blog di Chiara Del Giudice

Considerazioni sulla visita alla Villa Capo di Bove ed al cantiere del Teatro Argentina

 

Villa Capo di Bove

Il Parco dell‘Appia Antica è un’area protetta di interesse regionale ed è stato istituito nel 1988 a seguito di una lunga battaglia condotta da Antonio Cederna insieme ad un gruppo di architetti, urbanisti, giornalisti ed intellettuali con la finalità di salvaguardare la zona dai continui tentativi di cementificazione selvaggia e di conservare e valorizzare il territorio in essa compreso. La superficie del parco di circa 3.400 ettari comprende la via Appia Antica e le sue adiacenze per un tratto di 16 chilometri, la valle della Caffarella, l’area archeologica della via Latina, l’area archeologica degli Acquedotti, la Tenuta di Tormarancia e quella della Farnesiana.

La villa visitata si colloca proprio in questa zona, specificatamente lungo la via Appia antica, strada realizzata nel 312 a.C. per volere del console Appio Claudio Cieco Il cui percorso originale collegava l'Urbe (partendo da Porta Capena, vicino alle Terme di Caracalla) con Ariccia, il Foro Appio, Terracina, Fondi, Itri, Formia, Minturno, Mondragone ed infine Capua e successivamente ampliata (268 a.C.) fino a Benevento e Venosa. Nel 191 a.C , la strada venne prolungata fino a Taranto e Brindisi il principale porto per la Grecia e per l’Oriente.

La proprietà è collocata a 450 m dal Mausoleo di Cecilia Metella ed a 250 dal limite delle mura del Castrum Caetani. In età medievale la zona era denominata “Casale di Capo di Bove e di Capo di Vacca”, toponimo originato dai bucrani che ancora oggi ornano il fregio posto alla sommità del sepolcro di Cecilia Metella, ed essa mantenne caratteristiche agricole fino a tempi recenti. L’edificio principale presente nell’area, censito nel catasto Pio Gregoriano (1812-1835), di proprietà privata dal 1870 mantenne come detto in precedenza l’uso agricolo fino al 1945 anno in cui acquistato da una famiglia di grossisti ortofrutticoli, i Romagnoli, fu trasformato ad uso residenziale dando inizio ad un nuovo periodo per la tenuta e per l’intera area. Periodo caratterizzato dalle logiche imprenditoriali ed occupazionali di questa fase storica italiana in cui l’abusivismo, se paragonato a quello speculativo degli anni successivi, poteva essere considerato per così dire “illuminato” ma pur sempre pericoloso e dannoso per le zone in cui si andava ad edificare.

Nel 1962 la villa passò nelle mani di Sauro Streccioni, un produttore cinematografico, il quale sulla scia della moda del momento della costruzione da parte di imprenditori ed attori della propria residenza privata  nella zona, fece “recuperare” l’edificio probabilmente da un architetto della scuola di Busiri Vici, basando il progetto su quello stile antiquario caratteristico del linguaggio del noto architetto.

Agli inizi del 2000 Streccioni tentò la vendita della residenza, commettendo però l’errore che riuscì a portare alla “salvezza” di quest’aera. Dichiarando infatti un prezzo troppo basso per essere un accordo del tutto legale, scoperto da un  funzionario statale, fu costretto a vendere la villa al Ministero dei beni culturali, il quale esercitando il diritto di prelazione sul bene vincolato rese pubblica la villa riuscendo a bloccare i possibili abusi futuri.

Dal 2002 si è quindi iniziato il recupero dell’intera area, la quale oltre alla villa comprende anche i resti di un importante impianto termale databile a circa la metà del II sec. d.C. ed una grande superficie di parco.

L’impianto termale, posto all’ingresso della villa di rilevanza archeologica già evidente dai resti di alcune strutture murarie antiche ed un mosaico bianco e nero è stato quindi riportato alla luce e reso visitabile, mentre il giardino è stato ridisegnato da Massimo De Vico, il quale eliminando la simmetria che caratterizzava l’assetto precedente e realizzando un tracciato curvilineo si è adattato in maniera più idonea  al luogo.

Per quanto riguarda invece l’edificio principale, destinato ad ospitare il centro di documentazione dedicato ad Antonio Cederna, è stato sottoposto a restauro sotto la guida degli architetti Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia, i quali dovendo  rendere l’edificio a norma hanno però cercato di mantenere il più possibile l’impianto originario della villa, rispettando ad esempio l’apparecchiatura muraria esterna realizzata con elementi costruttivi nuovi uniti a reperti antichi, ma intonacando l’interno per protezione della muratura ma anche per non confondere il visitatore nella lettura dell’ambiente.

Ciò che a prima vista è sicuramente evidente è la capacità con cui tutti i responsabili del progetto sono riusciti a rendere quest’area fruibile al pubblico e ad evidenziare attraverso il percorso le diverse peculiarità che il sito di circa 8500 mq è in grado di offrire al visitatore, ma anche la vittoria, per una volta, della sovrintendenza dei beni culturali sullo scempio che invece continua spesso a consumarsi all’interno di queste ville poste in un paesaggio cosi rilevante dal punto di vista storico-naturalistico.

 

 

Teatro Argentina

Nel 1730 la famiglia Cesarini avviò il progetto di costruzione del teatro Argentina all’interno di un palazzetto ed una torre di loro proprietà (Casa del Burcardo): una parte dell’edificio secondario venne demolita per fare spazio al palcoscenicom, mentre la torre ed altri ambienti del palazzetto furono adibiti a servizi e camerini per artisti. Il Teatro venne inaugurato il 31 gennaio del 1732.

Originariamente fu realizzato completamente in legno ad eccezione delle mura e delle scale in muratura.

La platea, pavimentata con tavole di legno, era completata da quaranta file di banchi mentre i 186 palchi erano disposti in sei ordini. Normali lavori, necessari per l'agibilità del teatro venivano effettuati annualmente; notevoli furono quelli eseguiti nel 1742.

 L'edificio rimase a lungo senza facciata, costruita soltanto nel 1826 dall'architetto P. Holl dopo la concessione del teatro fatta dal duca Salvatore Sforza Cesarini, proprietario, a Pietro Cartoni, il quale eseguì "vari restauri e lo corredò ben anche di un prospetto, formandone un vestibolo e un sovrapposto Salone".

Fu solo nel 1887 che il teatro divenne comunale e l’anno successivo ad opera di G. Ersoch, assunse l’aspetto attuale.

Gli ultimi interventi di restauro, precedenti a quello attuale, sono stati effettuati nel 1970 e nel 1993 apportando in alcuni casi modifiche non congrue con l’architettura originaria dell’edificio che oggi si stanno cercando di correggere.

I restauri degli anni ’70 si interessarono di effettuate operazioni di  adeguamento sismico, sostituendo le  capriate lignee con una struttura in cemento armato al tempo ritenuta più resistente, mentre nei restauri del ’93 la facciata fu tinteggiata con resine viniliche di scarsissima durabilità.

Nella fase preliminare di pianificazione dei restauri attuali ci si è trovati subito a dover risolvere una serie di problemi soprattutto relativi all’organizzazione dei ponteggi e della loro sicurezza. Il cantiere infatti trovandosi in una delle piazze più trafficate del centro storico di Roma, non doveva rendere difficile la fruizione dei marciapiedi posti di fronte alla facciata del teatro, e per questo motivo che l’ingegner Vicari ha scelto di collocare l’accesso ai ponteggi esclusivamente sulla  terrazza del teatro garantendo però una via di uscita dal basso. Questa posizione dell’edificio creava però un ulteriore problema cioè quello della realizzazione di uno spazio dove poter collocare una piccola betoniera necessaria per la produzione dell’intonaco che non poteva essere posizionata sulla terrazza utilizzata per l’ingresso al cantiere per motivi di sicurezza. L’ingegnere ha quindi deciso di realizzare all’interno del cantiere una piccola terrazza dotata di un cavedio necessario per trasportare il materiale preparato sui vari piani del ponteggio.

Nel restauro condotto dall’architetto Carlo Celia, sono stati utilizzati a differenza del restauro precedente intonaci a tinta di calce, descialbando la superficie,(decisione presa con molte difficoltà) per eliminare la coloritura del restauro del ‘93. La scelta non è stata quella di eliminare la stratificazione formatasi nel tempo ma piuttosto quella di eliminarne una erronea ed artificiale a favore della nuova di tipo tradizionale. A tal proposito l’architetto con i suoi collaboratori, nell’attuale fase dei lavori, sta effettuando le prove di colore scegliendo, per i fondi il color cortina, mentre per le parti in finto bugnato un trattamento con un tono travertino.

Inoltre sono stati recuperati anche gli infissi in legno originali, che liberati da uno smalto colorato applicato nei restauri precedenti, sono stati rifiniti con una cera trasparente.

La particolarità di questo restauro supervisionato dalla Soprintendenza, è quella di rappresentare un unicum nel suo genere, riuscendo probabilmente anche a risolvere molti dei problemi economici legati alla realizzazione dei restauri all’interno della nostra nazione, poiché esso è finanziato ed eseguito dalla stessa azienda ovvero Mecenarte. Tale azienda si è proposta di sostenere completamente i costi, ricavando i proventi dalle inserzioni pubblicitarie poste sui teli a copertura dei ponteggi. Purtroppo, vista la forte crisi che in questo momento sta colpendo la nostra nazione e non solo,  l’azienda si è trovata di fronte a molte difficoltà riuscendo a vendere la pubblicità solo in quest’ultima fase dei lavori, iniziati a dicembre 2011 il cui termine è previsto per fine luglio.

Allego inoltre una relazione che le avevo consegnato solo a mano

 

 

 

L’architettura Razionalista e la Damnatio Memoriae

damnatio memoriae: Condanna, che si decretava in Roma antica in casi gravissimi, per effetto della quale veniva cancellato ogni ricordo (ritratti, iscrizioni) dei personaggi colpiti da un tale decreto.

Treccani.it

È interessante iniziare con la definizione del concetto di damnatio memoriae intesa letteralmente come condanna della memoria adoperata nel nostro caso nei confronti di un’ideologia ,quella legata al fascismo, nel contesto specifico riguardo alla sua architettura.

È proprio nel ventennio fascista  che si scrive una pagina importante dell’architettura Italiana grazie anche all’iniziativa del “gruppo 7” di cui facevano parte grandi nomi come: Giuseppe Terragni, Gino Pollini, Luigi Figini, Sebastiano Larco, Carlo Enrico Rava ed Adalberto Libera.

Purtroppo l’architettura durante il fascismo divenne una forma di propaganda ed ebbe l'effetto di rafforzare il prestigio internazionale del regime motivo per cui successivamente venne “condannata” ed in molti casi abbandonata a se stessa.

Esempio lampante di questa situazione è la figura dell’architetto Luigi Moretti che sebbene sia stato uno dei maggiori architetti a operare sulla scena romana dal tempo del fascismo a quello del dopoguerra e capace di proiettarsi da quella sulla scena milanese e internazionale, è rimasto a lungo ignorato.

Una delle opere significative della produzione dell’architetto è rappresentata dalla Casa delle Armi al Foro Italico progettata nel 1934 e costruita nel 1935, caratterizzata da un rivestimento in marmo statuario di Carrara, scelto da Moretti in una particolare venatura “lunense” che contribuisce ad esaltarne l’eleganza e la purezza dei volumi.

Nonostante sia tra migliori esempi di architettura razionalista questo edificio durante tutto il corso del secolo scorso ha dovuto attraversare una serie di vicissitudini nonché uno stato di abbandono che lo collocano proprio tra quegli edifici vittima della precedentemente descritta damnatio memoriae.

Nel 1981-82 viene addirittura adibita prima  ad  aula-bunker  (per l’occasione  recintata  di  ferro  e  cemento  armato),  poi a caserma  dei  Carabinieri completamente snaturata dai magnifici interni pensati dall’architetto. Fu rivalutata del suo valore architettonico da una direttiva della Presidenza del Consiglio di circa 15 anni fa che ne prevedeva il restauro e la restituzione al fine di adibirla a Museo dello  Sport cosa ad oggi ancora non attuata.

La domanda che ad una studentessa come me sorge spontanea è: nella nazione in cui la conservazione ed il restauro sono considerati come qualcosa di necessario per preservare i tesori che ci sono stati tramandati dai grandi maestri, è possibile che per il legame di uno dei gioielli dell’architettura razionalista italiana con l’ideologia fascista (sicuramente da condannare), sia possibile pensare di farla cadere in rovina, snaturarla della sua forma originaria ed addirittura pensare di arrivare a demolirla? La speranza è che il rinnovato interesse e quindi la nuova capacità di cogliere l’essenza della bellezza di queste architetture, riuscendo ad estrapolarle soprattutto dal contesto politico in cui sono sorte, gli permetta di riuscire ad arrivare avanti nel tempo e di trovare qualcuno con la voglia e la conoscenza tale da portarle a rivivere del loro splendore originario o comunque affidandogli quel valore intrinseco che negli anni non gli è stato concesso.

 

Permanenza storica e recupero

recuperare: v. tr. Tornare in possesso di una cosa che era già propria o, in genere, che si era perduta.

recupero :L’azione, l’operazione di recuperare, il fatto di venire recuperato, soprattutto con riferimento a cose disperse, rubate, o di cui si temeva la scomparsa, la perdita, la distruzione: r. di un’automobile caduta in un canale; r. marittimi, e r. dei relitti di navi o di aeromobili; r. di una salma di un alpinista precipitato; film di r., prodotto utilizzando le scenografie e i costumi di un altro film; r. della refurtiva, del bottino, r. di un... Leggi

 

Secondo Moneo c’è un rapporto diretto tra le architetture, anche le più moderne e apparentemente distratte o non curanti della storia, e il passato, c’è un legame «tra gli edifici e il passato che i luoghi nascondono; quel passato nel quale inevitabilmente ci imbattiamo quando inizia il primo lavoro richiesto dalla costruzione, cioè lo scavo che precede il processo di fondazione» Lo scavo è il primo gesto della costruzione e attraverso lo scavo l’architetto si mette in collegamento diretto con il passato di un luogo, «lo scavo diventa lo strumento lo strumento per cercare nelle sue viscere la diretta testimonianza di un passato sepolto» .

Con il ritrovamento dei resti archeologici del Teatro Romano di Cartagena (I siglo A.C.), l'architetto Rafael Moneo riceve l'incarico di intervenire nel contesto urbano del Teatro e di creare un nuovo Museo in grado di accogliere i pezzi raccolti durante le varie campagne di scavo.

L’intervento  ha recuperato l'edificio antico permettendone la lettura anche a fini didattici e culturali in modo da renderlo comprensibile al visitatore.

L’architetto ha pensato ad un sistema di percorsi che connette la cavea del teatro con la maglia delle strade della città antica, con il giardino e la Chiesa di Santa Maria la Vieja realizzata a partire dal XIII secolo in parte sul Teatro, recuperando le antiche pietre del sito.

La nuova architettura ha quindi lo scopo di porre in risalto il monumento coinvolgendo attraverso il suo sistema di percorsi  sia i visitatori occasionali che i cittadini di Tarragona attraverso un percorso urbano, paesaggistico e archeologico il quale accostando architetture romane, medievali e moderne permette di leggere il passaggio della città attraverso il tempo e quindi la sua storia. 

Il valore della Permanenza

 

(…)la città è il prodotto di un lavoro incessante, è anche un immenso deposito di fatica umana: quindi in essa memoria e fatica tendono a coincidere; la memoria non è un repertorio statico di oggetti passati; è invece la consapevolezza di un processo che è stato, ma che si allunga nel presente e nel futuro. La città è il deposito della memoria stessa(...)

Aldo Rossi

Queste parole dell’architetto Aldo Rossi introducono in modo molto esplicativo il concetto di valore della permanenza. Permanenza intesa come  presenza continua e durevole di un qualcosa, che in questo caso è rappresentata dall’architettura del passato, la quale molto spesso, per nostra fortuna, noi contemporanei sperimentiamo ancora.

Nell’”Architettura della città”, pubblicato nel 1966, l’architetto basa il suo studio sulle città intendendole come organismo composto da tante parti compiute che si formano a lungo andare con il tempo, acquistando nella memoria individuale e collettiva valori che ne costituiscono l'anima.

È molto interessante notare come introduca il concetto di memoria: la città come memoria collettiva dei popoli legata a dei fatti ed a dei luoghi del passato nei quali però ne crescono di nuovi. Memoria di un passato il quale dovendosi allungare nel presente obbliga l’architetto ad un’analisi del contesto in cui si trova ad operare.

È proprio la capacità di saper svolgere quest’analisi che mostra la sensibilità del professionista, che se capace, è in grado di amalgamarsi e dialogare con un luogo storico ricco di simbolismi antichi reinterpretandone magari il paesaggio in funzione però  dell’esistente.

A tal proposito è molto interessante affrontare lo studio delle opere di Franco Albini. L’architetto, a metà del ‘900, condivide il rinnovato interesse del periodo per la tradizione assumendolo però nell'ambito di un metodo di lavoro che implica la necessità di darsi delle regole; la tradizione non è quindi un a priori cui conformarsi, ma un elemento di coscienza individuale e collettiva, di interpretazione di valori riconosciuti. La tradizione viene quindi vista come patrimonio da reinterpretare per creare "una nuova tradizione" e diviene così un filo che collega gli interventi dell’architetto in ambienti e periodi diversi.

Tra i primi vi è la realizzazione dell’albergo-rifugio Pirovano a Cervinia, dove la progettazione parte dall’analisi e dalla reinterpretazione del procedimento costruttivo delle baite valdostane. Questa attenzione è espressa anche nella realizzazione degli edifici comunali di Genova che, sorgendo nel centro storico della città, si trovano su di un’area in pendio che dal seicentesco palazzo Tursi sale a Castelleto i cui due corpi di fabbrica paralleli hanno andamento degradante per non chiudere la visuale della città. I tetti sono piani utilizzati a giardino in modo che l’architettura non si ponga come elemento di rottura rispetto al contesto urbano. Ma quello che, a mio parere, è l’esempio emblematico del pensiero architettonico di Albini è il progetto per il Museo dei Tesori di San Lorenzo a Genova. Si tratta dell’allestimento di un museo ipogeo, realizzato dietro l’abside del Duomo di Genova, al di sotto di un cortile. La presenza del basamento dell’abside del Duomo, fa pensare subito ad Albini all’uso della pietra ed infatti se si escludono i travetti in cemento armato del soffitto e le teche espositive ci si trova di fronte ad un unico materiale: l’ardesia ligure. Il piccolo spazio ipogeo viene quindi trasformato in una sorta di scrigno carico di suggestione, giocato sul contrasto tra la brillantezza degli oggetti esposti ed il grigio della pietra che quindi ricopre le murature ed i pavimenti rifacendosi all’esempio classico della Tholos Micenea costituita solitamente da un vano circolare, sottostante ad un tumulo di terra e coperto con cerchi concentrici di blocchi lapidei a costituire una sezione più o meno ogivale. Tradizione che viene espressa in modo personale anche nel progetto dei magazzini La Rinascente di Roma considerati un monumento della città. In questo edificio l’architetto si colloca nella città, affiancando l’uso di una sempre più raffinata ricerca tecnologica, ad una serie di suggestioni  e colori in riferimento alla tradizione storica dei palazzi rinascimentali e delle vicine mura aureliane.

La lezione di questi due maestri dell’architettura dovrebbe, a mio parere, rappresentare la base ed insieme il punto di partenza per la crescita progettuale di noi studenti, non solo nei confronti della tradizione e della memoria per noi restauratori , ma anche per quei futuri progettisti che, operando in un territorio  come quello italiano ricco di storia e tradizione, dovrebbero essere in grado di dare uno sguardo  al passato contribuendo alla sua tutela ed al dialogo con il contemporaneo  e non limitandosi a guardare solo al futuro.

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi del Palazzo Massimo alle Terme e della Palazzina di Libera ad Ostia.

 

I primi due esempi presi in esame durante questa parte del corso rappresentano due situazioni e quindi due approcci differenti di effettuare un restauro.

 

Nel caso di Palazzo Massimo alle Terme ci si trovava a dover operare su un edificio costruito tra il 1883 ed il 1886, sede di un collegio dei Gesuiti che mantenne questa destinazione fino al 1960.

Acquistato dallo Stato italiano nel 1981, subì un primo restauro ad opera dell’architetto Costantino Dardi per ospitare dal 1992 una parte del Museo nazionale romano.

Le difficoltà nel dover rifunzionalizzare un edificio nato come convitto furono subito evidenti portando i progettisti a dover effettuare una serie di operazioni di adeguamento che in alcuni casi avevano mutato l’architettura originale dell’edificio.

 Nel recente intervento di allestimento con grande maestria gli architetti Carlo Celia e Stefano Caccapaglia nel loro progetto sono riusciti a rispettare attraverso le loro scelte alcune caratteristiche architettoniche che l’edificio ottocentesco ancora conservava. Ciò accade in maniera evidente nella sala dell’ex teatro della scuola, dove l’architettura precedente non si è negata, lasciando i ballatoi, la galleria e il proscenio del teatro. Diminuendo però l’altezza dell’ambiente si è riusciti a rendere miglior lettura delle opere destinate ad ospitare, evidenziando una continua ricerca del compromesso tra ciò che l’edificio è e ciò che dovrà essere.

Anche le scelte cromatiche attraverso l’uso del colore e dell’illuminazione in tutto il progetto sono state effettuate proprio per evidenziare il rapporto tra le opere e l’ambiente destinato ad accoglierle. La scelta delle diverse tonalità di grigio ha permesso infatti di creare assi prospettici evidenziando gli elementi principali delle sale.

La riuscita del progetto è dipesa anche dal controllo dei lavori da parte degli architetti progettisti i quali però purtroppo per mancanza di fondi per ora hanno potuto eseguire i lavori solo in alcune sale del museo.

Nel secondo caso presentato dall’architetto Roberta Rainaldi  riguardante la palazzina di Libera degli anni ‘30 ad Ostia invece la situazione si presentava in modo differente.

L’edificio di rilevante interesse storico era stato lasciato dagli abitanti in uno stato di incuria con una conseguente perdita di valore del bene (oggetto architettonico) causata anche da un errata manutenzione straordinaria precedente degli intonaci, la quale conferendo alle facciate un color ocra aveva contribuito a snaturarne l’immagine.

L’architetto Rainaldi in qualità sia  di progettista che di direttore dei lavori attraverso la consultazione delle foto storiche e dei disegni di progetto è riuscita a risalire all’immagine iniziale dell’edificio cercando quindi di riproporla.

Gli interventi effettuati hanno riguardato principalmente il rifacimento degli intonaci delle facciate e degli spazi comuni ed il riposizionamento e conseguente ripristino delle recinzioni e ringhiere di progetto.

Durante l’esecuzione dei lavori la progettista si è trovata di fronte ad una serie di problematiche, sia in una prima fase nel rapporto con l’impresa che successivamente con le maestranze specializzate, con le quali l’architetto è dovuto intervenire per risolvere una serie di errori che causavano lo stravolgimento del progetto iniziale.

Anche in questo caso come nel precedente la scarsità di fondi non ha permesso di effettuare un restauro completo e completamente coerente con il materiale di archivio ritrovato, ma allo stesso tempo la figura del progettista anche come direttore dei lavori ha permesso che questi riuscissero a riconferire ed evidenziare sia il grande pregio storico culturale da cui gli edifici in questione erano caratterizati, che quello economico.