soggetti a limitazioni normative per la tutela dei beni storici e culturali. L’attuale progetto, in linea con i principi di restauro compatibile e filologico, si è occupato di descialbare le integrazioni realizzate con resine acriliche e andare a rimuovere le aggiunte in cemento, alleggerendo il gruppo scultureo e ristendendo uno strato di intonaco a calce con una colorazione che non tendesse ad appiattire le figure scultoree. Per quanto riguarda, invece, il resto della facciata, si sono portate avanti varie indagini stratigrafiche per poter rintracciare la facies originaria del teatro. Nel tempo, infatti, la facciata era divenuta color ocra, con tonalità, mano a mano, sempre più scure. Attualmente si è cercato di ridare alle parti trattate a finto bugnato un color travertino, e si stanno cercando di fare varie prove di colore per le parti fondali. Un altro intervento interessante è stato il ripristino del color legno per gli infissi che nel tempo erano stati ricoperti di uno smalto color grigio.

Il poter toccare con mano un cantiere di questa importanza ci ha permesso di capire come si svolga il lavoro effettivo in un progetto di restauro, di poter colloquiare con i responsabili del progetto e anche con chi realizza ciò che il progetto prevede. Ci siamo inoltre resi conto, anche in questo caso, dell’importanza che riveste il responsabile della sicurezza del cantiere, che permette di svolgere il lavoro in situazioni e tempi migliori. Per ultimo, ma non meno importante, quanto sia essenziale che le varie figure professionali che lavorano allo stesso progetto, collaborino, coscienti delle proprie competenze, per ottenere un lavoro eccellente sotto tutti i punti di vista.

Considerazioni sulla lezione “IL VALORE DELLA PERMANENZA”

Noi non inventiamo una nuova architettura ogni lunedi mattina”  Mies van der Rohe.

Quando si parla di permanenza si può pensare a diverse sfaccettature di questo termine, ma associandolo all’architettura, il significato si restringe in qualcosa che ha una continua presenza nel tempo. Il compito di un architetto è stato, è e sarà, inevitabilmente, legato al concetto di permanenza, che si tratti di un progettista, urbanista o restauratore. In tutte le discipline ci si andrà a scontrare, per forza di cose, con questa problematica, che porta a compiere una scelta: cosa far persistere nel tempo e come.

Aldo Rossi nella sua vita di architetto, affronta il concetto di permanenza, dando una sua  interpretazione, a questa problematica, direttamente nelle sue opere. Secondo Rossi, il compito dell’architetto è quello di studiare gli edifici della città, dedurre le tipologie di base su cui si sono formati e successivamente utilizzarli nella progettazione delle nuove strutture. Dietro a tutto ciò, vi è la nozione platonica secondo cui l’architettura è basata su una serie di forme ideali che sono distorte per adattarsi a situazioni particolari. Il procedimento di indagine cambia al momento del progetto, in cui si cerca di creare una trasformazione (che sia legata all’innovazione) mantenendo un forte rispetto verso la storia e la permanenza. La sua ispirazione all’architettura antica venne spesso fraintesa. Vi fu chi lo accusò di monumentalismo, persino di fascismo e di storicismo stilistico, senza capire come egli abbia invece assunto sulle proprie spalle, con la sua architettura, tutto il peso delle contraddizioni della storia dell' Europa. Per Rossi la forma era più durevole della funzione, e pertanto una teoria di architettura doveva prendere in considerazione l’aspetto della permanenza delle forme architettoniche. L’esempio più convincente di Rossi a supporto della sua tesi è il Palazzo della Ragione a Padova. Il Palazzo della Ragione era l'antica sede dei tribunali cittadini di Padova, ed è senz'altro la più importante architettura civile rimasta del Medioevo padovano. Fu eretto a partire dal 1218 e sopraelevato nel 1306 da Giovanni degli Eremitani, che gli diede la caratteristica copertura a forma di carena di nave rovesciata. Il piano superiore è occupato dalla più grande sala pensile del mondo, detto "Salone" (misura 81 metri per 27 ed ha un'altezza di 27 metri) con soffitto ligneo a carena di nave. L'edificio conserva ancora al piano terreno la destinazione commerciale per la quale è stato creato; il piano superiore, scomparsa la funzione di tribunale, è divenuto sede delle più importanti manifestazioni culturali cittadine ma, per la sua natura artistica e monumentale, è soprattutto museo di se stesso e come tale viene riconosciuto e vissuto.

Un altro personaggio italiano che ha segnato profondamente la storia dell’architettura italiana del 900 è sicuramente Franco Albini. Egli appartiene alla prima generazione di quegli architetti italiani che hanno saputo interpretare i più avanzati principi della modernità europea, alla luce della tradizione storica nazionale. Albini ha manifestato sempre la volontà di confrontarsi con la materia, piegandola alla dimensione artigianale, fino a comporre spazi costruiti “con l’aria e con la luce” declinati in opere urbane, oggetti di design, allestimenti espositivi e museali. Rappresenta un architetto che disegna il contemporaneo ma guarda al passato, del resto, lui stesso ammetteva di prendere spunto per i suoi progetti da architetture neoclassiche. Uno degli edifici che meglio esplica il suo modo di operare e le sue scelte è sicuramente il progetto per i grandi magazzini La Rinascente a Roma del 1957. L’edificio è costituito da sei piani fuori terra e tre sotterranei destinati ad impianti e servizi. La maglia strutturale è in ferro dal primo sotterraneo alla copertura. Il tamponamento, realizzato con pannelli prefabbricati in graniglia di granito e marmo rosso, è studiato per contenere le canalizzazioni degli impianti. Anche in questo edificio, dove il linguaggio architettonico si arricchisce degli esiti di una sempre più affinata ricerca tecnologica, è possibile leggere quel rapporto tra modernità e tradizione che è un tema costante nella riflessione di Franco Albini. La Rinascente si colloca nel contesto della città di Roma cogliendo una serie di suggestioni del suo ambiente e dei suoi colori e riferendosi alla tradizione storica dei palazzi rinascimentali e delle vicine mura aureliane.

Un personaggio che, a suo modo, continua questa ricerca personale di continuità con il passato è Josè Ignacio Linazasoro. Il filo conduttore che lega il percorso di Linazasoro è far risiedere nel progetto la capacità di definire una teoria in continuità con le architetture che lo hanno preceduto e con le questioni, sempre le stesse e quindi, inevitabilmente, senza tempo, a cui dare risposta. E’ solo nella capacità di affermare una continuità con l’architettura del passato che è possibile cogliere un pensiero autenticamente moderno. Viceversa il carattere più innovativo dell’architettura, e quindi la qualità del progetto, sta proprio nella capacità di rappresentare questa continuità, senza sentimentalismi o operazioni stilisticamente mimetiche, ma anche senza superficiali atteggiamenti modernisti che nascondono, dietro stupefacenti invenzioni tecnologiche, la propria vacuità. Un progetto che rappresenta significativamente l’approccio di Linazasoro verso l’architettura antica è l’intervento alla Escuelas Pias de San Fernando, un ampio progetto di riqualificazione del quartiere degradato di Lavapies, nel cuore di Madrid. Lo spazio urbano era dominato dalle rovine della chiesa, del complesso conventuale e del collegio di San Fernando, distrutti durante la guerra civile spagnola. Il progetto prevedeva il restauro della chiesa, priva di cupola e soggetta all’incuria, da adibire a biblioteca. Linazasoro compie la difficile scelta di conservare la struttura portante settecentesca, cogliendo suggestioni dai muri a vista e da alcuni lacerti di intonaco. L’intervento rilegge la preesistenza attraverso elementi fondamentali come l’uso di materiali differenti e l’illuminazione, che serve ad esaltarli. Per raggiungere questo scopo, il progettista realizza uno spazio dove le trame costruttive, sottolineate dalla luce naturale, costituiscono gli elementi espressivi del nuovo manufatto architettonico. Non ricostruisce la cupola, ma crea una copertura di legno lamellare, tagliata per consentire il passaggio della luce. Il fronte esterno costituisce un’interessante palinsesto che coniuga l’immagine a rudere della chiesa con l’inserimento di aperture, che segnano la nuova muratura in mattoni. Non mancano riferimenti ai resti di alcune parti decorative, che vengono esposte sul fronte principale con una sorta di riferimento archeologico. Tutta la “rovina” aveva bisogno di maggiore unitarietà e così è stato prescelto il mattone per cercare di ottenere un’immagine di forte coesione tra il nuovo e il vecchio. Si tratta di un materiale che, anche se non molto presente nel centro di Madrid, almeno nelle costruzioni posteriori al XVIII secolo, corrispondeva bene a questi impegnativi requisiti di uniformità. Si è cercato di mostrare la possibilità di integrazione tra ciò che è antico e il nuovo, a partire dal progetto.

“In un certo senso, ho voluto creare una continuità materica, ma con, allo stesso tempo, una discontinuità concettuale. Quando devo intervenire in un edificio storico, il mio intento è sempre di proporre un ordine nuovo in cui i resti dell’antico rimangano e vengano integrati nella costruzione recente.” Jose Ignacio Linazasoro.

Ciò che un architetto si trova a dover decidere al momento di intervenire su qualcosa di già costruito può portare a diverse scelte. Non è, obbligatoriamente, scontato approcciarsi all’antico con lo stesso linguaggio, materico o stilistico, per poterlo far sopravvivere in modo dignitoso e leggibile. Gli esempi che abbiamo analizzato ci fanno capire che non è necessaria una ricostruzione mimetica per rendere un’architettura ancora viva e fruibile. La scelta sta al progettista, si devono valutare attentamente tutte le possibili opzioni, cercando di tener presente il fine del progetto, ovvero conservare e tramandare un “valore” al futuro, con mezzi e modi che possono essere differenti e cambiare a seconda delle occasioni.

Considerazioni sulle ultime lezioni del modulo di Estimo

 

(In: C. Brandi et alii, voce Restauro, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. XI, col. 322 e ss., ms coll. 344-351, Venezia-Roma 1963)                                                                                                                        “ Il restauro architettonico è concezione tipicamente moderna, che muove da un modo nuovo e diverso di considerare i monumenti del passato e di intervenire su di essi, modificandone la forma visibile e l'organismo statico e strutturale. Il principio fondamentale del restauro, rimasto costantemente a base delle dottrine che si sono susseguite nel corso del secolo XIX, è quello di restituire l'opera architettonica al suo mondo storicamente determinato, ricollocandola idealmente nell'ambiente dove è sorta e considerandone i rapporti con la cultura ed il gusto del suo tempo; e contemporaneamente quello di operare su di essa per renderla nuovamente viva ed attuale, quale parte valida ed integrante del mondo moderno. [...]”

Il restauro architettonico è una disciplina che, nonostante sia nata di “recente”, ha visto nella sua breve storia fino ad oggi, un susseguirsi di diverse interpretazioni e idee conduttrici che l’hanno caratterizzata nei diversi periodi storici. E’ pur vero che, al di là dei gusti e delle tendenze, il restauro porta con sè delle problematiche che, inevitabilmente, non trovano delle soluzioni assolute.

Pur essendo presenti degli articoli di legge ( Legge 457/48- articolo 31) che definiscono in maniera sistematica gli interventi di recupero del patrimonio edilizio, la disciplina del restauro lascia sempre aperte molte chiavi di lettura e, soprattutto, è soggetta fortemente a giudizi e interpretazioni, che per natura sono soggettivi.

Di solito, quando si parla di restauro, si pensa subito all’antico, e attualmente, dopo le svariate barbarie architettoniche degli anni passati, si è arrivati a una sorta di venerazione di tutto ciò che appartiene al passato, tale da lasciare i vari edifici o monumenti in una sfera di cristallo, che però, non sempre, è sintomo di una buona salute. Questa visione è tipicamente italiana, negli altri paesi esteri il rapporto con l’antico è visto con molta più disinvoltura. Questo atteggiamento, viene spesso associato ad una cultura meno attenta e rispettosa della storia, ma non è sempre così. Alcuni interventi permettono di mantenere in vita, in maniera del tutto decorosa, edifici di pregio, conferendogli un nuovo aspetto e mantenendone la fruibilità.  E’ il caso del Kolumba Museum di Colonia realizzato da Peter Zumthor, dove l’architetto affronta il compito di ordinare a esposizione permanente il complesso spazio di un antico edificio.

Zumthor succede ai costruttori del passato “senza spezzarne l’opera”. Non è il desiderio fine a se stesso di innovare o di inserire lo spazio museale nel consumo turistico di massa, ma sono il rispetto verso il progetto originario e la ricerca coerente e filologica a guidare il suo lavoro. Il suo progetto viene apprezzato e appoggiato dai committenti dell’Archidiocesi di Colonia e riceve l’assenso, non scontato, della Soprintendenza ai Monumenti.

Un altro esempio è il Museo del Teatro Romano di Cartagena di Rafael Moneo in Spagna. Con il ritrovamento dei resti archeologici del Teatro Romano risalente al I secolo a.C., l'architetto viene incaricato dalla fondazione composta dalla regione della Murcia, il Municipio di Cartagena, la fondazione Cajamurcia e l’impresa Saras Energia S.A. della creazione di un nuovo museo in grado di accogliere i pezzi raccolti durante le varie campagne di scavo. Il progetto finale è un edificio che lavora sull'idea dello scavo come momento evocativo. 

In Italia, invece, molti edifici storici, essendo considerati intoccabili, sono lasciati in stato di abbandono o di rudere, nel gusto tipicamente romantico. Risulta necessario, quindi, prendere delle decisioni, scegliere se intervenire e con quali metodologie. Attualmente l’intento degli interventi di restauro è quello di riportare il monumento al suo stato ideale, con materiali e tecniche compatibili a quelli originali.  Se, però, il monumento per incuria, manutenzioni sbagliate, uso improprio, risulta fortemente alterato rispetto alla sua configurazione originale, la tendenza è spesso quella di lasciarlo così com’è. I motivi sono di varia natura, tra i più determinanti troviamo sicuramente le ingenti spese che gli interventi di restauro con materiali e maestranze e manodopera ricercate, comportano.

Queste problematiche non variano se si parla di architettura moderna.

Se alcuni edifici antichi sono trattati con profonda venerazione e rispetto, non si può dire lo stesso di alcuni esempi di architettura più recente, che magari fanno riferimento ad un periodo storico particolarmente controverso.

E’ il caso della Casa delle Armi di Luigi Moretti, realizzata nel grande complesso, finanziato dallo Stato, del Foro Italico nel 1933.

Moretti, oggi, è considerato uno dei massimi architetti nel Novecento in Italia.  A lungo il suo nome è rimasto però isolato, a causa dei suoi ideali politici, venendo collegato inevitabilmente con il periodo fascista.

Nel 1974 l’edificio in stato di abbandono deve subire degli interventi di manutenzione, si decide così di cambiarne la destinazione d’uso, trasformandolo in un tribunale politico con carcere e caserma dei carabinieri. Vengono costruiti circa 7000 mc all’interno dell’edificio in più, rispetto al progetto originale, andando a modificare in maniera irreversibile gli spazi e le forme così attentamente studiate e volute da Moretti. Anche il rivestimento esterno viene fortemente alterato, manomettendo la lastre marmoree, con un diverso sistema di ancoraggio alla struttura rispetto a quello previsto dal progetto.

Attualmente la Casa delle Armi si trova in uno stato di degrado molto avanzato, la stima dei costi per restituirlo allo stato ideale sarebbe di circa 15 milioni di euro, una cifra che non può essere sostenuta certamente dalle casse dello Stato. Servirebbe quindi un “mecenate” che si prenda la cura di investire nella Casa delle Armi, come sta accadendo per il Colosseo con Della Valle. E’ ovvio, però, che l’interesse che attira il Colosseo rispetto all’edificio di Moretti non è minimamente paragonabile in termini di ritorni economici.

C’è chi sostiene che, data la situazione, sarebbe meglio demolire l’edificio, piuttosto che lasciarlo nelle condizioni odierne. Non posso pensare di arrendermi all’idea di trovarmi in un Paese dove sia meglio cancellare l’esistenza di un edificio di tale valore che investire su di esso. Probabilmente, con dei sacrifici sia economici che concettuali, con delle scelte oculate e con una politica di sostegno a questi interventi di riqualificazione, la Casa delle Armi potrebbe tornare, se non allo splendore originario, almeno ad un aspetto dignitoso e accettabile, diventando uno spazio nuovamente fruibile e con una destinazione d’uso rispettosa, utile e consona.

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi del palazzo Massimo alle terme e della palazzina di Libera a Ostia.

I due casi che abbiamo analizzato di interventi di restauro o ripristino di edifici di valore storico, ci hanno posto di fronte alle diverse problematiche e tematiche che si devono affrontare quando si interviene nel costruito.

Per quanto riguarda il caso del palazzo Massimo alle Terme, l’intervento avviene su un edificio di fine ottocento, la cui primaria funzione era quella di collegio e che oggi, invece, è diventato la sede centrale del Museo Nazionale Romano.

La visita in loco, guidati dall’architetto Celia, ci ha fatto comprendere quali intenti e quali diffocoltà hanno caratterizzato l’attuazione del progetto di restauro. Molta attenzione è stata posta verso l’allestimento dei diversi ambienti che compongono il percorso di visita del museo. Si è cercato di creare degli spazi adatti a valorizzare gli oggetti antichi, senza alterare in maniera eccessiva gli ambienti che li ospitano, rispettando la loro storia e senza negare la loro vecchia funzione. Un caso esemplare è, per esempio, la sala dell’ex teatro dove, nonstante le scelte di trattamento delle superfici con colori diversi dagli orginali e l’inserimento di impianti di illuminazione applicati su pannelli sospesi dal soffitto che vanno a diminuire il volume dell’ambiente, si cerca di mantenere l’impianto originario che viene richiamato anche dai balconi correnti lasciati in vista.

Per quanto riguarda la riproposizione di affreschi o mosaici, si è cercato di ricreare gli ambienti per come erano originariamente in modo da rendere i pezzi antichi intellegibili, anche con il supporto di impianti di illuminazione posti in copertura che vanno a riprodurre la variazione della luce per come è percepita durante l’arco di una giornata.

L’attenzione primaria è posta sempre verso la valorizzazione dei pezzi antichi, ciò, però, non può ignorare delle necessità pratiche, di tipo economico, di sicurezza, ecc, che invitabilmente obbligano a scendere a dei compromessi. In questo caso i lavori sono stati in parte finanziati dalla Sovrintendenza, ed i committenti pur avendo presentato ogni tanto delle perplessità riguardo alcune scelte di progetto, si sono mostrati abbastanza aperti al dialogo ed attenti a scelte colte e studiate.

L’imminente inaugurazione della mostra temporanea “I regni immaginari” ospitata in un’ ala del museo, ci ha fatto comprendere “dal vivo” quanti problemi possano sorgere in fase di attuazione di un progetto.   

Per quanto riguarda, invece, la palazzina di Adalberto Libera ad Ostia,si passa ad un progetto che, a differenza del caso precedente, tratta interventi prevalentemente su spazi esterni, all’aperto. La palazzina che negli anni 30 del Novecento, si presentava come un gioiello del razionalismo italiano, dopo circa sessant’anni di vita era ridotta in stato di forte degrado e rischiava l’abbattimento per motivi di sicurezza poichè considerato un edificio pericolante.

In questo caso l’intervento è stato spinto dalla volontà di riportare questo edificio, se non alla bellezza originale, almeno ad uno status decoroso. Tramite il percorso dell’ante e post restauro proposto dall’architetto Rinaldi, abbiamo compreso come i lavori di restauro abbiano incontrato, sin da subito, diversi ostacoli.

Il badget disponibile per i lavori di restauro era molto limitato, così i vari imprevisti in corso d’opera, hanno comportato delle scelte sugli interventi da compiere più urgenti.

In una manutenzione ordinaria degli anni 70/80 circa, sulle superfici esterne dell’edificio è stato steso un intonaco di rivestimento contente quarzo plastico, questo ha compromesso fortemente le facciate che con il tempo hanno riportato importanti distacchi di parti di intonaco, dovuti alla poco traspirazione delle murature. La rimozione di questo strato di intonaco ha gravato molto sulle spese di cantiere. Tra le varie accortezze portate avanti negli ultimi lavori, c’è stata invece l’attenzione alla durabilità degli interventi e comunque alla previsione di una manutenzione poco frequente e onerosa.

Un problema da non sottovalutare, quando si lavora su edifici privati, è il rapporto con i proprietari. In questo caso, pur essendo soltanto tre condomini, è stato difficile far comprendere l’importanza di certe scelte di cantiere, soprattutto perchè le spese ricadevano principalmente su questi. Non sempre si collabora con persone con una sensibilità culturale che permetta di rendere comprensibile l’intento di un progetto di restauro filologico. Ed è anche vero che il valore degli appartamenti che, prima del restauro era di 1500 €/mq è diventato di 5000 €/mq, cifre che non si possono sottovalutare. L’edificio di Libera, sebbene sia considerato un elemento di valore storico ed artistico non è soggetto a vincoli di nessun tipo e non si è potuto usufruire di nessun tipo di finanziamento pubblico. E’ stata, infatti, necessaria la ricerca di uno sponsor, che però è riuscito a sostenere le spese in modo consistente.

Anche in questo caso, gli imprevisti in fase di attuazione non sono mancati, un esempio sono le ringhiere dei balconi che dopo essere state montate sono arrugginite in breve tempo. In questo caso, oltre all’imprevisto in se, il fatto di dover rifare da capo le ringhiere ha comportato delle spese non previste che hanno inciso sugli altri interventi previsti.