Considerazioni sulle ultime lezioni

Paolo Marconi, in un’intervista apparsa sul Tempo il 3 Agosto del 1990, parlando dei monumenti dell’architettura del “Ventennio Fascista” afferma che essi rappresentano: Una città ideale ma fragile. […]Un’architettura che nasceva con il vanto della sua fine […]. Sulla distanza dei cinquant’anni il cemento armato dà preoccupazioni […]. Alle prese con un materiale così “fragile”, la manutenzione è tutto.

Tali parole possono essere emblematicamente associate al complesso di edifici del Foro Italico (inaugurato nel 1932 con il nome di Foro Mussolini) ed in particolar modo alla Casa delle Armi. Tale edificio fu progettato da L. Moretti nel 1936 e purtroppo, nel corso di nemmeno cento anni, è stato più volte devastato in tutti i modi possibili in cui un edificio può essere violato: nel giugno del 1944 vi si stanziarono le truppe alleate guidate dal generale statunitense M.W. Clarke; nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta fu parzialmente occupato dagli allievi frequentanti l’ISEF e, ad esempio, la Sala delle Armi fu trasformata in campo da basket; negli anni Settanta ed Ottanta fu adibito allo svolgimento di processi penali delicati dal punto di vista dell’ordine pubblico, come il processo Moro e quello contro le Brigate Nere e, a questo proposito, l’ala dell’ex Biblioteca fu trasformata in presidio delle forze dell’ordine, la Sala delle Esercitazioni divenne un bunker e vennero costruiti due livelli di uffici nella Galleria d’Onore dell’ex Biblioteca. Solo a partire dal 2001 le istituzioni si sono rese conto della necessità di trasferire altrove il nucleo di Polizia Giudiziaria insediatosi nell’ala dell’ex Biblioteca e, dal 2009, la struttura è stata consegnata alla gestione del CONI, nel quadro della cessione gestionale dell’intero complesso del Foro Italico. Di fatto, il CONI, anziché preoccuparsi di tutelare e valorizzare gli edifici posti sotto la sua gestione, si limita tutt’oggi ad affittare lo Stadio Olimpico per le partite di calcio, per competizioni di atletica leggera, per alcuni concerti ed altri eventi di vario genere. A questo proposito, non bisogna dimenticare lo scempio compiuto sulle strutture dello stesso stadio in occasione dei mondiali di calcio del 1990, quando il CONI stabilì che la finale si sarebbe dovuta disputare in uno spazio al coperto; per questo motivo, anziché procedere alla costruzione di un nuovo impianto all’avanguardia per tecnologia e sicurezza, si optò per lo stravolgimento dello Stadio Olimpico con l’introduzione di coperture in acciaio e l’aggiunta di nuove gradinate in pannelli di legno. Probabilmente tale scelta venne fatta soprattutto per motivi economici, ma dubito fortemente che gli autori di tale intervento possano ritenersi soddisfatti. Per quanto riguarda tutti gli altri edifici del Foro Italico, il CONI non sembra preoccuparsi troppo del loro destino che sembra sempre più quello del degrado e dell’abbandono se tutto continuerà ad essere così com’è. La Casa delle Armi, in particolare, è un gioiello architettonico che deve essere conservato e tutelato innanzitutto perché altissima espressione del pensiero del suo creatore (con i suoi giochi di luce/ombra e con la sapiente contrapposizione di vuoti/pieni, tanto che lo stesso Moretti lo definì un grande contenitore vuoto) e poi perché è testimonianza del passato italiano. Perché nessuno ha mai messo in discussione l’importanza degli edifici progettati da Michelangelo piuttosto che  da Raffaello o da Bramante, considerati (a ragione) opere d’arte, ma in molti sono pronti a negare la validità delle architetture realizzate nel Ventennio Fascista? E’ vero, esse sono espressione dell’ideologia corrente di quegli anni, ma non per questo possono essere demonizzate, condannate all’oblio o peggio, massacrate con interventi incongrui. In nessun Paese civile dovrebbe essere permesso un simile atteggiamento. Tornando all’edificio di Moretti, oggi bisognerebbe provvedere ad un restauro altamente filologico, dal momento che esistono numerosi documenti che testimoniano le sue fasi costruttive ed i materiali usati, che miri a ripristinare l’immagine originaria del suo capolavoro. Successivamente, la struttura potrebbe essere adibita a museo dell’architettura o potrebbe essere visitata se inserita in un percorso di guida che comprenda altre architetture contemporanee. Certo, i costi di un tale restauro sono stati stimati intorno ai 15 milioni di Euro: una cifra impossibile da raggiungere senza l’apporto di privati che possano effettivamente finanziare l’intervento. Ma allora è meglio continuare a lasciare la struttura abbandonata a se stessa come fosse un malato inguaribile? Forse le istituzioni potrebbero farsi un “esame di coscienza” e capire dove e come sono stati investiti fino ad ora i fondi europei destinati al restauro e alla conservazione dei beni architettonici (la maggior parte dei quali, in Italia, riversa in condizioni di degrado e di totale incuria) e porre un rimedio a questa situazione che, a mio parere, danneggia gravemente l’immagine del nostro Paese. Mi riferisco non solo a singoli edifici immersi in un tessuto urbano, ma anche ad intere aree archeologiche che tutto il mondo ci invidia come Pompei, Ostia Antica, la Valle dei Templi di Agrigento, solo per citarne alcune; si tratta di veri e propri monumenti che attirano frotte di turisti ma che sono mal restaurate e/o mal conservate, invase dalla vegetazione. Quale senso può avere possedere un così vasto patrimonio  culturale, artistico ed architettonico se non si ha la volontà di valorizzarlo? A cosa serve scavare per riportare alla luce antichi complessi romani o greci se poi tutto viene nuovamente coperto, come i mosaici che altrimenti si danneggerebbero se esposti in modo continuativo agli agenti atmosferici, o se i ruderi vengono lasciati come tali? Una delle ultime volte che sono stata ad Ostia Antica, una signora inglese mi ha chiesto perché gli antichi romani vivevano in case senza i tetti; in un primo momento ho pensato che stesse scherzando, poi mi sono resa conto che, senza un efficiente apparato didattico che ne ricostruisca la storia e che lo spieghi al grande pubblico, qualsiasi monumenti appare muto, svuotato della sua anima. Per questo motivo ritengo che gli interventi di ricostruzione del Partenone sull’Acropoli di Atene possano essere considerati un tentativo valido di restituire identità al luogo per eccellenza più famoso della civiltà classica e del mondo antico in generale. E’ ovvio che per tale ricostruzione verranno utilizzati elementi originali ed elementi nuovi (con le stesse caratteristiche materiche di quelli originali), ma ciò è inevitabile; d’altronde lo stesso percorso è stato seguito anche per gli altri edifici presenti sulla spianata, primo fra tutti l’Eretteo, che presenta, nella Loggetta a sud, delle Korai che sono una copia in gesso di quelle originali conservate nel Museo dell’Arcropoli.

In altri contesti, invece, può avere esiti particolarmente felici l’idea di inserire, in un contesto antico, un’architettura moderna, come nel caso del progetto di Rafael Moneo per il Museo del Teatro Romano di Cartagena o di quello di P. Zumthor per il Kolumba Museum a Colonia.

Nel primo caso si tratta di un museo, inaugurato nel luglio del 2008, che si innesta in un tessuto urbano molto stratificato e che è stato allestito proprio grazie ai ritrovamenti archeologici effettuati durante lo scavo dell’area. E’ lo stesso Moneo ad affermare che Lo scavo diventa lo strumento per cercare nelle sue viscere la diretta testimonianza di un passato sepolto, [in quanto c’è] un legame diretto fra gli edifici e il passato che i luoghi nascondono. La novità del progetto di Moneo risiede nel fatto che il Teatro Romano rappresenta l’ultima tappa del percorso espositivo del museo e, ad esso, funge da fondale paesaggistico il Parque de la Cornisa; l’intervento di restauro su questo monumento è consistito sostanzialmente nel consolidamento delle parti originali che rischiavano di crollare, nell’integrazione di alcuni elementi costruttivi andati perduti e nella messa a punto di un sistema di percorsi interni che permettessero una migliore fruizione di quello spazio. Parzialmente diverso è, invece, il lavoro svolto da Zumthor nel Museo dell’Arcidiocesi di Colonia: l’edificio, infatti, si presenta come una sorta di “fortilizio” che contiene al suo interno rovine romane, franche, romaniche e tardogotiche e che pare negarsi al rapporto verso l’esterno. L’architetto, ripercorrendo il profilo planimetrico della chiesa originale, prosegue le antiche mura della chiesa tardogotica, utilizzando dei mattoni realizzati a mano e dall’inconsueto formato (4x21x54 cm), che sono stati studiati per anni nella composizione materica e cromatica e che ben si innestano nei muri medievali. La nuda purezza del muro, a volte, diventa traforo e la luce, che entra attraverso tali fessure, crea splendidi giochi di chiaroscuro. L’eleganza del progetto risiede nel fatto che in esso convivono, senza la prevalenza dell’uno sull’altro, passato e presente, esposizione museale ed architettura perché, come afferma lo stesso Zumthor, Passato e presente nella buona arte si incontrano.