Il valore della permanenza

Cupido che dorme è l’antica architettura, il monumento. Psiche, curiosa, con la lucerna, è l’architetto, l’ingegnere, il tecnico. Ma una goccia di olio bollente cade dalla lucerna: è l’azione di “restauro”. Cupido si sveglia e fugge via, così l’autenticità è compromessa.

Si tratta di una delle tante definizioni che sono state date del restauro, qui considerato, metaforicamente, come la mitica goccia d’olio della lucerna di Psiche che, irrimediabilmente, porta alla fuga di Cupido. Certo, ogni volta che si interviene su un monumento si altera il suo stato di fatto. Ma ciò è sempre un male? Ipotizziamo di trovarci davanti ad un monumento seriamente compromesso dal degrado. Quanto si è disposti a pagare affinché tale edificio, nella sua consistenza fisica e storica, permanga in quello spazio? E quanto si è disposti a pagare perché il monumento riacquisti una propria identità? Bene, il fine del restauro colto è proprio questo: garantire la permanenza di un monumento. Ma, per far ciò, è necessario intervenire in maniera intelligente, rispettando il manufatto antico; tale obiettivo si consegue attraverso un accurato studio preliminare delle fonti documentarie, un preciso rilievo volto ad evidenziare degradi ed eventuali problemi strutturali dell’edificio, un dettagliato progetto degli interventi ed un indispensabile computo metrico estimativo per valutare la fattibilità del progetto stesso. Oggigiorno esistono diverse scuole di pensiero che riguardano il progetto di restauro: c’è chi pensa che tutto debba essere lasciato come si trova, a meno di piccoli interventi di pulitura e consolidamento; chi ritiene che tutto debba essere ricostruito “com’era, dov’era”; chi decide di integrare il nuovo con l’antico. Io sono dell’idea che ogni intervento debba essere valutato di volta in volta; come già detto, infatti, testimonianze storiche come i monumenti sull’Acropoli di Atene è giusto che vengano ricostruite, mentre in altri casi si può optare per un ben studiato progetto di integrazione tra passato e presente, come avviene sia nei progetti di Peter Zumthor, di Rafael Moneo o di José Ignatio Linazasoro, sia negli allestimenti di mostre all’interno di consistenze storiche, come nel caso di Franco Albini. Di Zumthor e Moneo si è già parlato la volta scorsa; per quanto riguarda Linazasoro, i suoi interventi di restauro e di riuso di antichi edifici sono piuttosto interessanti, basti pensare al progetto finalista per la sistemazione di Piazza Augusto Imperatore, in cui il monumento (al cui interno viene lasciato intatto) è valorizzato da un’ampia piazza che lo isola e al tempo stesso lo collega al resto della città, o alla Biblioteca del quartiere di Lavapiés a Madrid, in cui l’architetto cerca di creare una continuità materica (ottenuta attraverso l’uso del mattone) e, allo stesso tempo, una discontinuità concettuale tra nuovo ed antico, proponendo un ordine nuovo in cui i resti della preesistenza (una chiesa barocca) sono non solo valorizzati, ma si integrano nella costruzione recente. Albini, invece, è stato considerato dalla socia Franca Helg un uomo“silenzioso e fedele”, un architetto molto preciso in tutto ciò in cui si impegnava e, proprio per questo, che esigeva un uguale rigore da tutti i suoi collaboratori; più stimava una persona, più pretendeva che essa non sbagliasse, che non pensasse cose non logiche, che aspirasse sempre “alla luna”. Sicuramente, uno dei progetti per cui Albini è stato reso celebre è il Palazzo della Rinascente in Piazza Fiume a Roma (1957), ma non bisogna dimenticare il quartiere Fabio Filzi a Milano (1936-1938; “un’oasi di ordine nel disordinato tessuto della città” secondo il parere di Giuseppe Pagano), l’Albergo-rifugio per ragazzi Pirovano di Cervinia (1948-1952), il Museo del Tesoro di San Lorenzo a Genova (1952-1956). Egli, inoltre, fu anche raffinato designer e curò, come già accennato, diverse mostre, tra cui l’Allestimento della stanza di soggiorno in una villa alla VII Triennale di Milano (1940), la Mostra di Arte contemporanea, Arte decorativa e Architettura italiana a Stoccolma (1953), la Mostra su Palladio organizzata nella Basilica Palladiana di Vicenza nel 1973; si tratta, in quest’ultimo caso, di un allestimento particolarmente rispettoso del valore storico dell’edificio in cui si svolge. Albini, infatti, decise di “pensare” come Palladio, di entrare in sintonia con il luogo, in modo tale che le opere dell’architetto del XVI secolo, rappresentate da accurati plastici in scala 1:33, fossero il più possibile valorizzate e non “schiacciate” dal peso imponente di un allestimento fine a se stesso. In questo senso, credo che oggi, nella maggior parte dei casi, manchi un atteggiamento di umiltà nei confronti di una permanenza storica e che i “grandi” architetti si dilettino a concepire progetti fatti per destare stupore, non per adattarsi al contesto circostante, che si possano replicare in varie città del mondo senza prendere in considerazione le specificità di un luogo rispetto ad un altro. Bisognerebbe allora fermarsi a riflettere prima di accettare un incarico e pensare: sono in grado di portare avanti una simile idea? Ho le conoscenze sufficienti per impegnarmi in questo progetto? E se si risponde affermativamente, si deve mettere a disposizione tutta la propria tecnica, tutta la propria persona nella realizzazione di quel progetto, allo stesso modo di Albini, “il più geniale muratore di geometrie funzionali della storia dell’architettura moderna”.