Architetture: grandi affari oppure entità rappresentative?

 

C’è un uomo che guarda soddisfatto la “sua” fontana e gli si avvicina un turista italo-americano incuriosito. L’uomo si presenta: “Salve, sono Antonio Trevi, il proprietario di questa Fontana”.

Naturalmente, stiamo parlando dell’indimenticabile scena tratta dal film “Totòtruffa ‘62” in cui alla fine il visitatore credulone è convinto di aver comprato la Fontana di Trevi, un bene pubblico e appartenente allo Stato. La scelta di tale riferimento, non è casuale, ma è dettata dalla riflessione sulla situazione di tanti beni demaniali, cioè gestiti dalla Pubblica Amministrazione, che sono da tutti riconosciuti come proprietà di interesse storico, ma allo stesso tempo, a causa dei problemi economici e della “crisi”, sono lasciati deperire lentamente. Il visitatore sarebbe ancora disposto a comprare la Fontana di Trevi se fosse stata modificata oppure lasciata al degrado delle intemperie? La “riconoscerebbe” ancora?

La stessa riflessione la possiamo fare sul Foro Italico, discusso simbolo di una realtà idealista, che però fa parte integrante della nostra città ed è capace di trasmetterti delle emozioni uniche. Non scorderò mai l’ingresso che ho fatto, come volontaria, all’interno dello Stadio dei Marmi, insieme alle delegazioni partecipanti alle Special Olympics. E’ stata un’occasione che mi ha dato la possibilità di “essere osservata” dalle statue di marmo che coronano lo stadio e di poter “vivere” il Foro Italico non solo come visitatrice, ma come parte integrante di questo simbolo architettonico. Il problema è proprio questo: noi vediamo gli oggetti da lontano senza capire che questi fanno parte di noi e sono una realtà da cui noi stessi deriviamo. Ecco perché dovremmo porci delle domande quando vediamo la Casa delle Armi, un capolavoro di Luigi Moretti, cadere letteralmente a pezzi. Elemento di discordia, è stato più volte aggredito e deturpato, senza comprenderne il suo valore intrinseco. E’ come se questo edificio fosse un malato terminale e noi dovessimo decidere se farlo morire e dunque abbatterlo oppure tentare di recuperarlo, investendo su di esso. Il problema è proprio questo: chi è disposto a dare i soldi necessari, circa 15 milioni, per tentare di riporte la Casa delle Arme alla sua forma originaria? Bisogna fare una scelta. Infatti, la stessa parola “restauro” comporta una valutazione critica che può indurre ad una modifica della conformazione materica e morfologica diversa. L’atteggiamento con cui ci poniamo di fronte ad un’opera può essere di rispetto dell’attuale conformazione dell’opera stessa oppure di modifica della sua forma, attraverso un intervento diretto, a favore però di una miglior comprensione dell’architettura e del pensiero dall’architetto che l’ha creata. Sicuramente sarebbe possibile tentare di recuperare filologicamente la Casa delle Armi, grazie ad uno studio dei disegni progettuali di Moretti stesso, ma il problema resta sempre quello economico e così l’edificio rimane sospeso in un “limbo”.

Ormai le nostre azioni sono portate avanti solo se dietro c’è un “grande affare” e non perché le architetture sono entità che ci rappresentano e ci appartengono. Questa è proprio la situazione che ha condizionato gli interventi sullo Stadio Olimpico dove le leggi, facilmente scavalcabili, non hanno impedito delle modifiche incongrue sia rispetto alla storia della struttura, sia al suo significato sportivo e culturale. Infatti, l’ampliamento degli spalti e l’inserimento della copertura hanno condizionato non solo l’area del Foro Italico, ma anche i quartieri limitrofi. Perché non è stata realizzata una nuova struttura in un altro luogo? Perché non si è preso esempio dai nostri vicini europei?

Sicuramente non è sempre negativo l’accostamento tra il vecchio e il nuovo, anzi molte volte un edificio antico può essere esaltato dal nuovo e può far meglio comprendere la sua essenza, ma non a discapito dell’architettura stessa. L’edificio deve essere riconoscibile da tutti in quanto elemento culturale e portatore di un messaggio. La fruizione odierna deve essere rispettosa del lascito di una cultura precedente e gli interventi di recupero del patrimonio esistente, classificati nella legge 457/78, devono tener conto delle permanenze, così come i procedimenti di stima, sia nel procedimento sintetico-comparativo che in quello analitico-ricostruttivo. A partire dai restauri già eseguiti su un’opera analoga, si possono trarre delle conclusioni immediate, ma questo può anche comportare una incertezza nella stima a causa dell’eterogeneità delle variabili come i vincoli normativi, i materiali costruttivi originari, la tipologia del restauro, lo stato di conservazione dell’immobile, gli elementi di pregio architettonico, la configurazione plani-volumetrica.

Ecco perché bisogna tener conto del processo produttivo e quindi della quantità e qualità monetaria di tutti i fattori. Occorre pervenire ad indicazioni che permettono di valutare la convenienza del progetto e i benefici che se ne possono trarre. L’architettura è, infatti, un bene utile e accessibile su cui si può e si deve investire per rendere più “efficienti” le risorse. Noi dobbiamo essere in grado di orientarle, identificando preventivamente le possibili criticità, in modo tale da comportare un effetto benefico su tutta la collettività. Quindi, non si può solo pensare all’affare, ma all’importanza, alla rilevanza che il possedimento ha su ciascuno di noi, in quanto nostra entità rappresentativa e culturale.