blog di FRANCESCA

Visita al Teatro Argentina

Il Teatro Argentina

Il Teatro Argentina rappresenta uno dei più importanti edifici culturali della città di Roma fin dalla sua fondazione nel 1732 su progetto di Theodoli e per tutto l’Ottocento quando fu terminata la facciata da Holl e gli interni da Ersoch, fino ai giorni nostri, passando per gli interventi di Piacentini nel foyer. L’attuale restauro del Teatro, costato circa 250.000 € e che dovrebbe terminare entro luglio di quest’anno, è ben rappresentativo di alcuni dei problemi che oggi affiorano quando si affrontano sfide di questo tipo, da quelli tecnico-logistici a quelli riguardanti scontri “ideologici”. Innanzitutto l’edificio, come molte altre opere del centro storico, ha necessitato di una serie di accortezze circa gli orari di alcune lavorazioni (e quindi un cronoprogramma ben studiato) per evitare blocchi stradali e disagi al passaggio, e per il posizionamento dei materiali utili, in quanto l’impossibilità di studiare la resistenza effettiva dei solai, ha comportato la realizzazione di una terrazza provvisoria per lo stoccaggio. La seconda questione riguarda i finanziamenti: il committente privato è stato affiancato da investimenti derivanti dalla pubblicità e dagli sponsor, e questo ha sollevato ulteriori questioni circa il deturpamento del paesaggio causato dai teloni, nonostante, secondo il mio parere, un giusto indirizzamento degli interessi  verso un obiettivo comune possa comunque dare ottimi risultati, soprattutto in un momento storico dove la spesa pubblica risulta molto ridotta. A queste figure si sono aggiunti inoltre anche due rappresentanti istituzionali, uno della sovrintendenza comunale e uno di quella statale, il che ha creato ulteriori difficoltà a livello decisionale, soprattutto riguardo le scelte effettuate dai progettisti, rappresentati, anche in questa visita, dal Direttore dei Lavori Carlo Celia. Le decisioni da prendere, infatti, hanno riguardato anche gli effetti degli ultimi restauri, effettuati nel 1970 e nel 1993: i primi avevano interessato l’eliminazione delle capriate del tetto, l’inserimento di un cordolo in calcestruzzo armato e l’appesantimento delle statue sommitali con pasta cementizia; i secondi avevano previsto invece la scialbatura dell’intera facciata con vernice con resina vinilica, altamente dannosa per la conservazione delle strutture stesse. Proprio su quest’ultimo intervento si è concentrato il grande dibattito tra il DL e una delle responsabili della Sovrintendenza, fino a quando, col parere favorevole dell’Arch. Giovannetti, si decise di rimuovere la resina e sostituirla con una tinta a calce respirante, di cui  molte prove del colore sono attualmente in esecuzione sulla facciata. Altri interventi hanno riguardato il recupero degli infissi lignei, e anche le statue sono state restaurate con la sostituzione, dove possibile, degli elementi in cemento, l’applicazione di resine per evitare il fenomeno dell’ossidazione dei ferri e la sostituzione di alcuni di questi con barre di vetroresina. Anche se oggi i risultati dei lavori non sono a tutti visibili a causa dello sponsor sui ponteggi, tra poco tempo potremo giudicare l’effettiva validità delle scelte effettuate per questo cantiere, nonché la bellezza di un recupero architettonico condotto da bravi professionisti.

 

Il valore della permanenza

Il valore della permanenza

Architettura è tutto ciò che è nella città, e la città a sua volta è forma, funzione e soprattutto identità; parlare di architettura, quindi, voleva dire, per architetti quali Aldo Rossi e molti altri, interrogarsi sulla costruzione della città nel tempo, sui suoi cambiamenti ed evoluzioni intrinseche, sul ruolo di anello di congiunzione tra realtà collettiva e individuale. Vuol dire analizzare non solo ciò che oggi vediamo e percepiamo, ma soprattutto afferrare il vero significato e senso proprio del processo progettuale ex ante, in modo tale che le consistenze architettoniche del passato siano vissute quali valori della permanenza da sperimentare nel presente. La città come un unicum progettuale che dura centinaia, a volte migliaia di anni, di cui bisogna comprendere le radici profonde per poter capire come poter inserirsi nel tessuto urbano modificandolo, consapevoli che le architetture del “passato” e del “presente” dialogano ( e forse a  volte litigano), che tra qualche tempo tutto ciò che oggi è “presente” potrà essere considerato “passato” e farà parte del bagaglio identitario, culturale dei nostri posteri. Come in tutte le cose, anche in architettura, si può scegliere di ignorare ciò che ci attornia ed imporsi, oppure come rapportarsi al contesto e studiare quale significato si vorrebbe conservare e trasmettere. Come il lavoro di Jose Ignacio Linazasoro per il centro culturale a Madrid, che rappresenta contemporaneamente un’unità di restauro, di rinnovamento e di nuova costruzione, ponendosi quale nodo della città dove queste operazioni si sono conciliate, aggiungendo al valore della permanenza quello della fruibilità del bene.

E sicuramente nel tema della permanenza entra prepotentemente la figura di Franco Albini, sia per i grandi segni da lui lasciati nelle città, sia per la grande capacità di studiare, ascoltare ed interpretare la Storia, cogliendone gli aspetti più profondi e a volte più reconditi. Egli stesso si definiva un “copione” dei modelli neoclassici, nonostante nel rigore e nella coerenza della propria produzione andò sempre alla ricerca di un costante rapporto creativo con le nuove tecnologie, perché capire il senso profondo del valore della permanenza in architettura non vuol dire riproporre in maniera compulsiva lo stesso schema, bensì far propria la volontà di rapportarsi con il contesto storico pur evitando qualsiasi approccio mimetico, qualsiasi soluzione finto-antica, e cercando di stabilire un dialogo, sia quando si tratti di operazioni di restauro, sia di progetti ex novo, come la Rinascente di Piazza Fiume, definito da Portoghesi nel 1998 “un edificio contemporaneo che guarda alla Storia”.

Il Foro Italico e i costi del recupero (e del restauro)

Il Foro Italico e il costo del recupero (e del restauro)

La presentazione del caso del Foro Italico apre importanti discussioni circa gli interesse legati al recupero di beni architettonici, nonché al loro costo, soprattutto quando si parla di beni pubblici finanziati dallo Stato e che dovrebbero essere sottoposti a vincoli di inalienabilità e indisponibilità. Il Foro Mussolini nacque dall’idea politica del Ventennio dell’importanza dello sport, non solo per mistica fascista, ma come vera rappresentazione sociale ed economica del paese, tanto da essere promosso dall’Opera Nazionale Balilla; il destino del complesso fu però ben presto segnato dal giudizio sbrigativo e superficiale dei decenni del dopoguerra, il quale, complici le tradizioni di qualche secolo fa, decretò che per Luigi Moretti era tempo di Damnatio Mamoriae e per le sue opere poteva essere previsto qualche stravolgimento. Non si può dunque non parlare della Casa delle Armi, che non solo venne deturpata della propria poetica, di quel senso di vuoto e dei sofisticati giochi di luce, ma che negli anni ’70-’80 si rese praticamente irriconoscibile con l’inserimento di un Tribunale politico, di celle detentive, di recinzioni, di 7000 mc per le nuove funzioni, di un garage sotterraneo e infine anche con la scarsa attenzione rivolta alla ricchezza dei rivestimenti marmorei esistenti, che rendevano questa palestra-accademia un maestoso blocco monolitico. Si è trattato veramente di una delle più grandi deturpazioni di un bene del patrimonio architettonico contemporaneo, che ormai risulta irrimediabilmente perso per gli alti costi che comporterebbe un restauro filologico secondo i documenti d’archivio esistenti. Ma la Casa delle Armi non è l’unico esempio di dolosa perdita di significato storico, culturale e artistico, perché purtroppo questo è un destino di molti edifici, antichi o molto spesso moderni, il quale senso nella Storia non viene, o non si vuole, comprendere. Già solo nell’area del Foro Italico gli esempi non sono pochi: lo Stadio dei Marmi di Del Debbio, caduto nell’incuria dell’Amministrazione, sottoutilizzato e continuamente deturpato da eventi incongrui e assurdi; lo Stadio Olimpico, il cui spettacolare impianto del ’60 fu oggetto di un grande affare edilizio che permise di costruirvi una grande copertura sovrastante e 30.000 mq di uffici al di sotto che nessuno vuole utilizzare. Ma non sono i soli esempi, basti pensare alla Palazzina di Libera analizzata la scorsa settimana. Lo scopo della fattibilità sarebbe proprio quello di pervenire ad indicazioni qualitative e quantitative che permettano di valutare la convenienza del progetto, dal punto di vista economico e dei benefici: ecco perché dopo molto tempo il giudizio di alcuni su opere talmente degradate è quello di una demolizione totale, a discapito di un tentativo di recupero che evidentemente non trova ragion d’essere. Da questa premessa sulla fattibilità abbiamo possiamo introdurre il tema del costo del recupero e del restauro, e della reale volontà, oltre lo slancio idealistico ed emozionale, di investire risorse in questo tipo di operazioni atte a garantire il prosieguo della “permanenza” dell’opera architettonica. Operazioni che possono essere di diverso tipo, dalla manutenzione alla conservazione, dal ripristino al restauro, ognuna con un’accezione diversa, ognuna esigente un rispetto dell’opera e un atteggiamento critico specifico, ognuna necessariamente accompagnata da una stima e da procedimenti di misurazione dei costi, analitici o sintetici che usar si voglia, che si rendono indispensabili ormai per la buona riuscita di un progetto, anche di restauro. Perché non si debbano più accettare “cause perse” come la Casa delle Armi, vittima come il suo architetto, dell’oblio dell’ignoranza, e che oggi “giace a prendere la polvere come un esperimento mancato nello studio di uno scienziato” (M. Ferrari “Luigi Moretti. Casa delle Armi nel Foro Mussolini a Roma 1933 – 1937”).

Prime impressioni sulla fattibilità: i casi di Palazzo Massimo alle Terme e la palazzina di Libera ad Ostia

Fattibilità del progetto, due casi complessi

Dall’inizio degli incontri del modulo di Estimo con il professor Passeri, abbiamo cercato di delineare l’importanza di un’attenta valutazione economica del progetto, nonché della reale fattibilità da verificare all’interno dell’ iter evolutivo dello stesso, dalle sue fasi embrionali fino a quelle di cantierizzazione e realizzazione. Sono due i casi che ci hanno posto dinanzi la problemicità della questione, ovvero l’allestimento museale del Palazzo Massimo alle Terme ed il restauro di una palazzina di Libera ad Ostia.

Nel primo caso, nonostante si trattasse di un progetto di allestimento e non di restauro, gli architetti, in particolar modo Celia e Cacciapaglia, si sono dovuti confrontare con la pianificazione di un’opera totale, che comprendeva non solo la sistemazione degli apparati pittorici e scultorei, ma anche la rifunzionalizzazione delle stanze di questo Palazzo (il quale nasceva quale collegio d’istruzione e tale è rimasto fino al 1960), la sistemazione degli apparecchi illuminanti, la valutazione delle richieste dell’utenza e,non in ultimo, la valutazione dei costi in visione di un recupero degli investimenti. Un progetto dunque complesso, in cui i vari professionisti si sono dovuti confrontare anche con fondi economici abbastanza esigui ( l’intervento è costato circa 500.000 € per un’area di 600 mq) e date di scadenza improrogabili (19 dicembre 2011).

I nuovi allestimenti hanno riguardato quattro sale e confrontandole con altri ambienti espositivi del museo, penso di poter affermare che il progetto è stato una vera vittoria. I nuovi spazi hanno assunto una loro connotazione definita, le opere sono diventate protagoniste, stagliate ad esempio con il loro bianco marmoreo su fondi più o meno grigi, seguendo ottiche scientifiche, ma soprattutto le direttrici di bravi architetti, che sanno al tempo stesso essere tecnici preparati, come dimostrano i nuovi impianti d’illuminazione e la sistemazione delle dotazioni anti-incendio, ma anche grandi immaginatori di spazi esaltanti e ben studiati dal punto di vista delle visuali prospettiche, dei percorsi funzionali e della giusta scelta dei materiali da accostare. Il buon risultato non è nato però da sé, bensì ha richiesto tenacia, costanza e preparazione.

Gli stessi ingredienti hanno segnato il percorso dell’architetto Rinaldi durante il restauro di una palazzina di Libera sul litorale romano, ridotta ormai alla stregua di un rudere, condannato alla demolizione per motivi di sicurezza. La scarsa cura dei tre inquilini, nonché l’inesistente consapevolezza del valore di un’opera di architettura contemporanea, avevano già segnato le sorti dell’edificio. Grazie ad un’attenta e precisa elaborazione degli interventi da proporre e alla valutazione dei costi, i quali, senza la successiva necessità di un secondo appalto, sarebbero ammontati a soli 130.000 €, l’architetto e tutti i suoi collaboratori sono riusciti a riqualificare e rivalorizzare l’edificio, nonché a triplicarne il valore economico. Hanno dovuto in tutto ciò confrontarsi con i precedenti errori di manutenzione, con gli illeciti dei proprietari, con la mancanza di fondi e le incompetenze delle maestranze, problematiche che non sempre possono essere previste e che comportano una continua revisione dei processi di realizzazione.

Pur potendosi occupare delle sole aree esterne dell’edificio e dovendo rientrare nel budget dei committenti privati, la Rinaldi ha rianimato un piccolo pezzettino della nostra storia architettonica e lo ha nuovamente reso fruibile alla conoscenza.