SOPRALLUOGO A TOR FISCALE_15.3.2013
Vivere la città, percorrere le sue strade, sentirsi parte di essa ad ogni nuovo passo. Guardare, scoprire con un po’ di timore e curiosità una nuova realtà, avvertire svoltando un nuovo angolo di aver colto un nuovo scorcio, avere l’impressione di comporre caselle di un puzzle difficile da completare, tanto è complesso e intricato. Un mistero che vale per ogni città, ma soprattutto per Roma, la cui storia millenaria si può cogliere in ogni dove, in ogni sguardo.
La puoi vedere Roma negli occhi delle persone. Perché la gente riconosce l’importanza di un patrimonio tanto vasto, lo vive e lo porta con sé nella propria memoria, nella propria quotidianità.
Un rapporto, quello con la storia, d’integrazione e rispetto, specialmente in un quartiere come quello di Tor Fiscale, attraversato dall’imponente presenza dell’acquedotto Felice.
“Ci si abitava, nelle grotte. In ogni arco ci stava una stanza”, ricorda Agostino, figlio di una generazione che, per necessità, si era trovata a dover costruire la propria casa usando come supporto l’acquedotto. Chi ha abitato il borgo in quel periodo non può dimenticare i problemi, gli atti di delinquenza, ma soprattutto la coesione, il forte senso di appartenenza ad una comunità, ad una grande famiglia. Agostino, come tanti suoi coetanei, non ha mai abbandonato quel luogo, legati da quello che lui stesso definisce il “rapporto con la terra”. Da anni in pensione, ogni mattina attraversa il parco, lo ama, è parte del suo mondo, e si capisce da come gli occhi gli brillano nel contemplarlo e nel raccontarlo. Si possono studiare per anni i luoghi, guardarli, disegnarli e fotografarli, ma non si capiranno mai come quando vengono raccontati dalle persone che li hanno vissuti, che lì vi hanno condiviso qualcosa. Personalmente, ad ogni suo racconto il parco assumeva ai miei occhi una connotazione diversa, come se in parte avessi trascorso anche io certi attimi.
Ci racconta di Pasolini, delle cinquemila lire guadagnate vendendo cartone per comprare un pezzo di pane con la mortadella da dividere con la comitiva, di chi ha intrapreso una vita di criminalità e di chi, come lui, a soli 12 anni ha cominciato a lavorare per riuscire a sfuggire ad un destino troppo ingrato. La vita, per queste persone, si è celata lì dove è stato soppresso ogni superfluo, attaccata all’essenzialità di un’esistenza semplice, a quegli archi che sono divenuti mura, che sono diventati casa, la casa.
Agostino guarda gli archi, le baracche non ci sono più. Nonostante l’evidente nostalgia che affligge il suo volto, è contento. Il parco è stato riqualificato, il casale organizza le feste di quartiere e le riunioni del comitato, la zona è migliorata. E’ contento al punto che vorrebbe comprare una piccola casa per la figlia e il marito a pochi metri dall’accesso al parco, su via dell’acquedotto Felice, ma si scontra con una nuova generazione che vuole altro, “che vuole troppo”.
Dopo una calorosa stretta di mano, ci saluta. Deve tornare a casa per mangiare con la moglie. E’ ora di pranzo e il casale, con sorpresa, è chiuso e la pancia brontola per la fame. Una signora cammina per il prato, accompagnata dal figlio ventenne, alle loro spalle i cani li seguono scodinzolando. Basta un sorriso per farli incuriosire e per cominciare a parlare. Chiediamo se in zona ci sono dei servizi, dei generi alimentari. Anche la signora, di cui ignoriamo il nome, vive nella borgata dall’infanzia. Anche lei è vissuta fra gli archi.
“Frutteria, fornaio, macellaio, prima ce n’erano. Ora non c’è più niente. La farmacia anche ha chiuso”. I motivi sono tanti, sono frutto, da un lato, di un cambiamento nelle abitudini delle persone, che preferiscono il grande magazzino al negozio di quartiere, dall’altro da un problema di rapine, atti vandalici, minacce. Solo un negozio di alimentari ha resistito, il proprietario si chiama Luis, ed è il ragazzo che ce lo suggerisce. Si trova “sullo stradone, di fronte alla parocchia”. Lo stradone è via di Torre del Fiscale.
Oltrepassiamo l’accesso al parco su via di Torre Branca, che ne costeggia il recinto, e camminiamo tra le strade di questo tessuto fatto di case al massimo di tre piani. Case introverse, nascoste da alti muretti e una fitta vegetazione. Ogni tanto qualche casa sfocia sulla strada con una porta o delle scalette, ed è in questi spazi interstiziali, tra spazio pubblico e privato, che riusciamo a scorgere gruppetti di persone che parlano. Riconosciamo il ragazzo del parco che ci sorride e saluta, indicandoci “un poco più avanti” l’alimentari di Luis. Proseguiamo sulla via e sulla sinistra vediamo l’insegna. Scendiamo pochi gradini, spostiamo un tavolino ed entriamo.
Luis è un uomo o un ragazzo, non saprei dire. Ha trent’anni circa, ma ha il viso di un ragazzo di venti e gli occhi neri, luminosi. La carnagione scura e i tratti somatici tradiscono un origine lontana, sud americana, ma Luis è “romano di Roma”, o meglio, è di Tor Fiscale. Nativo del Perù, si è trasferito nel quartiere a sei anni con il padre. Qualche domenica in parrocchia, una partita di calcetto e Luis è diventato un ragazzo del quartiere a tutti gli effetti. Il lavoro lo ha allontanato dal borgo per qualche anno, ma anche lui, come Agostino, non è riuscito a staccarsi dalla terra. E’ dovuto tornare, ci dice, per il quartiere e per i ragazzi. Adolescenti o pargoli che, quotidianamente, vengono da lui per comprarsi la merenda da portare a scuola o semplicemente per passare i pomeriggi e le serate in compagnia. Luis è il punto di ritrovo, è la piazza. Tutti durante la giornata passano di qui, anche solo per chiacchierare o spettegolare. Chiedono e danno a Luis informazioni. Luis non gestisce solo l’alimentari, gestisce da sempre la vita di quartiere. Organizza eventi, si mobilita per salvare i ragazzi dai pericoli di una vita senza stimoli, si preoccupa degli anziani soli. Ci servirebbe un Luis per ogni quartiere, penso. Ci sediamo fuori al tavolino, poco dopo ci raggiunge. Ama parlare e ci mette subito a nostro agio. Non servono più di 10 minuti per sentirsi in un qualche modo a casa. Gli chiediamo del quartiere, delle problematiche, di cosa cambierebbe:“ Tor Fiscale è bellissimo” ci dice. Si conoscono tutti, c’è coesione. Vi è soprattutto la condivisione di un passato difficile ma felice; di problemi comuni, ma di una grande volontà mirata a risolverli insieme. Non sembra di stare in una città come Roma, mi chiedo piuttosto se siamo finiti in un paese. Eppure non tutto è perfetto: mancano i servizi e le scuole; il parroco è troppo anziano per portare avanti la parrocchia, unico vero fulcro della vita collettiva; il comitato di quartiere è un’entità a sé, prevalentemente a gestione familiare; non tutti gli stranieri, soprattutto una comunità di rumeni, sono riusciti ad integrarsi, e le famiglie insediatesi nelle nuove costruzioni non riescono a socializzare e non vengono viste di buon occhio. Eppure queste persone vivono bene, non cercano il comfort assoluto, non vogliono andarsene né pensano di cambiare volto al quartiere. Amano Tor Fiscale per quello che è, perché nel suo piccolo riesce a dargli tanto, riesce ad inserirli in un’atmosfera che la grande città ha perso da tempo, una dimensione che nelle mille difficoltà è fortemente umana. Nel frattempo è arrivato anche il ragazzo del parco, insieme ad un suo amico che si fa chiamare Frillo.
Frillo è il “ganzo” del borgo. Conosciuto da tutti, Luis ci racconta che “se c’è Frillo nessuno paga e si entra in ogni locale. Bisogna farselo amico, altrimenti…”. Ci guarda, si informa sulle nostre intenzioni e ci chiede chi siamo. Mentre ascolta sorride amichevolmente, per fortuna. Ci da anche una dritta: un vecchio falegname, in fondo al quartiere verso ovest, ha molte foto d’epoca del quartiere e si chiama Pietro. Frillo non rimane per molto tempo e se ne va prima di consentirci di chiedere maggiori informazioni. Decidiamo comunque di andare a cercare il vecchio Pietro.
Ci incamminiamo verso ovest. Le case, alcune più vecchie e pittoresche altre più nuove o curate, sono le uniche costruzioni che vediamo. Non ci sono marciapiedi, si cammina per la strada e ogni tanto bisogna fermarsi al lato della via per far passare una macchina o il 663, l’unica linea autobus che attraversa il quartiere. Tra le case si nascondono molti falegnami, qualche fabbro, un dentista, ma nessuno di questi si chiama Pietro. Arriviamo fin dove ci è concesso, fino ad incontrare l’ultimo falegname. Conosce Pietro e ci indica la casa. Sfortunatamente non è ancora tornato, ma ci conferma che è il più anziano e il più informato sulla storia della borgata. Amareggiati, torniamo sui nostri passi fino a raggiungere nuovamente la via di Luis e della parrocchia. Tentiamo un approccio con il parroco che, per via della sordità e di un impegno imminente, non ci degna di uno sguardo e se ne va a passo svelto. Incontriamo però un signore sulla cinquantina, ci avvisa che il parroco non tornerà prima di un’ora e ci chiede il motivo della nostra visita. Basta dire la parola “acquedotto” per vedere sul suo volto l’accenno di un sorriso e sentire “io abitavo fra gli archi, ho conosciuto Madre Teresa di Calcutta quando è venuta a vivere qui”. Una sera, con il padre, vennero qui a Tor Fiscale, in cerca di una casa. La mattina dopo avevano costruito quella che sarebbe stata la loro casa per tanto tempo, “senza fondamenta e attaccata con gli sputi”. Incompleta, brutta, poco resistente, ma la sola possibile. Quella casa, un giorno, venne demolita per liberare l’acquedotto. Gli assegnarono una nuova abitazione ad Ostia, ma rinunciò per continuare a vivere qui con la moglie e i figli. Alla consueta domanda circa cosa cambierebbe nella zona, risponde anch’egli che il quartiere “è bello così com’è”, ma lamenta la totale assenza di strutture scolastiche: “c’era una scuola poco più in là della chiesa ma è stata tolta. E’ stata la nostra rovina, ora mancano i bambini, la chiesa è sempre vuota e i giovani vanno fuori, anche i miei figli”. Anche lui ci racconta della forte coesione fra gli abitanti del quartiere; della voglia di aiutarsi che li ha spinti a fare le “ronde” notturne per sorvegliare le vie, in seguito ad atti di delinquenza frequenti; della totale indifferenza del comitato nei confronti dei cittadini. Poco dopo arriva la moglie, devono andare via e ci salutano con molto calore.
E’ sera, molti tornano a casa dopo una giornata di lavoro e decidiamo anche noi di incamminarci verso la via del ritorno. Ripercorriamo la strada al contrario verso il parco, accanto agli archi, fino a Porta Furba, consapevoli di sapere un po’ di più della vita di questo borgo, di avere contribuito in parte alla composizione di questo puzzle interminabile, ma al contempo pienamente coscienti che molti pezzi non combaceranno mai, che il quadro resterà sempre incompleto, come è incompleta Roma, città complicata, interminabile, misteriosa, imperfetta.
“Di quest’onda che rifluisce dai ricorsi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole”
da Calvino I., “Le città Invisibili”
Barbara Cardone