Considerazioni sulla visita a Villa Capo di Bove

 

Villa Capo di Bove ha seguito un iter comune a molte ville che affacciano sull’Appia Antica, ma presenta una peculiarità importante:  si tratta infatti di un bene privato, divenuto bene pubblico da tutti fruibile, grazie  al diritto di prelazione esercitato dallo Stato. Studiando la sua evoluzione, ho potuto constatare come nel corso del tempo, a partire dal II secolo d.C., questo edificio sia passato per le mani di molteplici proprietari ( nobili dell’antica Roma, cardinali medievali, monaci ), rimanendo però, fino al 1945, un’area ad uso agricolo. Nel dopo guerra avvenne invece una trasformazione importante, e il complesso venne trasformato per uso residenziale  ad opera di una famiglia di mercanti ortofrutticoli, i Romagnoli. Successivamente il Casale fu investito dalla moda del tempo, che vedeva una committenza ricca e famosa protagonista di molte acquisizioni lungo l’Appia Antica. Avere una villa immersa nel verde di quella zona rappresentava uno Status symbol a cui non si poteva rinunciare, specie per i produttori cinematografici che negli anni Cinquanta lavoravano nell’Hollywood sul Tevere. Fu così che Sauro Streccioni acquistò la villa e commissionò il progetto di recupero ad un architetto ( probabilmente seguace della scuola di Busiri Vici ) che riprodusse il Casale con un aspetto antico. A quell’epoca era infatti in voga rivisitare la tecnica “spolia” medievale, caratterizzata dal riutilizzo di reperti antichi, recuperati dalla distruzione di diversi monumenti. Il progettista quindi enfatizzò la struttura della cisterna esistente, ma di sicuro la rispettò. Negli anni 70/80 poi nuovi ricchi si interessarono all’area e ci furono ulteriori trasformazioni, che riguardarono anche i limiti del parco archeologico, il tutto ovviamente al di fuori della legge e nel segno dell’abusivismo. Quando però si cercò di vendere la villa Capo di Bove dichiarando un prezzo evidentemente troppo basso, un funzionario statale, rendendosi conto dell’accaduto, esercitò il diritto di prelazione sul bene vincolato, bloccò la frode in corso, e grazie a lui oggi è possibile visitare il casale gratuitamente, sette giorni su sette. Ci troviamo quindi di fronte ad un clamoroso esempio di riscatto totale della struttura ( di cui vorremmo esser spettatori più spesso!! ). Nel 2002 sono iniziati i lavori della Soprintendeza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, che ha operato su due livelli: uno riguarda  il recupero dello scavo archeologico, l’altro investe più prettamente la villa. Per la nuova destinazione pubblica del complesso, infatti,  si è reso necessario eliminare alcuni tratti legati alle esigenze di una proprietà privata di uso residenziale, ed è così stata eliminata, ad esempio, la piscina esterna. Lo scavo archeologico ha invece portato alla scoperta di un impianto termale, risalente al secondo secolo e di proprietà privata. Il suo ingresso monumentale si apriva sicuramente sulla via Appia. All’approvvigionamento idrico contribuivano due grandi cisterne, su una delle quali è sorta la Villa, come testimoniano rimanenze di muratura in cocciopesto o in opera cementizia di scaglie di selce. La parte esterna, riprogettata da Massimo De Vico, ha visto l’eliminazione della simmetria originaria, a favore di un tracciato curvilineo che meglio si adattava al dialogo con in luogo. Ad intervenire sulla villa stessa sono stati invece Carlo Celia e Stefano Cacciapaglia, che si sono preoccupati, tra le altre cose, di rendere a norma la struttura. Oramai conosciamo abbastanza questi due architetti e devo dire che mi affascina la passione che dimostrano per il proprio lavoro. La cosa che più ho apprezzato infatti nel corso dei mesi, relativamente ai loro interventi, è stato l’entusiasmo che hanno cercato di trasmettere, raccontando la propria esperienza. Cacciapaglia, mentre ci parlava del restauro, ad un certo punto ha esclamato, guardando Celia: “Quanto ci siamo divertiti!”. Ci ha trasmesso così un’ondata di ottimismo ( di cui sicuramente i giovani d’oggi hanno bisogno ), raccomandandoci di credere in ciò che facciamo, mettendoci l’amore. Ci hanno poi raccontato alcuni aneddoti riguardanti il recupero, come la questione degli infissi, che, ai fini del risparmio, sono stati fatti standardizzati, quando invece ogni bucatura era diversa dalle altre. Questo ha portato alla creazione di buchi tra parete e finestra, colmati con una larga placca nera, che di sicuro non passa inosservata. E’ nato infine un dibattito nell’ambito della trattazione delle murature antiche: parti del muro interno inglobato le mura della cisterna antica e ci si domandava se non sarebbe stato il caso di rimetterle, nel corso dei lavori, a vista, in modo tale da rappresentare una testimonianza dell’antica Roma. In realtà i progettisti ci hanno spiegato che dall’esterno è visibile la muratura originaria, mentre all’interno si è deciso di salvaguardare l’edificio moderno, essendo anche esso parte dell’evoluzione del complesso. D’altra parte, l’architettura è fatta di sovrapposizioni, è quindi giusto togliere del nuovo per guadagnare nei confronti dell’antico? Questo e molti altri sono stati i quesiti e i dubbi che hanno mosso il nostro animo di architetti del domani, contribuendo a farci creare una personale opinione sul modo in cui intendiamo relazionarci nei confronti di testimonianze antiche importanti, come quella di Capo di Bove, e di tutto il complesso che si estende intorno all’Appia Antica.